Vincenzo Nuzzo
Cartolina da Lisbona

Il napoletano pentito

Più che deplorare l'inferno napoletano, occorre abiurare l'orgoglio di essere napoletani. A questo può servire anche la serie Gomorra, in arrivo anche in Portogallo

Pare che la serie TV Gomorra arriverà anche in Portogallo. È nell’ordine delle cose, dato che si tratta di una serie estremamente vendibile. Da un altro punto di vista si tratta addirittura, come si tende a dire anche del libro, di un’operazione meritoria e salutare. Perché essa mostra ciò che invece sarebbe restato nascosto continuando ad operare insidiosamente sotto un’apparente normalità. Il punto di vista è assolutamente rispettabile e peraltro non poco condivisibile. Cosa poi sottolineata dai prezzi altissimi pagati da Saviano per un’inchiesta, e relativa opera, che se gli ha dato fama e notorietà internazionale ‒ facendo peraltro emergere un genere serissimo ed addirittura che va ben oltre i limiti di un’operazione leziosa e di puro spettacolo com’è la serie dei «Soprano» ‒ lo ha però condannato anche all’esilio e ad una vita impossibile.

Eppure però le perplessità restano. Esse emergono già davanti al libro. Io, personalmente, non sono riuscito ad andare oltre le prime pagine. Per spiegare il perché, direi che si tratta di quel che può provare un internato ad Auschwitz nel leggere un libro che racconta a presa diretta l’atrocità che egli stesso sta attualissimamente vivendo nella sua carne. Essere napoletani è un po’ questo. Inevitabile l’orgoglio, ma inevitabile anche una profonda vergogna ‒ che non può essere solo per ciò-che-ci-accade, ma deve essere giocoforza anche per ciò-che-si-è. Che infatti proprio a Napoli ‒ ovvero in una città e terra tutto sommato ricadente nella sfera delle nazioni occidentali civilizzate ‒ possa avere avuto luogo del tutto naturalmente una tale autentica Apocalisse civile e morale, questa è cosa che può spiegarsi solo in un modo. Al modo di una sorta di profonda disposizione patologica insita chissà dove nella nostra materia più che carne ‒ nel DNA, nelle falde acquifere, nelle determinazioni qualitative della nostra terra (in senso misteriosamente metafisico)? Chissà? Io, come Goethe (Viaggio in Italia) inclino a credere che la maledizione (vissuta e condivisa, però, e non imposta!) risieda nella malefica anzi infernale impregnazione magmatica, effervescente, ribollente e rovente di tutto ciò che da noi è terra in senso propriamente chtònio. Qui sotto vive effettivamente un dio Hades, con tanto di figure correlate ‒ Plutoni, Persefoni, Demetre. E si sa bene che forte relazione che vi è sempre stata tra ciò e quanto in superficie è dionisiaco, e dunque, in senso lato, nietzschiano. Non c’è infatti nulla che impersoni di più i neo-Titani demoniaci e nichilisti che Ernst Jünger adombrò nell’intervista rilasciata tempo fa a Gnoli e Volpi (I prossimi titani).

Ebbene, più che deplorare tutto questo come qualcosa a cui in realtà siamo estranei, noi buoni napoletani dovremmo in primo luogo vergognarcene. Fare dunque un preventivo atto di abjura dall’orgoglio di essere-napoletani, anzi dalla stessa ineluttabilità dell’essere-nati-napoletani. Se lo siamo, in qualche modo è perché, in quest’inferno-paradiso in cui c’è stato dato di vivere, abbiamo senz’altro qualche dura lezione da imparare ‒ esattamente come secondo la teoria del karma o della pitagorica metempsicosi. Ma dicevo che si tratta di un atto preventivo, solo preventivo, ovvero di una sorta di epoché di tipo fenomenologico, che pone alcune cose tra parentesi (o «fuori circuito») solo per poi però poterle recuperare. In termini cristiani si potrebbe parlare di un atto di preventiva contrizione indispensabile per accedere poi al perdono. In termini filosofici è il radicale «disperare» kirkegaardiano.

Pentiamoci dunque alfine di essere napoletani. Se c’è qualcosa a cui possono servire il Gomorra-Libro e la Gomorra-Serie, ciò è proprio questo. Il resto rischia di essere solo un pretesto per fare fin troppo facilmente spettacolo e retorica su qualcosa che strazia le nostre stesse carni ed anche le carni dell’intero mondo. Gomorra è infatti un autentico fetido ed orrendo bubbone (del tipo di quelli della peste o del carbonchio), del quale ci si può augurare solo che venga estirpato ‒ con cieca violenza e senza volere altro che questo. Chirurgicamente affondare il bisturi nella carne ed asportare fino all’ultima fibra della capsula ascessuale. Senza riguardo per alcun genere di pianto e dolore. Fino a potere e dovere cancellare anche lo spettacolo che su tutto questo pur si deve fare. Questo sarà infatti l’ultimo segno della guarigione. Senza di esso, alcuna guarigione!

Bisogna quindi in pectore deprecare ed odiare i Savastano. Bisogna in pectore considerare come la più bestiale ed immonda mutazione della razza umana la capigliatura da calciatore di Genny,  la pelata e l’occhio torbido di Ciro, lo sguardo crudele le sottovesti di seta e le colazioni bio di Imma. Bisogna in pectore odiare svisceratamente i tipi antropologici, perfino attraverso le maschere sceniche che li rappresentano (Esposito, D’Amore, Calzone). Bisogna in pectore volerne desiderare la morte tra i più atroci spasimi. In pectore (e non nell’atto concreto) significa insomma che bisogna ardentemente desiderare che tutto ciò non sia mai esistito e che quindi non sia mai stato necessario farci sopra un libro, un film ed una serie TV.

Ma intanto la serie TV Gomorra arriverà anche qui in Portogallo. Da allora in poi la gente che conosco, sapendomi napoletano, saprà da dove davvero vengo e di che pasta anch’io sono fatto. E non potrò che struggermi non più solo nella rabbia ma anche nella definitiva vergogna.

Ma, è pur vero! È bene che sia così! Perché, così come si tratta di una condivisione carnale e quindi involontaria di simili immonde bassezze, si tratta anche di una nostra condivisione volontaria.

Infatti, dove per davvero eravamo tutti noi  quando venivano gettate le fondamenta di questa devastante Apocalisse ‒ dove gli intellettuali, dove i giornalisti, dove le istituzioni, dove la parte dorata della città, che La Capria definì come la «città-cartolina», e che è fermamente convinta di essere non solo l’ombelico estetico del mondo ma si ritiene anche sprezzantemente ed aristocraticamente estranea a questo immondezzaio di periferia «cafona»? Dove  eravamo quando tra Napoli e la agreste davvero felice Campana felix di un tempo ‒ quella di cui Goethe lodava il perfetto equilibrio con la dimensione urbana ‒ veniva edificato uno dei tessuti para-urbani più immondamente cancerosi di tutto il pianeta? I cui centri nevralgici erano e sono i quartieri-ghetto tipo Scampia, con Vele e tutto. Cosa poteva nascere da questo immondo e fetido fango infernale se non creature immonde e demoniache come i Savastano?

E dunque mostriamo, svisceriamo, discutiamo, facciamo spettacolo e perfino audience, vendiamo pure urbi et orbi questi prodotti simil-artistici. Ma a quando il pentimento, a quando la contrizione, a quando lo sdegno feroce, a quando il desiderio divorante di rivalsa? A quando soprattutto la riscossa sul Male?

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