Valentina Fortichiari
Zavattini e la Bassa in mostra a Reggio Emilia

Il grande Za

Il Po e la sua Luzzara, l’Emilia e la sua gente come fonte d’ispirazione per la sua produzione artistica e culturale. È il tema dell’esposizione alla Biblioteca Panizzi sull’autore di “Totò il buono” (poi diventato “Miracolo a Milano”) e del bel “ritratto” di una persona che lo conosceva bene…

È in corso a Reggio Emilia, alla Biblioteca Panizzi, la mostra “Cuore padano – Cesare Zavattini e la Bassa”, a cura di Giorgio Boccolari, Alberto Ferraboschi e Roberta Ferri (fino al 24 aprile). Tratti dal catalogo (Biblioteca Panizzi Edizioni) pubblichiamo, oltre ad alcune immagini, brani del saggio di Valentina Fortichiari.

***
Za e la Bassa. Un marchio doc distintivo della sua scrittura (e dei suoi epigoni o imitatori), alla maniera di quello stampato sulle forme di grana emiliano. Rileggere Za oggi – in un panorama letterario italiano asfittico, spesso mediocremente provinciale – fa scoprire suggestioni e risonanze molto più ampie, una vasta tenuta, per così dire, di fantasia e di stile che supera i confini della Bassa, dell’Italia stessa, e salda lo scrittore emiliano ai grandi modelli europei ed extraeuropei del Novecento. Non a caso lo scrittore inglese John Berger, pittore e cultore d’immagini, critico d’arte, ha parlato di Un paese, il libro con Strand, come di una delle primarie «finestre sul mondo» che egli stesso, giovane, ricordi (…)

Za 1Nella formazione di Zavattini, poco ortodossa, molto da curioso e vorace autodidatta, si possono riconoscere connotazioni, echi, sfumature che lo riconducono alle sue origini mai disconosciute anzi valorizzate sempre: quelle di chi è nato nelle terre del Po, in una regione di sangue caldo, di umanità estroversa e rumorosa, di patti suggellati da robuste strette di mano e mai disattesi. Un imprinting peculiare, da coltivare con i ricordi, con gli occhi colmi di immagini, che in Za ha inciso – venerabile – il senso della famiglia, degli affetti, e l’indole di un animo gentile, primitivo nella semplicità disarmante ma nobile, timido e insieme travolgente nella parola detta
 e scritta. I suoi valori morali, sociali, letterari stanno alla Bassa come la cucina, la buona tavola costituiscono il luogo primario di accoglienza e di aggregazione per ogni nato nelle terre del lambrusco e del grana.

Za è scrittore della Bassa proprio per quel misto di solenne e insieme familiare che caratterizza la sua intera produzione. Non si fece mai tentare dal respiro lungo del romanzo, soprattutto nei suoi esordi di scrittore: forme brevi, storiette o racconti lunghi (Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo, Totò
 il buono), dove conobbe picchi originalissimi e mai toccati prima di lui. Za poeta del frammento, di immagi
ni lampo e di frasi che si reggono sulla punta acuminata di un ago. (…) Ma tutti gli elementi che concorrono a definire la Bassa (e che qui cercheremo di analizzare) sono presenti anche nell’ultima importante produzione letteraria, le opere mature (penso a Straparole, Non libro più disco, La notte che ho dato uno schiaffo a Mussolini). Viene da lì, da quel paesaggio unico al mondo, di cui Za ha lasciato descrizioni liriche formidabili, vengono dal Po «pregno di onde sottaciute», di segreti umori, ogni gesto, ogni parola pronunciata con l’impeto, la passione scaturita dalla grana del silenzio e insieme da un grido fiero e solenne, vengono dalla Bassa lo spirito e la forza polemica che pervadono l’impegno politico, le battaglie in difesa della Pace e di un sapere democratico, condiviso da Tutti, temi sterminati del suo pensiero, e ogni azione civile, i progetti sociali e culturali realizzati e in parte regalati, le conversazioni radiofoniche provocatorie e spiazzanti, e infine quel capolavoro testamentario e irruente di uno Za sceneggiatore, regista e interprete della Veritàaaa.

