Silvio Perrella
Un riflessione sull'Italia imperfetta

Trittico del Sud

Il Sud è un punto nello spazio, ed è anche un modo d’intendere il tempo. Qui, prima, si facevano i conti con i terremoti reali; oggi bisogna attrezzarsi anche a decifrare i terremoti mediatici

1. L’aria sapeva di varechina. La Città sembrava non avere colori, dominava il grigio. E la paura serpeggiava nelle parole e nei gesti.

Per fare la vaccinazione, attraversammo un intrico di vie e vicoli, alcuni così stretti che veniva da chiudere gli occhi: no, l’automobile non sarebbe mai riuscita a passare, e l’autobus che veniva nella direzione opposta ci sarebbe precipitato addosso.

Ero a Napoli da pochi mesi, e questo fu l’inizio. Le scuole tardavano ad aprire, e da adolescente vagabondo non potevo che rallegrarmene, e i primi amici dicevano di voler andare giùnapoli.  Ma dove giùnapoli, non eravamo già a Napoli?

Abitavamo ai Colli Aminei, e orientarmi era difficile. Sapevo che la scuola che avrei frequentato si trovava al Vomero e un autobus che portava il numero 136, qualora si fosse materializzato e non fosse stato troppo pieno, mi ci avrebbe portato. Altrimenti si chiedeva un passaggio e alla peggio ci s’inerpicava a piedi per il lungo viale e poi giù verso la scuola.

Se si scendeva dalla parte opposta, invece, si andava, per l’appunto, giùnapoli, e quel giù indicava il centro storico e l’intrico di vie e vicoli che avevamo attraversato per raggiungere l’Ospedale militare, dove c’era la fila per le vaccinazioni.

Il colera, era dovuto al colera il clima dominante di quella fine del 1973. Ma se devo essere sincero, quel clima era più nelle parole che non nei nostri gesti. Si bighellonava, soprattutto in motocicletta, e io in particolare facevo esercizi di orientamento.

Venivo da un paesino etneo, dove di notte la serpentina di lava scendeva luminescente ad ingoiare le terre che sfortunatamente erano sul suo percorso. Napoli era per me la più grande città che avessi visto. Ne intuivo le dimensioni, e cominciavo a sperimentare le sue lusinghe e i suoi tanti paradossi.

napoli pesceInsomma il mondo parlava di Napoli per via del colera, e noi ce ne andavamo in giro a cuor leggero. Com’era possibile? Capii in seguito che la città nella quale ero andato a vivere, veniva investita a ondate da terremoti mediatici, molto diversi da quelli reali dell’Etna. E del resto il vulcano della zona, una volta definito lo “sterminator Vesevo” se ne stava zitto e muto, come un oracolo che si è scocciato di vaticinare.

Quando questi terremoti mediatici erano in atto, della Città si poteva dire tutto e il contrario di tutto; qualsiasi affermazione, come qualsiasi negazione erano consentite. Cominciavo a capire che a ben pochi stava a cuore il reale oggetto della discussione. Ognuno aveva un suo interesse perché le cose andassero così o colà. Provavo malinconia, la stessa malinconia che provai quando si scoprì che l’imputato primo dell’epoca – le cozze – non c’entravano nulla; e quando capìì che anche l’igiene pubblica – certo precaria e da bonificare senza dubbio – non era la causa del colera. Qualcuno disse che non si poteva nemmeno parlare di vera epidemia.

Eppure, quando qualche anno dopo andai a vivere a Milano, era ancora consueto che i napoletani – soprattutto allo stadio – venissero apostrofati con quella paroletta maligna e reiterata: colera, colera. Non c’era nulla da fare, il terremoto mediatico aveva vinto. Napoli suggeriva, e avrebbe continuato a suggerire, che il colera in Città era possibile. E dunque se lo suggeriva, era vero, verissimo, uno stemma morale; meglio tenersene alla larga: dal colera e dalla città.

Questo significa che la Città non avesse problemi? E com’era possibile affermarlo. Il primo, tra i tantissimi, mi sembrò questo: che non seppe difendersi. La sua potenza, quella potenza che scoprivo andandomene in giro, e poi scegliendo di tornarci a vivere, non sapeva darsi un potere. Preferiva che i suoi problemi reali fossero offuscati – e dunque mai davvero affrontati – da un eterno chiacchericcio. E mi dicevo, non è questo purtroppo il destino delle città coloniali?

