Pier Mario Fasanotti
La seconda parte di "Profumo d'Africa”

Ardigò indaga

«Ardigò rimase scosso immaginando la solitudine del professore e i suoi ricordi che lui desiderava si trasformassero in profumi». La seconda puntata del nostro racconto giallo

Continua la pubblicazione a puntate di “Profumo d’Africa”, inchiesta del commissario Ardigò. Riassunto della prima puntata: il commissario Nanni Ardigò viene a sapere che si chiamava Rosso l’uomo trovato senza vita sulla panchina della piazza e che era un docente di Lettere in pensione. Vedovo, riservato, senza parenti. Ma una donna aveva abitato da lui, in qualità di badante: una bella e giovane somala, che un giorno la vittima aveva allontanato in tono perentorio, senza dare spiegazioni.

* * *

Squillò il cellulare. Era il dottor Roversi: “Certo che i tuoi uomini sono tanto sbadati…”

“Immagino, anzi lo so?”

“La vittima aveva le chiavi di casa nella tasca interna del cappotto. Anche se non fanno din-din, uno non deve limitarsi a frugargli nelle tasche della giacca, non credi, caro commissario? Lo vedi che dovrei fare anche il poliziotto?”.

Lo sapeva: sicuramente, quella era la sua segreta aspirazione, che ogni tanto veniva a galla tra un’allusione e una risata. Ardigò chiese se avesse consegnato il mazzo di chiavi al suo vice. “Ovvio, caro Nanni, ovvio”. Secondo squillo del telefonino. Era Coppa: ”Commissario siamo fortunati…”. Ma Ardigò non lo lasciò finire: “La fortuna è la soluzione degli imbecilli”. Reazione del vice: ”Mi sono già scusato, commissario. Ha perfettamente ragione. In pochi minuti sono lì…”. Mantenne la promessa e in poco tempo Ardigò se lo vide davanti, sotto il numero 18 del piazzone, il cui nome vero era piazza Mazzini. Coppa fece tintinnare le chiavi dicendo “ecco…sì lo so, è stato imperdonabile…”.

Il commissario non le prese, le chiavi: “Ricky, può capitare, anche se non deve capitare. Tienile tu, vai nell’appartamento di Rosso, fruga nei cassetti, negli armadi, vedi se c’è una cassaforte…insomma guarda dappertutto…forse aveva un computer…tu che sei tanto bravo con l’informatica dacci un’occhiata…almeno quello, eh”. “Agli ordini” rispose l’ispettore con voce lamentosa “Lei non viene?”. “Dopo. Intanto comincia tu. Fai anche domande ai vicini. Io ho un altro impegno. Ti raggiungo. Se hai novità mandami messaggini. Cerca di non scordartelo”. “Ok, capo”. Sempre la stessa obiezione di Ardigò:” E non chiamarmi capo, non siamo in un telefilm”. Un cenno del mento e Coppa era già all’interno dello stabile. Intravide la portinaia, munita di strofinacci e scopa. Be’, almeno c’era. Le portinaie certe volte sono meglio di un taccuino zeppo di informazioni. Preziosissime.

S’incamminò. L’istituto Sant’Anna non era lontano, ma nemmeno così vicino. Ardigò aveva comunque voglia di fare quattro passi. Il giorno prima, davanti allo specchio, s’era abbuiato constatando che di avere la classica pancetta del cinquantenne. Ricordò la frase di Laura: “Nanni, ma che problemi ti metti in testa? A me non dà alcun fastidio…e poi non hai più vent’anni…e nemmeno io, se è per questo…”. Quel che era seguito se lo ricordava bene. Un ricordo diventato ormai un impasto di gioia e malinconia.  Percorse un lungo viale alberato, ai lati del quale c’era un camminamento in ghiaia e una pista ciclabile: queste ultime ormai spuntavano quasi dalla sera alla mattina, ma non incoraggiavano più di tanto i ciclisti che continuavano a preferire l’asfalto rugoso della strada a quella strisciolina liscia color rosso-mattone.