Dove Za abbia stabilito, nel suo intimo, la linea d’orizzonte della propria multiforme creatività, possiamo facilmente immaginarlo: la punta della matita partirebbe da Luzzara, nella pianura padana, seguirebbe l’alveo del Po per saggiare l’abilità delle ali, e infine spiccherebbe il volo verso altre terre lontane che si affacciano sull’acqua, come, per fare qualche esempio, certe aree nord europee, scandinave, le terre magiche dell’aurora boreale, oppure il Messico, le Americhe del Sud, paesi dalla fantasia letteraria surreale e bizzarra, sovrabbondante. Avrà Zavattini parlato del suo Po a Gabriel Garcia Marquez? Probabilmente sì, persino a Roma dove il Tevere mostra altri colori, e dove i prodotti della sua Bassa non mancavano mai, anche e soprattutto per gli ospiti. Il giovane sudamericano frequentò ventenne la Scuola di cinematografia dove insegnava Za, negli anni Cinquanta, i due si conobbero e diventarono amici indissolubili. Probabilmente Za, maestro di convivialità, offrì anche a lui, come a tutti coloro che passavano da Via Sant’Angela Merici, il lambrusco con schegge di grana. Uniti nel segno di un paese ma anche nella comune radice letteraria di affabulatori immaginifici, il basco che Za regalò a Marquez, e col quale Marquez volle essere seppellito, fu anch’esso un marchio di fabbrica.

Za 2E se Gabriel Garcia Marquez avesse potuto fare un salto a Luzzara a vedere coi suoi occhi il paese tanto caro a Zavattini, avrebbe consigliato anche a lui come fece con Strand di non perdersi assolutamente «il Po, un caseificio, le biciclette che ci sono dappertutto, Luzzara vista dalla fornace verso sera in mezzo alla nebbia e ai fumi dei comignoli, pescatori, cacciatori, braccianti, le donne che fanno la treccia, le donne che fanno i cappelli, quelli che giocano a carte, certe file di pioppi»? Raccomandazioni che in poche righe e in pochi tratti (il Po in testa, la nebbia, filari di pioppi), oggetti indispensabili (biciclette, doppiette, canne da pesca, carte), sono una sintesi eloquente della Bassa, la sua Bassa.

Nel testo introduttivo a Un paese Za può affermare con candore «Non sapevo niente di Luzzara» quando consigliò al fotografo americano Paul Strand di trovare nel suo paese «il punto di luce e di linea» delle cose che hanno assorbito presenze e fatica, oppure «sussurri e linguaggi fatali» di un luogo che doveva essere per lui fatidico. Fingeva – sornione – di non conoscere nulla di Luzzara, di avere non più che ricordi, di sapere soltanto che nel testamento aveva lasciato scritto «seppellitemi dove sono nato». Ma sui banchi del ginnasio un giovanissimo Cesare s’era levato rabbioso contro il professore quando questi leggendo in una lettera latina del Petrarca che il poeta era passato da Luzzara, l’aveva definito «un paludoso paese di rane e di zanzare».

Il richiamo del sangue lo sentì presto: la sua Luzzara, fatta di reminiscenze infantili finché non vi arrivò quell’ame- ricano col quale condividere l’avventura di capire l’Italia, fu il punto di partenza di un viaggio che per Za avrebbe finito col divenire una personale Odissea, un ritorno a casa. I due erano pressoché coetanei, entrambi avendo ampiamente superato la cinquantina. Paul Strand, passando anni tra le “cose” grandi, aveva acquisito una speciale esperienza, una sorta di “occhio rinascimentale”, quel saper vedere oltre la realtà fisica della materia (non l’aveva pure Za un occhio rinascimentale?), sulla rotta di un misticismo che era amore per la Native land, la propria terra, i lari familiari, per i quali si è disposti a rischiare qualcosa, o tutto. Il patto tra i due partiva da una eccellente base comune di intenti, di sentimenti, pur se – nel tempo – non ricordiamo più di chi fosse stato
 il progetto di partenza; ma questo dettaglio non ha importanza, forse nell’empatica e simultanea idea di cercar radici i due si compresero alla perfezione: sposando la parola all’immagine o viceversa, arti dove entrambi erano campioni, intrecciavano i loro aneliti al raccontare, al dire tutto con pochi lievi tratti di destini. Per un americano approdato nel paese dove – col vento – ci si deve abituare a sentire il cigolio del luccio di ferro sulla torre e non si comprende la lingua, tanto meno il dialetto, il rischio era convivere con quei paesani dalle facce parlanti, riconoscerli, ritrarli. Impresa faticosa ma – insieme e dopo – meravigliosa. Attraverso le immagini Strand educava lo stesso Zavattini al ritrovamento del patto di amicizia, di identità che lo legava ai suoi riconosciuti fratelli, i contadini (lui che da un Truman Capote era stato definito «contadino timido»), lo avvicinava a loro, gli mostrava il marchio di appartenenza.

