Vincenzo Nuzzo
Tra società e filosofia

La scienza di pensare

Invece che di «intelletto» si parla ormai solo di «conoscenza»: la riflessione in sé ha perso valore in favore della funzionalità. Non sarà il caso di tornare alla Dottrina medioevale dell'intelletto?

Ciò che oggi ancora c’è da imparare dalla dottrina medievale dell’Intelletto (DMI) è sostanzialmente che l’intera concezione moderna del conoscere (filosofica e scientifica) si basa sull’assunto (erroneo dal punto di vista metafisico) secondo il quale la pura e mera funzionalità costituisca non solo una realtà ma anche una realtà pienamente auto-giustificata. Con la conseguenza poi che essa, proprio come tale, sia in grado di fungere esattamente da paradigma per ciò che va inteso come «intelletto». Da un certo momento in poi, insomma, l’intera coscienza umana indagante si è rivolta alla sola Natura, per interrogarla circa ciò che è intelletto. E così ha assunto le sue risposte come verità paradigmatica.

È sulla base di tale rovesciamento, ormai da noi tutti completamente dimenticato, che può sembrare astruso ed inaccettabile parlare oggi ancora nei termini della DMI. Laddove va detto che essa poi, pur essendo religiosa (cristiana, ebraica ed islamica), si riallacciava comunque anche a tutto ciò che in quel tempo veniva considerato come «scienza», ovvero le dottrine di pensatori come Platone, Aristotele, Proclo, Plotino ed altri (sebbene comunque la dottrina dell’Intelletto sia stata sempre prevalentemente platonica). È un fatto però che la scienza è ormai molto lontana da questo sottofondo puramente riflessivo, e peraltro non poco contemplativo. Dunque non è questo il punto. Il punto, insomma, non è affatto il diverso paradigma di scienza andatosi poco a poco affermando in quel processo che viene definito come «progresso dell’umanità». Questa è infatti un’evidenza storica. Essa però non contiene in sé alcun dover essere. In altre parole nulla impone che l’evidenza inoppugnabile di un del tutto nuovo paradigma di scienza imponga anche che esso debba essere considerato paradigmatico. Il che significa allora che, almeno in via di principio, nulla vieta che la DMI venga presa in considerazione nel porsi il problema di cosa significhi conoscere.

Questo è il primo punto dal quale partire. Il secondo punto si delinea nel momento in cui si prende atto di un’ulteriore evidenza storica, e cioè quella costituita dalla radicale differenza tra il paradigma di scienza affermatosi progressivamente in Occidente e quello che è tuttora presente nella consapevolezza dell’Oriente. In Oriente infatti non vi è stata affatto una così netta divaricazione tra antico e moderno; in modo tale che si può dire che i principi della DMI vi risultano tuttora perfettamente comprensibili e, in una certa misura, anche condivisibili. Sebbene vada anche tenuto conto del progressivo affermarsi anche lì, nel corso del XX secolo di un paradigma scientifico di tipo occidentale e quindi radicalmente moderno.

Ebbene, sulla base di questi due fatti, possiamo guardare alla DMI con una disinvoltura che altrimenti ci verrebbe vietata dai canoni moderni della concezione di ciò che è «intelletto». Ma qui ci verrà immediatamente incontro la profonda revisione moderna del termine. Una revisione così profonda che il termine è praticamente svanito almeno nel linguaggio scientifico (persistendo ancora solo nel linguaggio filosofico, e comunque non nel significato che esso aveva un tempo). Dunque, invece che di «intelletto» si parla ormai solo di «conoscenza». Ed a tale sostituzione corrisponde poi perfettamente il valore e ruolo primario che in filosofia ha assunto la questione epistemologica, ovvero la serie di problemi che riguardano solo e soltanto la conoscenza nella sua purezza (laddove proprio in tal modo non esiste più alcuna metafisica).

