Francesco Arturo Saponaro
Visto al Festival della Valle d’Itria

Francesca ritrovata

Da Dante a Pellico a Mercadante. Rappresentata a Martina Franca per la prima volta l’opera tratta dalla tragedia “Francesca da Rimini” scritta dal patriota piemontese e musicata dal compositore pugliese. Uno scoop di successo, direttore Fabio Luisi, regia Pier Luigi Pizzi

Un insolito esordio ha segnato il 42esimo Festival della Valle d’Itria, che si è di recente concluso in Puglia a Martina Franca, cittadina barocca che domina un panorama punteggiato di trulli. Dopo centottantacinque anni dalla composizione, che risale al 1831, è andata per la prima volta in scena l’opera Francesca da Rimini, di Saverio Mercadante (1795-1870). Si tratta di un dramma per musica su versi di Felice Romani, celebre librettista di prima metà Ottocento, tratti dall’omonima tragedia di Silvio Pellico, poeta e patriota piemontese, tragedia che apparve nel 1815 con largo successo. Fonte originaria era ovviamente il monumentale canto V dell’Inferno dantesco, con lo struggente episodio di Paolo e Francesca. Composta da Mercadante nel 1830-31 su commissione del teatro lirico di Madrid, fino a ieri la partitura si ascriveva al drappello delle “prime mancate”, che non difettano neanche nella storia del melodramma.

Francesca da Rimini 2Perché l’opera non andò in scena a suo tempo? Sono supposizioni, ma la protagonista, il soprano Adelaide Tosi – indicata all’impresario locale dal musicista stesso, del quale in passato era stata amante – pare che si fosse presentata alla vigilia delle prove in pessime condizioni vocali, a detta proprio di Mercadante, creando così insormontabili problemi. Il bello è che, negando le sue responsabilità, la Tosi stessa si premurava di diffondere accuratamente per tutta Madrid la voce che la musica fosse mal scritta, e non conforme alla commissione. Fatto sta che Francesca da Rimini non vide la luce né nella capitale spagnola, né subito dopo alla Scala di Milano dove Mercadante, lasciata la Spagna, era riuscito a piazzare la partitura, per poi vedersela anche qui rifiutata. Risultato: mai alcuna esecuzione fino ai giorni nostri, nonostante l’opera fosse completa in ogni sua parte. Del lavoro esistono due esemplari manoscritti: l’autografo dell’autore nella Biblioteca della Musica di Bologna, e una copia idiografa, redatta cioè sulla base dell’autografo e sotto la sorveglianza del musicista, nella Biblioteca Històrica Municipal di Madrid. L’odierno recupero di questo titolo, attraverso il lungo e scientifico procedimento dell’edizione critica, si deve agli studi e alla competenza di Elisabetta Pasquini. Qualche anno fa sembrava che la riproposta moderna si potesse fare nel Festival di Salisburgo, auspice Riccardo Muti che in quella sede si adopera da tempo anche in favore della scuola operistica napoletana. Ma il progetto austriaco non si è poi concretato.

Tanto più meritorio, quindi, lo sforzo del Festival della Valle d’Itria, sforzo giustificato dalla solida fama che il repertorio operistico di Saverio Mercadante vanta da sempre nella storia della musica. Pugliese di nascita, come molti altri musicisti meridionali tra i quali Giovanni Paisiello, presente anch’egli nel cartellone martinese di quest’anno, Mercadante si è formato ed è cresciuto nella fucina della scuola operistica napoletana dei secoli XVII, XVIII, e inizio XIX. Francesca da Rimini si colloca all’apice della giovinezza del musicista di Altamura, che qui, pur non avendo ancora maturato l’omogeneità drammaturgica e la padronanza formale dei suoi titoli maggiori, dimostra attenzione alle coeve, altissime fortune rossiniane specie nel tipo di agilità vocali, nel trattamento dei colori in orchestra, nell’impiego drammatico di stringendo o crescendo, nel disegno di numerosi insiemi in forma di duetti, terzetti, o nel maestoso concertato del finale primo. Si segnalano diversi momenti di vocalità autenticamente virtuosa: tra questi, l’aria della protagonista con arpa sola, e poi con orchestra, nell’atto primo; e più avanti, nell’atto secondo, la notevole È l’ultima lagrima, sempre di Francesca, con accompagnamento di arpa e corno inglese obbligati. Ma in più passaggi dell’opera, e nel trattamento dell’orchestra, affiorano espressioni di alta levatura artistica. E occorre dire che la qualità del congegno librettistico messo a punto da Felice Romani concorre egualmente a elevare la temperatura e la funzionalità drammaturgiche dell’opera.

Il successo dell’odierno recupero si deve in gran parte all’intelligente lavoro di concertazione del direttore Fabio Luisi, sul podio dell’Orchestra Internazionale d’Italia, che nelle prove preparatorie ha saputo accortamente portare alla luce i pregi della partitura, con un lavoro sistematico, ben lontano da ogni rischio di approssimazione. E, in sede di esecuzione, attento è apparso anche l’equilibrio fra palcoscenico e orchestra, non facile da mettere a punto in un’opera che intreccia episodi incalzanti ed estese parabole liriche, e che oltretutto è priva di tradizione interpretativa. Buona anche la resa del Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca, preparato da Cornel Groza.

locandinaBen preparato a un debutto tanto impegnativo è apparso il soprano Leonor Bonilla, nel ruolo di Francesca. Penetrando con criterio la dimensione interpretativa del suo personaggio, ella ha saputo attribuirgli una linea convincente grazie alla sua vocalità morbida e consapevole anche nelle agilità. Va tuttavia rilevato il limite di una declamazione che fa percepire ben poco del testo. Il personaggio di Paolo era “en travesti”, secondo gli usi dell’epoca, interpretato cioè da un contralto, Aya Wakizono, quadrato sul piano tecnico ed efficace su quello interpretativo, con esiti più che apprezzabili nella riuscita drammaturgica. Inizialmente modesto, su un’aria di sortita quasi a freddo e alle prese con acuti difficili, il tenore turco Mert Süngü è però progressivamente cresciuto nel ruolo di Lanciotto, consorte di Francesca, fino a esibire notevoli risorse vocali, non disgiunte da un’incisività attoriale che ha ben tornito il suo personaggio. E, a suo merito, va sottolineata la perfetta sillabazione, che ha consentito all’ascolto di cogliere la gran parte delle parole. Pienamente in parte, sotto ogni aspetto, il basso Antonio Di Matteo come Guido da Polenta, padre di Francesca. Com’era consuetudine per le opere dell’epoca, un corpo di ballo è intervenuto con alcuni inserimenti coreutici, del tutto convenzionali, firmati da Gheorghe Iancu.

A parte il disegno luci di Camilla Piccioni, l’intero apparato visivo, regia scene e costumi, è stato affidato a Pier Luigi Pizzi. Scena completamente spoglia, avente a sfondo una parete del cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, dove si tengono gli spettacoli di maggiore richiamo. Ai lati, due immensi velarî neri, svolazzanti al vento e costati carissimi, pare, al Festival, velarî neri che simboleggiano il buio dell’inferno. Basandosi poi, come fa sovente, sulla contrapposizione cromatica di bianco e nero, Pizzi ha vestito i protagonisti per lo più di colori pastellati e tessuti leggeri, che al vento svolazzavano con bell’effetto. Aperto, cordiale successo finale, essenzialmente grazie sia all’interesse e alla qualità della riscoperta, sia all’alto livello della realizzazione musicale messa a punto da Luisi.

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