Silvio Perrella
«La canzone lunga di Jaufré Rudel»

Il poeta in viaggio

Alessandro Fogarollo in un piccolo delizioso libro ricostruisce il profilo di Jaufré Rudel, poeta provenzale che, innamorato delle parole, partì in cerca dell'Amore

Alessandro Fogarollo è un scrittore pudico. Le parole le guarda e le soppesa e la gran parte preferisce lasciarle fuori dalla pagina. Forse questo avviene perché il suo primo lavoro lo mette in contatto costante con il dolore degli altri. Lui si occupa di persone malate; se ne occupa perché è questo il mestiere che ha scelto ed ha imparato a fare; e se ne occupa anche come volontario. Il dolore degli altri non lascia immuni dal dolore proprio, quello che si rinchiude nel corpo, finché non chiede ascolto. E l’ascolto che Fogarollo sa dargli consiste nella scrittura: versi e racconti, soprattutto, con i quali compone brevi libri.

Con La canzone lunga di Jaufré Rudel (64 pagine, 7 euro, esigere edizioni) lo scrittore pudico si cimenta con la storia di un poeta provenzale vissuto nel XII secolo (che ha catturato tra gli altri anche le attenzioni di Heine e di Carducci) e noto per aver scritto versi su una forma curiosa ed essenzializzata di amore: quello da lontano.

Fogarollo riprende quel che si sa della sua vita e lo apre come un fiore giapponese nell’acqua della sua immaginazione. Poche pagine iniziali per  indicare il tempo e il luogo della narrazione, ed eccoci pronti a seguire il poeta nelle sue passeggiate campagnole, ricche di annotazioni e dettagli. Qualsiasi cosa aveva per lui, anche quelle in apparenza più banale, «la stessa magnifica inesploratezza dello sconosciuto».

Jaufre_Rudel-eCop.inddIl problema nasceva quando, seduto davanti al suo tavolo da lavoro, cominciava la lotta con le parole: «Arrivava sempre alla stessa conclusione, cioè che le parole scritte gli si manifestavano come la realizzazione di una caccia sbagliata, lasciandolo sfinito ed eternamente deluso, perché quello che ritrovava scritto davanti ai suoi occhi era sempre il risultato di ciò che non voleva. Era come se le parole che travasava sui fogli mutassero, perdendo la forza, l’insieme e l’intensità che avevano nella sua mente al momento della nascita: il suo vino diventava aceto».

E così succedeva perché, pur essendo pronto, Jaufré non aveva ancora trovato il «punto inarrivabile» verso il quale puntare tutto se stesso. E per lui quel punto non poteva non essere l’amore.

Le sue passeggiate si dipartivano dal paese provenzale in cui viveva e in compagnia del cane si spingevano là dove era possibile trovare cacciaggione. Lo vediamo infatti uccidere una lepre e vediamo anche che la «tristezza passò col balzo di un grillo»; la tristezza di chi uccide per cibarsi, ma sente quanto sia ingiusto farlo.

Mentre leggiamo e osserviamo il poeta all’opera, ci sembra di vedere un progenitore di Robert Walser; un camminatore in apparenza svagato, ma sempre capace di provare stupore. Ed è proprio con stupore che Jaufré accoglie nella sua casa un gruppo di pellegrini messisi in viaggio da Antiochia proprio per raggiungere lui.

Lo stupore si accresce quando costoro dicono di conoscere le sue poesie, e proprio in ragione di ciò hanno voluto affrontare un lungo viaggio per incontrarlo. Quel che loro portano con sé non ha nulla di materiale: è un racconto e dentro questo racconto c’è la contessa di Tripoli, la cui bellezza solo il poeta potrebbe essere in grado di cogliere appieno.

È dunque tempo di mettersi in viaggio. Jaufré vuol conoscere la donna del racconto, della quale, pur non avendola mai vista di persona, si è già innamorato. Raggiunge il luogo dell’imbarco a piedi, e «il suo passo era una rima che avrebbe proceduta perfetta».

Il viaggio è lungo, il mare sviluppa presto il suo potere ipnotico: «Chiuse gli occhi per un breve momento, li riaprì e vide soltanto il mare che farfugliava biancastro e spumoso sotto di lui». E in questa lunghezza di spazio prende forza il sentimento principe del poeta, quello per il quale lui amava «solo l’esistenza, solo questo, che una cosa esistesse, non importava quale, non importava come». Un sentimento che nell’andare incontro a un amore ignoto comincia a consumarlo.

Quando all’orizzonte appare Tripoli, con il suo odore «di cavoli bolliti e di sconfitte», Jaufré è come una candela che sta spegnendosi; e sono pagine che posso far ricordare la morte di Virgilio come la racconta Hermann Broch. Siamo quasi alla fine, e la fine va lasciata ai lettori.

In fondo al libricino di Alessandro Fogarollo compaiono due canzoni di Jaufré Rudel, e vanno lette come un contrappunto in versi alla prosa viaggiante del narratore, il quale di tanto in tanto intarsia la sua pagina con altri versi del provenzale. Come questi, che è giusto mettere qui a conclusione:

«Sulla terra che gira siamo radunati in gregge…

superando le onde e l’impeto dei venti siamo in-

seguiti, lui è qui… da qualche parte… con la sua

nave alla deriva che si fa piccolo per la paura… il

fetore del sangue umano fa ridere il mio cuore…»

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