Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Bob Dylan reticente

Omaggio a Bob Dylan, guru dell'impegno dissimulato. Poeta-non poeta, cantante "noioso": quello che lo differenza da tutti è lo stile, la maniera con cui affronta le cose. Insomma, è diverso fino in fondo

La reticenza è certamente un atteggiamento psicologico di Bob Dylan. Alla domanda: «Si considera un cantante di protesta?», rispose «No. Quelli che canto io sono brani matematici». Reticenza per altro ironica, con una vena dissacratoria: «Per essere un poeta non è necessario scrivere. Ci sono poeti che lavorano nelle stazioni di servizio. Non mi definisco un poeta perché non amo quella parola. Sono un artista del trapezio». Reticenza che spiattella verità senza troppi arzigogoli: «Hanno definito un sacco di mie canzoni politiche, ma non sapevano neanche cosa fosse politica; i politici non contano, sono gli uomini di affari dietro di loro. All Along the Watchtower è forse la mia sola canzone politica». Rincarando talvolta la dose: «Nelle mie intenzioni Masters of war non è affatto una canzone politica. Per dirle ciò che penso fino in fondo, non ne so niente di politica. Sono incapace di distinguere quello che è di destra da quello che è di sinistra». Per poi affondare il colpo: «Tutte le mie canzoni sono canzoni di protesta».

Con Dylan l’interrogativo «Ma fai sul serio?»è flatus vocis. Egli è un trasformista, un camaleonte che vuole e non vuole esistere sulla scena, non restando mai fedele a se stesso. Un capellone acuto e spigoloso, dal volto allungato, capace di mimetizzarsi nel tronco della folla, forte di una creatività debordante che lo castiga e lo fa risorgere. Ha elevato al rango di opera d’arte la canzonetta, proponendosi come “voce di generazione” e, al contempo, come sconfessione di quella “voce”, sempre distaccato dalle maggioranze e dai loro correttivi. Bob Dylan è un dato culturale. Non solo il lavoro cantautoriale, ma lo stesso modo di pensare il quotidiano è stato influenzato dal vate di Duluth. E il continuo, incessante, unanime consenso che lo avvolge resta un mistero difficile da scalfire. Anche i (finti) detrattori si inchinano. «Non sa suonare l’armonica». «Non sa cantare». «I dischi sono lagne». «Non si capisce niente di quello che dice». Ma resta Dylan: guru della parola in rima, scudiero delle dissonanze. Dylan è Dylan. Negarlo lo accresce, sdegnarlo lo celebra.

bob dylanPerché, quando sentiamo un’armonica che gracchia alla radio, diciamo senza remora «È Bob»? Per molto tempo ho creduto che avesse inventato lui l’armonica e fosse una specie di prolungamento della sua bocca. È ormai il suo simbolo, il marchio di cui si è appropriato con scaltrezza. D’altra parte il padre dei cantautori non può che essere uomo sottile, thin man.

Perché quel modo sciropposo di cantare, ai limiti dell’insolenza, così contrario al gusto e al buonsenso, è riuscito a penetrare così a fondo il nostro tessuto sociale? Obama lo premia con la massima decorazione che può conferire un presidente degli Stati Uniti, la medal of Freedom, e riceve una paterna pacca sulla spalla dal beffardo artista, che si nasconde ironicamente dietro i suoi Ray-Ban. Ma a Dylan tutto è concesso. Dinanzi a lui Obama sembra un subalterno. Il potere riconosce la bellezza, è subissato dal suo fascino. Anzi, l’unico potere che la bellezza possiede è di aver potere sul potere.

Perché Dylan può mettere sul mercato pezzi che durano dieci minuti e hanno un solo giro di accordi? Perché può dar fastidio all’orecchio, e far sì che l’orecchio resti sempre indulgente? Perché può dire banalità senza che siano avvertite come tali? Perché può andare fuori tempo, scombinando a piacere il fraseggio? Perché tutto ciò che è considerato molesto per la normalità, se è dylaniano, funziona? In definitiva: perché non è mai come te lo aspetti?

Quello che lo differenza da tutti è lo stile, la maniera con cui affronta le cose. È diverso. Non è mai come te lo aspetti. Credi che farà quella mossa, invece è abile a spiazzarti. La sua reticenza, suprema posa poetica di cui è maestro, alla lunga ti conquista. La bellezza stessa della sua opera, che passa attraverso il varco del difforme, alla fine espugna le tue riserve emotive.

Il suo capolavoro della modernità è senz’altro Series of dreams. È una colonna sonora della vita, dei tempi attuali, delle paure, delle ossessioni, delle nevrosi e delle liberazioni. La musica martellante, generata dai bassi e dalle percussioni, crea quella “repubblica invisibile” che il critico Greil Marcus attribuiva ad un time out of mind, un tempo al di là del tempo. L’effetto string della tastiera, che subentra nella terza strofa dopo il primo bridge, produce un suono che va avanti e torna immancabilmente indietro, simile ad una monetina tintinnante lanciata in aria infinite volte. Si crea dunque una particolare fisica del suono nella quale il passato diventa presente e il presente diventa futuro. La parola dell’artista, filtrata in queste fessure di emergenza, raggiunge il “punto zero” kierkegaardiano dove tutto rimane ancora aperto e disponibile.

Il sogno in serie è, dunque, la traccia da cui si dispiega un rapporto di azioni che determinano il destino tra il sogno medesimo e colui che lo vive. Quei sogni vogliono pur dire qualcosa, sono un segno tangibile. E tale destino è afferrato nella sua improprietà causale. Un ordine differente, allora, si apre alla nostra vista contro ogni logica. Chi lo riesce a intravedere comprende che l’umana relazione di causa-effetto è alquanto riduttiva.

Dylan è un grande interprete del ritmo metallico delle nostre esistenze. Per un attimo ci distoglie dal consumismo e dal materialismo. La sua musica crea una sincope tra essere e dover essere, un punto di rottura che, come un bottone sfuggito dall’asola, scivola via. Precipitiamo in un mondo parallelo. Dylan, in un certo senso, condiziona le cadenze con cui scandiamo la vita e le opere. Per questa ragione egli trascende lo status di folksinger per entrare nella sfera di influenza culturale, multidisciplinare, tanto che l’aggettivo “dylaniano”è ormai un neologismo dalle varie sfaccettature, caotico allo stesso modo in cui è caotico il personaggio che lo incarna, ma certamente più assonante di petaloso.

Sogni in cui l’ombrel­lo è piegato
e sei scagliato lungo il sentiero
e non sono buone le carte che hai in mano
a meno che non provengano da un altro mondo.

Facebooktwitterlinkedin