Paola De Gioannis
Voci dall’anoressia: un libro necessario

Parole per guarire

Raccolte in un volume le testimonianze di chi ha attraversato l’inferno della malattia. Pezzi di vita offerti come contributo a una causa di cui le istituzioni non si occupano…

Cosa era successo nella sua mente? Lenti e sofferti passarono gli anni, prima che a questa domanda si potesse rispondere. Dovette attraversare il fuoco e spingersi giù, sempre più giù fino a toccare l’inferno. Era il cibo a controllare la sua esistenza, rendeva ossessivi i suoi pensieri, sempre in ascolto dell’ansia che arrivava e la faceva sentire imperfetta, inadeguata, sgradevole. La disperazione, il conto ripetuto delle calorie, l’ago della bilancia, il peso, l’esercizio fisico forzatamente esagerato, il vomito, il freddo, la volontà di ferirsi, il dolore urlato scandivano le ore e i giorni di quell’inferno che diventava la sua stessa vita.

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L’anoressia induce, in forme subdole, il terrore di ingrassare e pertanto ingenera l’idea-guida della magrezza come modello da raggiungere e al quale conformarsi. Esplode, quasi sempre, nella pubertà quando l’adolescente deve misurarsi con i cambiamenti del proprio corpo e con lo svilupparsi della sessualità. In Italia rappresenta una delle prime cause di morte fra le giovani di età compresa fra i 12 e i 25 anni. Spesso si rende necessario il ricovero in ambiente ospedaliero o – dove è possibile – in strutture adeguate al cui interno sia presente un’équipe multidisciplinare con competenze psichiatriche e internistiche. La malattia – che talvolta spinge al suicidio – è di gran lunga più diffusa nell’Occidente industrializzato dove il cibo viene mostrato con ostentata abbondanza e dove, paradossalmente, l’ideale della bellezza femminile si identifica con la magrezza. Questa logica perversa risponde a un sistema di valori regolati dal mercato che danno vita a un più generale panorama culturale nel quale la donna, nell’esasperazione dell’immagine, diventa “oggetto” privilegiato.

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Domenica, 15 marzo, accolgo l’invito dell’Associazione di volontariato Voci dell’Anima alla presentazione del libro Mi nutro di parole. Il 15 marzo non è una giornata qualunque, è la giornata del Fiocchetto Lilla che da oltre trent’anni, in America, rappresenta la lotta contro i disturbi alimentari alla quale viene legalmente riconosciuta una settimana di studio, incontri, riflessioni. In Italia, le istituzioni sono ancora sorde e tuttavia da quella prima giornata del 15 marzo 2012, quando a Genova la sala si riempì oltre misura per ricordare Giulia, una ragazzina di diciassette anni andata via proprio quel giorno di quattro anni fa, l’incontro si ripete ogni anno, richiamando tutti coloro che nel Fiocchetto vedono il simbolo per legare alla vita i giovani con l’incubo del cibo.
Quella domenica di marzo, fredda e tormentata dal vento di mare, raggiunsi – come spinta da un imperativo interiore – una sala che non pensavo tanto affollata e mi resi subito conto che stavo scoprendo un mondo. Avvertii un afflato speciale caldo e avvolgente che legava fra loro quelle “madri-coraggio” impegnate a lottare per sconfiggere l’isolamento e l’indifferenza. Veniva presentato Mi nutro di parole (Edizioni Liberodiscrivere, 2015), a cura di Ilaria Caprioglio vicepresidente dell’Associazione Mi nutro di vita, impegnata nella lotta ai Disturbi del comportamento alimentare (Dca). Acquistai il libro, lo rigirai fra le mani e mi domandai che cosa potesse contenere di così significativo da attirare tante persone.
anoressiaLa sera stessa, al caldo della mia casa, fortemente motivata, mi immersi nella lettura. Conteneva i racconti autobiografici inviati al Concorso letterario nazionale promosso dall’Associazione. I racconti erano scritti quasi tutti dai malati nel generoso contributo di un pezzo della propria vita.Le pagine si sovrapposero alle pagine e quando poggiai il libro sul grembo era notte. Il vento aveva smesso di soffiare e mi sentivo sospesa nel silenzio. Ascoltavo le voci dei protagonisti, il loro dolore che fino ad allora avevo ignorato, e vedevo le loro case nelle quali si consumava la vita senza che nessuno ne conoscesse la storia. Erano voci che giungevano dall’anima in un disperato bisogno d’amore e nella coraggiosa volontà di uscire da quell’orrore.L’anima, nascosta, comincia a soffrire quando coloro che ruotano attorno a lei – distratti perché inconsapevoli – si occupano del corpo, mentre il sintomo rimane ignorato e la morte ha già cominciato a infilarsi nella vita. Scava nell’inconscio, esasperando l’insicurezza e la disistima, subdolo promette l’armonia e la bellezza, ma regala invece la depressione, “la signora vestita di nero”, e da ultimo, ruba la stessa anima.
I “disordini” del comportamento alimentare, del “rapporto corpo-cibo” – come sottolinea Jung – sono infatti processi estremamente complessi profondamente radicati non soltanto in situazioni biologico-sociali, ma anche e soprattutto, psicologiche. Ma quanta fatica, dolore, lacrime per non lasciarsi sfuggire le radici stesse dell’esistenza. Quanta fatica per dare forza a una volontà che ti riporta, in un solo attimo, indietro. Quanta fatica per riempire il vuoto ed esserci-per-l’altro. Quanta fatica per non perdere quel bagliore ancora pallido che ti lascia intravedere la superficie e finalmente, dopo molto soffrire, la luce della vita.