Orbene, una volta constatato questo, bisognerà andare subito al punto focale della DMI. Che qui presento nella forma specifica che ebbe presso un suo grande teorico, ovvero Dietrich von Freiberg (conosciuto anche come Teodorico di Freiberg). Mi riferisco in particolare al luogo del suo libro in cui egli passa dall’analisi dell’”intelletto agente” (IA) all’analisi dell’”intelletto possibile” (IP) [Burkhard Mojsisch (a cura di), Dietrich von Freiberg. Abhandlung über den Intellekt und den Erkenntnisinhalt, Meiner, Hamburg 1980, III p. 66-122]. Ebbene è proprio qui che il lettore occidentale e moderno potrebbe decidere di gettare via il libro dopo essersi dedicato all’ingrato quanto inutile sforzo di seguirne il discorso (peraltro in un tedesco difficilissimo). L’affermazione di Dietrich è infatti per noi moderni a dir poco scandalosa. Tutto ciò che noi intendiamo come conoscere, ed inoltre l’ontologia stessa del conoscere (ovvero ciò che noi intendiamo come intelletto conoscente), non è in realtà altro che difettivo in termini di essere. In altre parole si tratta di un vero e proprio nulla di essere. Sta proprio qui la radicale differenza tra IA e IP, laddove il primo è l’intelletto trascendente (proprio di Dio, degli angeli e dell’uomo nella sua somiglianza a Dio) ed il secondo non è invece altro che l’intelletto immanente (umano in senso puramente naturalistico). Ma quest’ultimo è per noi moderni l’unico che davvero esista. Ebbene esso è esattamente quello che noi diamo come il conoscere paradigmatico stesso, ovvero il conoscere naturale. Si tratta insomma dell’intelletto inteso come funzione conoscitiva in rapporto con le informazioni sensoriali. È il conoscere come funzione della mente e del cervello. Non vi è assolutamente nulla di moderno che sfugga all’ambito così definito – vi rientrano infatti pienamente l’intera filosofia moderna (da Cartesio in poi) senza alcuna eccezione, ed anche l’intera dottrina scientifica della mente (neurofisiologia e psicanalisi incluse).

Pertanto si può bene, quali moderni, rifiutare in blocco e con sdegno la proposta di Dietrich, affermando che essa costituisce una mera fanfaluca metafisica, ormai decisamente superata nell’umana consapevolezza. E che si faccia o meno questo è un’insindacabile questione di libera scelta. Tuttavia, se per qualunque motivo non si fa questa scelta, ci si potrà allora soffermare con curiosità ed interesse davanti all’affermazione del pensatore. L’intelletto difettivo di cui egli parla è infatti appunto quello che si risolve nella funzione conoscitiva naturale. Quest’ultima è però una vera e propria «potenza», ossia qualcosa che è in grado di superare a piè pari quell’abisso esistente tra soggetto ed oggetto che è poi stato ammesso dall’intera filosofia moderna (anzi essa si affatica ancora oggi intorno alla comprensione di esso). Abisso che costituisce di per sè un mistero, così come lo è senz’altro anche la potenza che lo supera. Orbene, l’atto conoscitivo nella sua pienezza (ossia ciò che filosofia e scienza moderna danno come l’evidenza stessa del conoscere nella propria totale auto-giustificazione, e cioè il conoscere come «funzione») coincide pienamente proprio con questa così misteriosa potenza. Che indubbiamente non potrebbe sussistere se non costituisse un vero e proprio «essere», ovvero molto più che una del tutto virtuale «funzione» (qualcosa che non si vede e non si tocca, eppure esiste, dato che i suoi effetti sono tangibili). Ora, Dietrich ci dice solo che tutto ciò è incomprensibile senza presupporre uno sfondo trascendente che possa appunto giustificare una funzione altrimenti di per sè priva di qualunque sostegno di essere. E tale sfondo trascendente non è poi altro che l’«essere intellettuale» (IA) nella sua pienezza, ovvero la piena «attualità» del conoscere. Laddove invece la funzione non è altro che «potenza» di essere, ossia pura potenzialità (virtualità). Dunque non molto lontana dal costituire un vero e proprio nulla.

Non dirò altro. Pongo solo al moderno lettore la seguente domanda: – chi è più prossimo all’obiettività conoscitiva, Dietrich (DMI) oppure la moderna dottrina filosofico-scientifica del conoscere?

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