Suonò e, al citofono, dopo essersi presentato, chiese di parlare con la titolare. Si rese conto della parola sbagliata: “titolare”. Era un istituto governato dalle suore e non una boutique. Pazienza. Gli apparse infatti una suora di mezza età, dai fianchi smussati  dagli anni. Poco dopo fu fatto accomodare nello studio, di una sobrietà monacale, della superiora. Alla quale chiese di Amina, spiegando quanto era successo in uno stabile di piazza Mazzini. “Certo, Amina è da noi…non ha trovato ancora un lavoro. Mi spiace per quel che è successo: sa io ascolto la radio, la mattina presto. Dal professor Rosso mancava da circa un mese…anzi di più”. Con questa precisazione anticipò quello che poteva essere considerato l’alibi della ragazza. Ardigò si sentì in dovere di chiederle: ”Amina questa notte ha dormito qui?”. “Certamente, perché me lo chiede? Non vorrà insinuare…”. “Non insinuo nulla, ho solo bisogno di informazioni sul professor Rosso. Tutto qui. Potrei avere un colloquio privato con Amina?”. La suora lo guardò perplessa. Disse poi che tutti i suoi ospiti avevano i documenti di soggiorno in ordine. Ardigò obiettò: “Non è per questa ragione che sono qui, stia tranquilla, madre superiore. E’ che preferisco parlarle dentro queste mura piuttosto che convocarla al commissariato…lei sarà d’accordo con me, vero?”. La suora, dopo aver allargato impercettibilmente le braccia-una specie di resa- alzò la cornetta e chiese di convocare Amina. Poco dopo comparve la ragazza somala. Indubbiamente bella, con occhi colore della brace, i gesti morbidi, i passi leggeri. Flessuosa. Ardigò specificò che doveva parlare con lei in forma riservata. Leggermente irritata, la madre superiore condusse i due in una specie di celletta, piuttosto buia, che fungeva forse da sala d’aspetto. E non disse una parola, quando chiuse la porta. Come dire: “Adesso ci manca pure la polizia…”.

Si sedettero, uno di fronte all’altra. Gli occhi di Amina, alla notizia della morte violenta del professor Rosso, si gonfiarono subito di lacrime. Li terse con un fazzoletto bianco. “Com’è successo, commissario?”. Ardigò le descrisse tutto e lei, durante il racconto, cominciò ad avere un lieve fremito, come una persona febbricitante. E disse:” Era un buono e gentile…ma perché, perché?”.

“Il perché…già. Amina, troveremo l’assassino, stia tranquilla. Ma io vorrei parlare con lei in tutta confidenza…tenga conto che quel che mi dirà è tutto riservato, come in un confessionale…”.

Il compito più difficile stava per iniziare. Ardigò, dopo aver appurato il periodo in cui Amina era stata la badante dell’insegnante del pensionato, le chiese come mai si allontanò da quella casa, visto che la somala aveva sempre parlato così bene della vittima. Lei rispose che non era stata una sua iniziativa, piuttosto un “ordine” del professore.. e anche…”.

“Vuole dire perentorio?”.

“Ecco, sì. E non mi spiegò mai il perché…credo che non volesse farmi sapere certe cose…in ogni caso l’ho visto dispiaciuto, come se fosse obbligato a prendere quella decisione”.

L’italiano della somala era ottimo fino a far scomparire certi errori di pronuncia.

“Era malato?”

“Non lo so, non mi sembrava. Le dico però che nell’ultimo periodo pareva più stanco. Ma soprattutto più triste. Mi parlava di meno”.

“Aveva parenti? Lo andava a trovare qualcuno?”.

“No, no, mi disse un giorno che praticamente non aveva nessuno, né parenti né amici. Ma solo me. E con me si confidava…è sempre stato molto corretto, mi rispettava in tutto e per tutto”.

“Amina, lei conosce il nome del medico?”

“Si chiama Colasanti, non so altro”.

“Verificheremo, grazie. Prima mi parlava della sua correttezza…Lei in precedenza, avrà forse accudito uomini….insomma, poco rispettosi…sa, lei è una bella ragazza, mi capisce…”.

“Una volta è capitato e io sono immediatamente uscita di casa e sono tornata all’istituto”.

