Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Novecento in maschera

Come si può "aggiornare" un classico? Come si può adattare Goldoni al Novecento? Certe metafore trapassano i tempi. Lo dimostra uno spettacolo di Carlo Boso e David Anzalone

A Milano si dispone un matrimonio. È il 1947. La guerra è passata, come acqua dalle condutture. Clarice, figlia del finanziere Bagnasco, è promessa sposa a Silvio, figlio dell’Onorevole Roma (alziamo i tacchi in segno di ossequio). Della loro unione tutti sembrano soddisfatti e felici. Un dlin-dlon al campanello sconvolge l’ordine: Zanza-Arlecchino, reduce della campagna di Russia, porta con sé la notizia sconvolgente, che metterà in crisi nera il matrimonio. Don Calogero Vizzini, creduto morto, è tornato e pretende la mano di Clarice, precedentemente a lui promessa per grazia di un bieco accordo con l’arrampicatore sociale Bagnasco. In realtà sotto le mentite spoglie di don Calogero si cela Beatrice Vizzini, sua sorella, giunta a Milano per rivedere l’amato Lucky Lucania, boss italo-americano, pericolosissimo, assassino di suo fratello. In mezzo al turbinio di bang bang Arlecchino, deciso a lavorare per guadagnare di più, si mette al servizio di due padroni, a loro insaputa, senza ritenere che questo broglio lo lancerà in una girandola di fraintendimenti, inseguimenti e sparatorie. Solo l’amore, alla fine, saprà tenere a bada il male.

«La ricostruzione è affidata ai distruttori» suona la prima struggente canzone. Dietro alle salaci battute e ai lazzi, sciorinati con puntualità commovente, nelle maglie di un ritmo vorticoso, mai rallentato da pause e inceppi, la compagine di Cantina Rablé, guidata dalla mano esperta di Carlo Boso, opera una critica sociale per nulla leggera, lasciando agire i personaggi nei rigagnoli di una Milano ingrommata dall’imprenditoria, dalla finanza e dagli interessi pubblici e privati, proprio in quel contesto storico che caratterizza la fase decisiva della ricostruzione economica e morale del Belpaese. I fondi inquinati del Piano Marshall determinano l’orientamento politico e sociale di un’Italia che, nella guerra, è stata dalla parte dei “cattivi” e ora paga duro il salario della sua risalita. Memorabile è lo scambio di battute tra Arlecchino e Lucky Lucania (Florindo nell’edizione goldoniana), che stigmatizza forse il significato intero di un’epoca.

LUCANIA Allora te lo spiego io cos’è il Piano Marshall.
ARLECCHINO Ce lo spieghi. Siamo tutt’orecchie.
LUCANIA Il Piano Marshall sono fondi destinati dagli americani per ricostruire l’Italia.
ARLECCHINO Don Lucky, mi scusi. Ma chi l’ha distrutta l’Italia?
LUCANIA Gli americani.
ARLECCHINO Ah, e i fondi per ricostruire l’Italia ce li danno gli americani
LUCANIA Certamente.
ARLECCHINO Per farsi perdonare?
LUCANIA Certamente.
ARLECCHINO E i fondi li danno a noi sopravvissuti?
LUCANIA Non a voi. Li danno a noi.
ARLECCHINO Ah, ve li regalano?
LUCANIA Ma stai scherzando? Dobbiamo ridarglieli con gli interessi.
ARLECCHINO Ah, glieli ridarete voi?
LUCANIA Ma no, glieli ridarete voi, i sopravvissuti.
ARLECCHINO Ah, sono generosi questi americani.
LUCANIA Certamente, avete trent’anni per ridarglieli.
ARLECCHINO Glieli ridaremo tra trent’anni? E se morissimo tutti prima?
LUCANIA Non tra trent’anni. Tutti i mesi per trent’anni.
ARLECCHINO Quindi se ho ben capito noi paghiamo tutti i mesi quei quattro soldi che non abbiamo per pagare la ricostruzione delle nostre case a quelli che le nostre case ce le hanno distrutte.
LUCANIA E con gli interessi.

I personaggi di questa inedita edizione dell’Arlecchino servitore di due padroni utilizzano i principali dialetti che promuovono l’eccezionale ricchezza idiomatica del nostro paese. Don Bagnasco il toscano, l’Onorevole Roma il romanesco, il locandiere e musico Brighella il romagnolo, Beatrice Vizzini il siciliano, Lucky Lucania l’italoamericano (a metà tra siciliano e americano), Jessica l’itagnolo (a metà tra italiano e spagnolo), Clarice Bagnasco il marchigiano, Silvio Roma l’abruzzese.

David Anzalone (Arlecchino) dà una prova notevole di ascesi tecnica dell’attore e abnegazione in un ruolo che pare cucito apposta per esaltare le sue doti artistiche. Michele Pagliaroni (Lucky Lucania) esprime perfettamente nella lingua e nelle movenze il pastiche di sicilianità e americanismo nella lotta, senza esclusione di colpi, al mondo nuovo da conquistare. Ma tutta Cantina Rablé non sbaglia un colpo e consegna al panorama teatrale italiano una fervida realtà, composta di giovani preparati ed elastici, capaci di quell’intelligenza emotiva che rappresenta oggi, in fin dei conti, l’unica vera prerogativa dell’arte.

Non bisogna dimenticarsi, tuttavia, che l’evento estetico, per essere utile davvero, deve rivelare forti ricadute sulla vita, mutuando e mutando lo stile e le preoccupazioni dell’esistenza. In questo senso, uno spettacolo simile riesce a colpire il suo bersaglio.

L’arte non è un contenitore egoico: i valori che mette in campo necessitano di avere una chiara risolvenza nella vita di chi la fa e di chi l’ascolta. Il fondo etico, quasi religioso, dell’arte, lontano dal privare una vita piena, la deve promuovere, non perdendo mai di vista che davvero possiamo essere migliori, che davvero può essere migliore il mondo da noi abitato.

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