Giuseppe Grattacaso
Italia, primo agosto/14

La casa dei vicini

«Non mi piace pregare, lo faccio raramente, ma questa volta ho pregato Dio a bassa voce perché la bomba esplodesse e si portasse via la casa e la mia vita»

La casa degli Stone sembrava più fresca
della sua e anche più buia. Bill si chiese
se le piante avessero qualcosa a che fare
con la temperatura dell’aria.
Raymond Carver

Mi hanno lasciato le chiavi di casa. Non c’è niente di difficile in quello che devo fare: controllo che tutto sia a posto, ogni tanto apro le imposte e innaffio le piante sul terrazzo. Sono partiti da due giorni, prima del previsto. Hanno deciso di anticipare l’inizio della vacanza quando hanno saputo che ieri in ogni caso avremmo dovuto essere tutti via dalle nostre case. In una strada del quartiere tre settimane fa, gli operai che lavoravano alle tubature dell’acqua, hanno trovato una bomba. L’aveva sganciata, durante la seconda guerra mondiale, un aereo inglese. Da allora la bomba è rimasta immobile, addormentata nel terreno, mentre sulle sue duecentocinquanta libbre costruivano una strada, asfaltavano, passavano automobili e camion. A pochi passi dai suoi trenta chilogrammi di tritolo, una ventina tra uomini e donne cucinavano i loro pasti, dormivano, urlavano, si davano baci. Ieri mezza città è stata evacuata, perché l’ordigno fosse disinnescato.

La casa di Fabio Ricci e Sofia Della Pietra è più grande della mia. Malgrado sia piena di oggetti, è sempre pulita e ordinata. Ci sono tutti gli elettrodomestici che servono, suppellettili e soprammobili, i quadri alle pareti. Non appena oltrepasso la porta, sento l’odore tipico dell’abitazione. Non è l’odore dei vicini, ma proprio quello inconfondibile del loro appartamento.

Ieri alle otto del mattino avevamo l’obbligo di abbandonare le abitazioni e di recarci oltre la zona a rischio. Fabio e Sofia sono partiti la sera prima. Dalla finestra ho visto lui che caricava con attenzione il bagagliaio dell’auto, cercando di occupare lo spazio in modo razionale. Lei ha portato le ultime borse. E queste dove le metto, ha chiesto. Fabio ha guardato verso la finestra alla quale ero affacciato, ha sorriso e ha alzato il braccio per salutarmi. Basta innaffiare le piante un giorno sì e uno no, ha urlato. E poi: se succede qualcosa, sai dove trovarci. Ho alzato la mano destra.

Io invece non sono andato via. Ieri dopo le otto, voglio dire, non ho abbandonato la casa. Ho solo attraversato il pianerottolo e sono entrato nell’appartamento dei Ricci. Ho abbassato le persiane quasi del tutto e sono rimasto in una penombra ovattata ed avvolgente. Ho liberato il tappeto del salotto dal tavolino basso, mi sono inginocchiato sul pelo morbido e ho cominciato a pregare.

Non mi piace pregare, lo faccio raramente, ma questa volta ho pregato Dio a bassa voce perché la bomba esplodesse e si portasse via la casa e la mia vita. Dalla mia bocca usciva una cantilena monotona e rassicurante, la stessa che avevo ascoltato quando ero un bambino dalle labbra di mio nonno. Ho pregato per ore, forse ho dormito anche, mentre il silenzio che c’era tutto intorno mi scoppiava nelle orecchie, lo sentivo pesare sulla mia testa, rendere più calde le strade.

Odio i miei vicini, ma mi piace la gentilezza con cui Fabio mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Quando vai in vacanza, ti restituiamo il favore, mi ha detto. Io non vado mai in vacanza, me ne sto rintanato nella mia casa e penso che vorrei essere come Fabio, che odio. Mi piacciono le mani curate di Sofia, gli svolazzi della sua gonna rosa, le tazzine del caffè che usa quando ci sono ospiti, le piante sul terrazzo che crescono rigogliose in così poco spazio. Vedo le sue mani e vorrei che mi accarezzassero. Cerco di avvicinarmi il più possibile ai suoi capelli castani per respirare profondamente il suo profumo, e la odio. Odio i mobili, gli utensili da cucina allineati con metodo, i vasi dei fiori, le vecchie bottiglie disposte nella credenza.

