Sabino Caronia
Libri tra storia e profezia

Il prezzo della libertà

Da Luca Canali a Salvatore Satta, attraverso Luigi Meneghello e Corrado Govoni, riflessioni in margine ad alcune opere che hanno affrontato il tema della guerra e della Resistenza interrogandosi sulle responsabilità individuali

Ogni azione umana è impura ed anche la resistenza lo è. Scrive Luca Canali nella Premessa al suo celebre libro La resistenza impura (Milano, Mondadori 1965): «Non voglio qui ora fare un discorso politico sul valore dell’espressione ‘scacco della Resistenza’, solo constatare che non è per questa Italia che tanti uomini hanno affrontato la morte. Il problema che mi pongo è se essi, prevedendo questo esito del loro sacrificio, lo avrebbero ugualmente compiuto». E aggiunge: «Abbiamo scoperto tutto questo, lo abbiamo scoperto, intendo, non nei libri, ma nel vivo della nostra esperienza. Cioè siamo stati una delle punte della forbice al momento della sua massima divaricazione, e ora siamo nel mezzo dei processi di osmosi. Sentiamo che più nulla c’incanta. E pensiamo talvolta, malgrado tutte le asserzioni ufficiali, che i ribelli sono morti invano, che la Resistenza è stata tradita, e che nessuno potrebbe indurci, oggi, a compiere atti nobili e rischiosi di cui il futuro traviserebbe lo scopo».

8-settembre 2La guerra è un momento importante nel cammino di Salvatore Satta verso Il giorno del giudizio. In De profundis (Padova, Cedam, 1948)si osserva che la guerra è «una paurosa rivalutazione del peccato originale, che la ragione o l’indifferenza avevano da tempo confinato nel mito» e si sostiene che la Provvidenza «con imperscrutabile disegno, regge il mondo per mezzo di Satana: e pertanto gli operatori della storia sono veramente i demonii…». Lo scrittore osserva che può apparire strano che si ricerchino i rapporti del demonio con Dio ma che «coloro che in questi ultimi venti anni hanno subito le più dure persecuzioni da parte del demonio senza umiliare lo spirito, e si sono così uniti all’infinito gregge di quelli che hanno reso testimonianza a Dio in tutti i tempi e in tutti i luoghi, comprendono che senza l’experimentum diaboli sarebbe mancata ad essi la nozione del bene e del male…».Alla conclusione della vicenda tutto intorno si dissolve e resta solo l’individuo «che doveva liberarsi dal male, secondo la formula della preghiera che recitava da bambino».

Se la lettura antropologica e morale di ciò che ne è stato dell’italiano dopo l’8 settembre richiama la vicenda di Corrado Govoni, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, la problematica dell’individuo uscito dalla guerra che deve liberarsi dal male secondo la formula del Padre nostro richiama la nostalgia gnostica di Libera nos a malo di uno scrittore come Luigi Meneghello che è autore non a caso anche de I piccoli maestri, uno dei più esemplari libri sulla Resistenza, e il tema della responsabilità dell’esistenza secondo quanto Satta scriveva nella presentazione alla prima edizione del Diritto processuale civile: «Il libro è stato scritto tra il principio del 1946 e la fine del 1947. Segno queste date non perché pensi che possano interessare la storia, ma soltanto perché esse comprendono uno dei più dolorosi periodi della nostra vita nazionale, conseguente alla guerra devastatrice e alla sconfitta. In periodi come questo si rivela a ciascuno la terribile responsabilità della propria esistenza: come se un Dio nascosto lo perseguiti con la domanda del Signore a Caino, o se si vuole del padrone ai servi nella parabola dei talenti. È sotto la spinta di questo Dio, nel timore del suo giudizio, che io ho scritto questo libro».

8 settembreIl passo più significativo de De profundis è quello che precede la conclusione, dove è chiaramente indicata la scelta etica dell’autore: «Di fronte a questa belligeranza dei molti, c’è tuttavia la belligeranza dei pochi, di coloro che dalla morte della patria sono tratti a meditare sul significato dell’immensa rovina; che comprendono finalmente che la libertà non è un dono, che una forza esterna, la forza di uno Stato, amico o nemico che sia, e nemmeno di un superstato, ci possa concedere; e guarda con tristezza e con ansia al rinnovarsi e al perpetuarsi dell’errore in coloro che per la libertà assumono e forse si illudono di combattere. L’otto settembre non è per questi pochi la fine, ma il principio della guerra: della vera guerra, che dal piano internazionale e nazionale si è spostata sul piano individuale, ha posto l’individuo di fronte al problema dell’esistenza, lo getta contro se stesso, contro l’uomo tradizionale che ciascuno reca con sé. E appunto per questo essi non sono da una parte o dall’altra, non sono con l’uno o con l’altro straniero, non sono con questa o quella fazione che dall’uno o dall’altro straniero aspetti ancora la libertà, ma sono sempre e soltanto con se stessi, dovunque il giudizio storico e concreto, e perciò sempre unilaterale e sempre fallace, spinga la loro azione. E se la patria è morta, essi muoiono per la patria, e il loro cuore è la pietra sulla quale s’innalzerà domani, in un mondo liberato, una patria nuova e immortale».

Ma non possono non far riflettere le parole con cui il libro si conclude, che risultano ancora tremendamente attuali e monito perenne contro qualsiasi tentazione di guerra in tempi in cui non sempre si è stati così decisi nel dire no a conflitti motivati da ragioni non provate e mancanti, per giunta, dell’appoggio dell’Onu: «E da ultimo, col sopraggiungere dell’inverno, furono attaccate le piante. Cominciò la povera gente che cercava rami e foglie per il focolare spento, ma subito essa fu sopraffatta e travolta da folle organizzate ed esperte del mercato nero, che in pochi mesi rasero al suolo intere foreste di parchi, di giardini, di viali, le testimonianze secolari dell’amore che ciascuno ha per il proprio villaggio, per la propria città, per la propria patria […] E ieri, proprio ieri, è stata la volta del viale di pioppi che dalla Fornace, davanti al cancello della mia casetta, conduce a san Canziano […] Allora sono tornato a casa, ho chiuso le imposte per non sentire lo schianto degli alberi che crollavano, e in memoria di tutti gli uomini che muoiono, di tutte le piante che cadono, di tutte le cose che finiscono, ho riletto il canto del dolore e della speranza: «De profundis clamavi ad te, Domine».

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