Za 4«Questo è il Po»: è con quest’incipit, perentorio atto di presentazione, che il libro si apre. Questo il Po, il fiume delle radici. I volti ritratti da Strand, nel libro «tutto al plurale»,entrano nella storia senza nomi né cognomi: non è necessario un certificato. Strand documenta quel che era l’essere, l’essere vivi in quel tempo e in quel luogo nella Bassa, senza nessun altro commento che le espressioni, gli sguardi fissati dal suo sguardo, occhi che guardano dentro occhi, senza alcuna messinscena. Nei suoi perfetti bianco e nero è sorprendente la naturalezza degli individui, esseri-attori di un mondo contadino preindustriale, a neppure un decennio dalla fine della guerra. Le linee, i tratti marcati dei volti, meravigliosi tutti, hanno l’espressività della vita vissuta che parla per loro. (…) Dall’anno 1941 Zavattini aveva lasciato Milano, si era deciso al grande salto nella capitale per avvicinarsi a De Sica e approdare al cinema, ma il richiamo della sua terra lo ha posseduto, irresistibile sempre, ogni volta che la mente ha avuto bisogno di staccare per tornare a odori e sapori familiari, ai sensi concreti di una appartenenza. «Quando arrivo da fuori, appena tocco questa mia zona natale, comincio senza accorgermene a parlare in dialetto», dialetto come ponte di comunicazione, idioma di affetti basilari. (…)

Ogni periodico ritorno a Luzzara ha sempre significato azzerare la distanza e tornare fratelli di sangue. Quell’uomo diventato adulto di prestanza fisica ragguardevole senza perdere mai lo stupore di un bambino, ha sempre vestito abiti comodi ed era riconosciuto anche per questo dai suoi amici come “uno dei nostri”. Sapeva di necessità essere elegantissimo, cappotti e giacche di buon taglio per le occasioni importanti (ma quasi vergognandosi che si notasse un capo appena inaugurato); eppure di norma, estate o inverno, amava portare sotto la giacca «una camicia di stoffa scozzese, con la cravatta ben intonata di tessuto spesso e con un grosso nodo che smorzava la vivacità della camicia. Un basco blu in testa». In tanti lo ripetono e lo ricordano: «pantaloni di fustagno, camicia a scacchi, basco», «una camicia scozzese di fustagno e, nonostante fosse al coperto, portava un elegante feltro a cencio, non ancora il basco che fece in seguito parte del suo inconfondibile look». (…)

Imponente, e non solo di sagoma, sonoro quanto sanno esserlo i luzzaresi bisognosi di scampanellate e di una voce forte e chiara quando si incontrano e si scambiano battute, Za dava l’idea di un uomo estroso e ricettivo, uno spirito inquieto, dal perenne dinamismo: piaceva a tutti il fatto che non stesse mai fermo, che gesticolasse con le mani piccole, bianche, il volto oblungo dagli occhi espressivi (quelli dei famosi autoritratti), persi nella meraviglia, nella curiosità vorace. Perché quel luzzarese che era andato lontano ed era diventato artista, pittore, scrittore, uomo di cinema, un genio in una parola, rimanendo tuttavia uguale a se stesso e ai suoi amici, voleva sapere, capire certe cose o meglio tutto: il gioco del calcio come quello delle carte (dove in realtà «era
un cagnaccio»), l’incanto delle tipografie con il torchio a mano e l’odore diffuso di petrolio. (…) Poteva attardarsi a discutere sulla differenza qualitativa tra i cappelletti in brodo (bevr’in ven) di Suzzara e di Luzzara, naturalmente parteggiando per questi ultimi.
 Pagava sempre lui per i commensali delle grandi tavolate emiliane e gli piaceva stupirli. (…) Signorile, galante sempre con le donne (specie quelle che conservavano in sé un’aria bambina) e insieme di una semplicità disarmante, un giorno ricevette una bella ragazza tutta agghindata, mandata da un produttore per una particina, offrendole, dopo un quarto d’ora di conversazione, pane e salame: lei rimase stupita e infine persino commossa. (…)