Ho pregato inginocchiato sul loro tappeto, che ogni tanto carezzavo con la punta delle dita. Nel pomeriggio si sono sentiti i primi rumori di passi per la strada, il sibilo dei pneumatici sull’asfalto. Ho alzato una persiana e la luce intensa mi ha ferito gli occhi.

Non è successo nulla, naturalmente. Non c’è stata nessuna esplosione. Anzi, non è vero, non è proprio così. Gli artificieri hanno fatto il loro lavoro, hanno liberato la bomba dai sacchi di sabbia, sotto i quali la bomba era stata messa in sicurezza, il più esperto di loro ha disinnescato la spoletta, hanno caricato l’ordigno su un camion e poi in corteo si sono recati in un spazio disabitato non distante per farla brillare.

Tutto si è risolto in un buco nel terreno, uno scoppio contenuto e uno sbuffo, uno zampillo di terra e pietrisco. Va spesso a finire così. Ci si aspetta il botto, e la deflagrazione in effetti arriva, ma intanto abbiamo preso le nostre precauzioni. I sacchi di sabbia sono stati messi al posto giusto, la spoletta disinnescata, lo scoppio diventa uno spettacolino senza conseguenze, un video su youtube con i contatti che si riducono man mano che passano i giorni. Nessun ferito, i morti, se ci sono, sono quelli di sempre.

Quante volte siamo passati in auto sulla bomba e non ne sapevamo nulla? Quante volte Fabio e Sofia hanno rischiato di finire a brandelli? E i ciclisti, i postini, gli operai del gas, le ciurme di studenti sugli autobus alle sette del mattino? Non è successo niente. L’esplosivo, in effetti, ce lo portiamo dentro e andiamo avanti con l’accortezza di non scuoterlo troppo, cercando di non rischiare correndo con eccessiva foga, di non stare accanto a fonti di calore.

Ieri sera non sono tornato nel mio piccolo appartamento sporco e sgombro di mobili. Ho dato l’acqua alle piante di Fabio e Sofia e sono restato da loro. Il sole è tramontato e a poco a poco i mobili hanno perso consistenza, i quadri alle pareti hanno mostrato paesaggi indefiniti, figure diventate ectoplasmi. Mi sono accoccolato sul tappeto e mi sono addormentato. Ho sentito il suono della sirena di un’autoambulanza che diventava sempre più lontano.

* * *

Ci sono solo biscotti integrali e una scatola di corn flakes che deve essere aperta da molto. Ho rovistato tra i mobili di cucina. Niente altro con cui fare colazione. Mi preparo il caffè. Intanto, mentre aspetto che sia pronto, vado in bagno. Piscio, mi lavo la faccia, mi guardo allo specchio. La barba è lunga e avrebbe bisogno di essere spuntata, le occhiaie sono profonde. Dalle ascelle sale un cattivo odore. Nel mio bagno non ci sono tutti i flaconcini che qui occupano il ripiano sotto lo specchio. Creme antirughe, fluidi dopobarba, olio per i capelli, crema rassodante, rinfrescante, per l’abbronzatura prolungata, struccanti. Applico sulle occhiaie un prodotto giallastro.

In cucina siedo sorseggiando il caffè e poi guardo il calendario che è sulla parete accanto al frigo. I miei vicini hanno cerchiato la data del 18 luglio. Vorrei sapere cosa significa. Un compleanno, la visita dal medico, la bolletta da pagare. Per qualche minuto rimango seduto, aspettando che sia completamente giorno, poi mi alzo e strappo la pagina del calendario. Oggi è il primo agosto.

Apro la finestra del soggiorno e guardo la strada quasi completamente deserta. C’è solo un’auto ferma al semaforo. Una signora con un piccolo cane al guinzaglio attraversa, senza fretta.

Il borsone sportivo con cui sono entrato ieri nella casa di Fabio e Sofia è accanto al divano. Prendo la camicia bianca e mi libero della maglietta sudata. Indosso la camicia, ripongo la maglia nel borsone e controllo che sotto l’altra maglia, sotto le mutande e i calzini, l’esplosivo sia sistemato con cura. Raccolgo meglio il filo, accarezzo il detonatore. Esco, chiudo a chiave la casa dei vicini e mi dirigo verso la stazione.

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