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Ma perché scrivere? Perché un concorso letterario? Perché scrivere è nutrirsi di parole, quelle che tengono legati alle emozioni, le sole che danno la vita, che aiutano a non precipitare nel non-esserci, come un oggetto vuoto senza sentimenti, senza desideri e che si lascia morire per paura di provarli. La scrittura è una forma di aiuto, di maieutica che piano piano ti ricolloca nel mondo e ti costringe a fare chiarezza, ad affrontare il tuo disagio e quello di coloro che ti amano. Stefano Tavilla, il papà di Giulia, presidente dell’Associazione Mi nutro di vita, non ha voluto arrendersi nonostante il dolore e ha continuato a infondere nelle “madri coraggio” la forza, la volontà e il desiderio stesso di andare avanti. Scrivere è un po’ guarire, la poesia è un po’ guarire, l’arte – ogni forma di arte – è un po’ guarire. «Non c’è dubbio, – scrive il filosofo Duccio Demetrio – abbiamo bisogno di nutrirci anche di parole… di parole che cerchino la via del contatto e della condivisione. Scrivere è far vibrare la carne di cui siamo fatti, mostrando a noi per primi che non siamo così gracili, vuoti e anonimi come quel tempo che precedette la decisione di iniziare a raccontare la nostra storia. …Tutti coloro che queste straordinarie pagine hanno scritto, hanno sicuramente iniziato a ricucire le loro ferite, nutrendosi di parole non più respinte, di silenzi non più temuti, di desideri non più repressi».
Mi nutro di parole per iniziare nuovamente a nutrirsi di vita senza più vergognarsi e senza aver timore del giudizio di chi legge. Scrivere di se stessi per non dover sempre dire “domani”, ma affrontare l’oggi, poter rileggere e dire prima che agli altri a se stessi che l’inferno si può sconfiggere.

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Era una di quelle sere calde, nelle quali il sole già tramontato lasciava scorgere un cielo coperto da nuvole basse. Pensai di rientrare e poiché ero in centro, decisi di percorrere le stradine strette del Castello che non vedevo da tempo. Fu allora che mi accorsi di lei. Elisa mi riconobbe subito e con il suo sorriso aperto e coinvolgente, mi venne incontro. Era ancora bella ma la sua espressione, i suoi occhi erano diversi. Erano gli occhi di chi ha molto sofferto, molto lottato e molto pianto. Con lei avevo vissuto diversi momenti della giovinezza e nonostante i tanti impegni avevamo trovato il tempo di ritagliare degli spazi – quasi sempre al mare – per raccontare, ironizzare e ridere di noi stesse.
– Come stai?, mi domandò.
– La vecchiaia è di per sé una malattia … È necessaria molta volontà… Ma dimmi, la tua bambina sta meglio?
– Sì, sta meglio, ti ringrazio, l’inferno sembra per il momento sconfitto. Lavora, seppure part-time, e va lentamente riacquistando il suo equilibrio. Ma è ancora molto fragile…
Accennò alcuni momenti della sua storia, poi quasi fosse consapevole dell’impossibilità di ripercorrere tanto dolore, concluse:
– Per spiegarti che cosa sia l’anoressia… Vedere un figlio morire è terribile, osservarlo mentre si lascia morire di fame è un’atrocità… Bisogna toccare il fondo per risalire.
Ci fu un lungo silenzio, non mi riuscì di trovare alcuna parola, lo percepì e mi sorrise ancora. Ci scambiammo i nuovi numeri di telefono e ci abbracciammo. Ripresi la salita, le voci delle loro anime erano dentro di me.

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