Za COPERTINA -1Un’estate, quando avevo nove anni, i miei genitori mi mandarono ospite di Cesare e Olga a Luzzara, dove allora (anni Sessanta) abitavano a due passi dalla piazza centrale con la torre del luccio, in una casa dalle dimensioni sconfinate – come mi pareva allora (e tutto mi sembrava un sogno) nelle stanze dove passavano persone come Alberto Sordi, Vittorio De Sica e altri personaggi importanti che non potevo conoscer. Sono netti invece i ricordi delle grandi mangiate domestiche. Una sola sera – davvero speciale per me – Za volle portarmi fuori, insieme alla consueta compagnia di festanti amici luzzaresi: il menù comprendeva – immancabilmente – spalla cotta, ciccioli, grana, tortelli di zucca, cioppe di pane, schiacciatine (chissulen), il tutto accompagnato da Lambrusco amabile. Di solito stavo con le donne di casa e in cortile (un cortile vasto da sembrarmi un gigantesco campo giochi) con bambini rumorosi, che Olga cercava invano di zittire quando Za era ispirato, nel suo studio. A Po si andava il mattino in bicicletta, con le ragazze, la figlia Milli, la Mafalda. Sparivano coi loro uomini, infrattandosi nel folto della boscaglia; se tentavo di spiarle mi rimandavano indietro col pretesto di recuperare pane e salame dalle biciclette. Segnavo la strada tra gli alberi con rametti o sassi per non perdermi. Nuotavo in mutande appena a riva, anche se avevo già una certa dimestichezza col nuoto, gli occhi di tutti, pieni d’ansia, puntati addosso perché non mi allontanassi nella corrente pericolosa. Ero la pütléta figlia di Enzo, ormai a tutti nota in paese, guai se 
mi fosse capitato qualcosa. Rientrai in città in auto dopo neanche due mesi. Al volante il critico cinematografico Guido Aristarco; parlarono fitto tutto il tempo, lui e Za. In macchina, silenziosa ad ascoltare sul sedile posteriore, qualcosa si fece strada dentro di me, un primo barlume di consapevolezza: avevo bruciato anni di vita in poche settimane, cresciuta di colpo, mentre le mie gambe sbucciate e graffiate (sui covoni di fieno) avrebbero allarmato mia madre che quasi non mi riconobbe, tanto mi ero lasciata alle spalle la composta milanesità. Nelle interminabili giornate di quella estate selvaggia, durante la quale mi tolsi i sandali e andai sempre a piedi nudi per il paese, nella campagna, a Po, ogni volta che mi accadeva di spiare Za al suo tavolo di lavoro, concentrato e corrugato a pensare e a scrivere, capivo vagamente chi doveva essere quello zio certamente famoso, e che cosa avesse in testa. Sogni, pensavo, certamente sogni e favole. (…)

Za ha ragionato su se stesso, aiutandoci a capire che il segreto sta nei fatti, in ciò che, sin dall’infanzia e dall’adolescenza, si riesce a guardare, o meglio a vedere e ad assimilare con tutti i sensi, ciò che ha inciso nella mente un tracciato, un progetto, una meta intravista e coerentemente perseguita nel corso di una lunga carriera. Stare seduto al capezzale del padre morente, vegliarlo ma essere capace di superare il dolore in controdolore, tenendo la testa impegnata nell’invenzione di situazioni umoristiche; mutare la malinconia in volo fantastico per fuggire, andare lontano, per riuscire nel miracolo di camminare sul Po come un poeta; oppure guardare la città e i destini umani dall’alto di una scopa volante (Miracolo a Milano), da un cielo che fa stare più vicino al cuore delle cose e del mondo: è qui la magia del prestigiatore di parole e di immagini Cesare Zavattini.

 

Facebooktwitterlinkedin