“E al professor Rosso, scusi la domanda imbarazzante …lei era completamente indifferente?”.

“Forse no, ma deve tener conto che aveva superato i settan’anni….aspetti…credo che ne avesse 73”.

“Questo spiega solo in parte certe cose…sa, mi sono capitati dei casi…be’ meglio che non le racconti nulla, Amina”.

Ardigò si accorse che durante l’ultima parte del colloquio era arrossita. Non molto, ma…Doveva scoprire la ragione di quella reazione istintiva e incontrollabile. Faccenda delicata, lo sapeva.

“Amina, le ho già detto che i discorsi che facciamo rimangono qui, solo qui…”

La ragazza somala arrossì di nuovo. La prova che proprio tutto non aveva detto.

“Si confidi con me, Amina. Il mio obiettivo è quello di capire il più possibile. Sa…anch’io non sono poi così giovane e, soprattutto, vivo ormai da solo…”.

“Non ha moglie?”

“Se n’è andata”.

“Mi spiace” fece lei, raggomitolandosi in se stessa “E va beve, commissario, ma spero che lei non…come si dice?”

“Che io non fraintenda, ho capito”.

Il racconto di Amina diventò una catena di parole spezzate da un forte senso di vergogna. Parole quasi sussurrate. Disse che l’unica stranezza di Davide Rosso (ecco il nome di battesimo, finalmente) consisteva in una richiesta innocente, anche se poteva apparire un po’ strana. Più o meno un giorno la settimana l’insegnante le chiedeva di poter dormire nel suo letto e lei, in cambio, avrebbe potuto riposare nella cameretta più piccola, la terza, quella che probabilmente usava sempre sua moglie. Tanto è vero che in un angolo della stanza c’era una macchina da cucire. Lei gli chiese il perché, insieme allarmata e divertita da quella sua richiesta. E lui: “Vedi, Amina, io ho i miei anni e  capita alla mia età di rivolgermi al passato. Mi hai capito, spero. Poi c’è il rispetto che nutro verso di te: mai ti farei uno sgarbo. Vivo di ricordi. Ed è per questo che ti chiedo questo. Tu, ovviamente, sei libera di rifiutare. Nel tuo letto, per una notte, assecondo un sogno sulla scia dei miei vecchi ricordi. Tra le tue lenzuola sentirò il tuo profumo che mi sembra così simile a quello di mia madre. E…quell’incomparabile profumo dell’Africa. Ovviamente, la mattina, sarò io a cambiare le lenzuola”.

“E lei, Amina, accettò?”

“All’inizio ero perplessa. Poi non più. Mi faceva pena e tenerezza quell’uomo rimasto solo, senza parenti e, credo, con pochissimi amici. Passava il tempo a leggere e scrivere. Certe sere guardavamo la televisione insieme e io notavo che era contento. No, non mi ha mai obbligato a fare qualcosa senza che io lo volessi. Ma la tv era diventata un’abitudine. Anche a me piaceva. Le ripeto, signor commissario: il professore era un galantuomo. E aveva un’intelligenza e una cultura straordinarie…”.

Ardigò chiese se sapesse qualcosa sul motivo del suo allontanamento e Amina scosse il capo. Poi pianse: ”Mi mancherà, quell’uomo così gentile”.

Ardigò rimase scosso immaginando la solitudine del professore e i suoi ricordi che lui desiderava si trasformassero in profumi. Avvolto nelle lenzuola della giovane somala accarezzava la propria gioventù, illudendosi di dormire accanto a una donna che, evidentemente, nel letto lasciava un aroma diverso, di una dolcezza femminile che proveniva da lontano, a volte aspro, a volte simile a quello dei gelsomini. Il profumo africano. Terra lontana che gli invadeva la mente e gli permetteva di viaggiare, con la fantasia.. Un vizio, si chiese? No, un artificio raffinato. Ma alla fine penoso se ricorreva a quella sorta di protesi olfattiva. Uscendo incrociò lo sguardo e diffidente della madre superiore, impermalosita per l’esclusione dal colloquio con quella gazzella del Corno d’Africa, delicata nello sguardo e nei pensieri. E genuinamente pietosa.

2. Continua

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