Tina Pane
Festa al museo napoletano

Madre Smartphone

Il Madre ha festeggiato i suoi dieci anni di vita con un curioso progetto: un gruppo di ragazzi lo ha fotografato con il proprio telefonino. Quasi un occhio globale sulla città

Ha solo dieci anni, compiuti a giugno dell’anno scorso e da poco festeggiati con il riconoscimento di «migliore museo di Italia 2015» da parte della rivista Artribune. È il Madre, il Museo di arte contemporanea Donnaregina, che sorge a Napoli, in pieno centro storico, a due passi dal Duomo e dai Decumani, in un edificio ottocentesco di tre piani (e una magnifica terrazza) che quando era di proprietà del Banco di Napoli è stato sede del banco dei pegni e per un po’ anche del Provveditorato agli Studi. Acquistato dalla Regione Campania nel 2005, restaurato su progetto dell’archistar portoghese Alvaro Siza, il Madre rappresenta oggi uno spazio sia fisico sia culturale recuperato alla città, ai turisti e al lento e difficoltoso processo di valorizzazione di un centro storico tra i più ricchi e stratificati di storia al mondo.

Il percorso espositivo del Madre ha un cuore, ed è il primo piano – la prima zona del Museo a essere aperta al pubblico nel 2005 – che accoglie dodici opere site specific (cioè realizzate appositamente per gli ambienti del Museo) firmate da quegli stessi artisti che a partire dal 1995 avevano lavorato per la città, chiamati dall’amministrazione comunale a realizzare le installazioni di fine anno in piazza del Plebiscito. Qui troviamo i grandi affreschi di Francesco Clemente, l’ancora di Jannis Kounellis, gli specchi e i teschi di Rebecca Horn, il buco nero di Anish Kapoor, le cornici vuote di Giulio Paolini… qui il visitatore torna per vedere e rivedere queste opere di grande impatto emozionale, che riescono a parlare a tutti, suggerendo anche ai non addetti ai lavori ragionamenti sull’essere umano, la società contemporanea, il carattere della città.

Nell’atrio d’ingresso, in questo periodo, troviamo Axer/Desaxer un’opera commissionata all’artista francese Daniel Buren per festeggiare il decennale, che rimette idealmente in asse l’edificio del museo rispetto alla via in cui sorge, utilizzando colori, prospettive, specchi e luci per attrarre il visitatore e creare continuità tra l’interno e l’esterno. Altrettanto coinvolgente l’altra opera dello stesso autore posizionata nella seconda sala dell’atrio: Comme un jeu d’enfant, opera di dimensioni architettoniche che prova a ridurre (o innalzare) l’arte a gioco di bambini.

Al secondo piano c’è parte della collezione e al terzo le esposizioni temporanee, che testimoniano la vocazione del museo a essere luogo di esposizione, sperimentazione e ricerca, punto di riferimento per l’arte contemporanea in città, laboratorio dove promuovere – secondo gli obiettivi della Fondazione Donnaregina – arte e cultura «dalla dimensione locale a quella internazionale». Si finisce con la terrazza, dove il cavallo di Mimmo Palladino, che si profila elegante nel cielo, sembra proteggere il tufo e il cemento della città, sembra rammentare le guerre che l’hanno solcata e la storia che l’ha attraversata. Il Madre cerca il contatto, lo scambio con la città. Per questo, d’estate apre il bel cortile a eventi e intrattenimenti. Per questo organizza visite guidate gratuite, laboratori didattici per la scuola dell’infanzia e primaria e progetti per la realizzazione di opere con il diretto coinvolgimento del pubblico.

tibaldiÈ quanto avvenuto con il progetto “Questione di appartenenza” (nelle foto qui e accanto al titolo), una installazione appena conclusasi che ha visto all’opera gli studenti del liceo Giambattista Vico. Guidati dall’artista Eugenio Tibaldi, una trentina di ragazzi hanno scattato migliaia di foto con il loro smartphone a edicole votive, porte di accesso ai “bassi”, finestre, cassette per le lettere, cartelli stradali, paletti, tubi dell’acqua, cavi, condizionatori, graffiti e altri elementi più o meno abusivi che connotano il territorio in quattro grandi aree popolari della città. Da queste immagini sono stati selezionati gli scatti e ricomposti in cinque grandi e fragili collages, cinque arazzi che raccontano la psico-geografia della città con lo sguardo di alcuni suoi abitanti.

D’altra parte è così che il museo diventa una “zona operativa”, è così che si realizza l’esergo posto in fondo alle scale dell’atrio, e affidato alle parole dello scultore rumeno Constantin Brancusi:
Si è fatta l’arte per dominare,
per piangere, per pregare.
Noi la stiamo facendo per vivere.

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