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2. Dunque all’epoca la Città non seppe difendersi, e fu ingoiata in un vortice inarrestabile di notizie apocalittiche.  Neanche l’allora potente e nefasta classe politica democristiana seppe resistere al terremoto mediatico; tant’è che soli due anni dopo venne eletto al comune di Napoli Maurizio Valenzi, primo  sindaco comunista.

E come dicevo, col colera fu anche travolta la coltivazione dei mitili. La cozza fu individuata come il cibo-killer. Il fatto è che al Sud le catastrofi ambientali hanno bisogno di un capro espiatorio, e la cozza era l’oggetto gastronomico sospettabile per eccellenza. Già il suo essere tutta nera era un indizio perturbante. Inoltre, la cozza è un filtro; si forma filtrando l’acqua circostante; e nell’acqua circostante si deposita tutto il marciume sociale della comunità; e lei quel marciume lo filtra e lo trasforma in un sapore che più sapore del Sud non potrebbere essere. Era lei il killer, pochi dubbi. Anche Bosch nel suo Trittico delle delizie non resiste a raffigurare una cozza che ingurgita un intero individuo. Oggi sappiamo, però, che il vibrione nelle cozze non c’era.

Passano gli anni e arrivano i rifiuti. Il terremoto mediatico in questo caso è ancora più sofisticato, anche perché i rifiuti ci sono, eccome. Ma per anni si parla quasi solo di quelli che ammorbano le nostre strade, non di quegli altri, molto più temibili e spesso mortali, che vengono sotterrati nel buio della terra.

Il cibo-killer questa volta è la mozzarella. Se la cozza è tutta nera, la mozzarella è tutta bianca; e anch’essa è un filtro: la cozza filtra acqua e la mozzarella filtra latte. La loro figuratività estrema incrimina entrambe, senz’appello. Il nero e il bianco sono la scacchiera in cui si depositano i conflitti sociali che non si riescono a comporre.

I rifiuti spazzano via il bassolinismo. Lo fanno in modo radicale e con molte ragioni. Ma anche in questo caso è più il terremoto mediatico a prevalere rispetto alla costruzione laboriosa e cosciente della Storia.

Ancora oggi, la questione dei rifiuti è un racconto che non torna. Quando ci proviamo a ricostruirne le vicende, ci perdiamo in troppe strade secondarie e presto finiamo nella disperazione del non-senso. Gli stessi protagonisti rimangono muti, e non solo perché devono nascondere le loro malefatte, ma spesso per mancanza di visione prospettica. Non sanno loro stessi che cosa è davvero accaduto.

Come può una comunità vivere senza elaborare una storia comune? È possibile non riuscire ad individuare gli elementi di congiunzione, la sintassi che permetta di condividere anche solo tre o quattro cose, ma fondanti.

Prima, al Sud si facevano i conti con i terremoti reali; oggi bisogna attrezzarsi anche a decifrare i terremoti mediatici.  Non me ne vogliano gli storici di professione, alcuni dei quali sono bravissimi, ma la Storia latita.

È come se a un individuo venissero tolte anche le più elementari capacità di orientamento. Brancolerebbe nel buio, in un buio dove ogni minima scossa verrebbe accolta come nuova, mai accaduta prima. È in un buio analogo, in un vero e proprio ammanco di Storia, che la nostrà società è costretta a vivere.

Va da sé che sia la cozza sia la mozzarella sono temibili concorrenti di altri cibi prodotti in diversi altrove. E incriminarle a priori, non sapere difendere la loro radicale diversità da quasi tutti gli altri cibi, equivale a sottostare alla solita logica coloniale. Significa dare spazio ai fast-food del mondo, dove entrambe vengono usate, certo, ma liofilizzate, lessico gastronomico locale ricondotto a uno spento e conformistico esperanto extra-territoriale.

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3. Ma questo Sud di cui tanto parli, in definitiva cos’è, mi chiede un’amica del Nord. Riesci a dirmene nella maniera più semplice possibile? Farò, le rispondo, come se la questione del Sud, invece che disegnata da Renato Guttuso, prendesse le forme geometriche dei quadri di Paul Klee.

Il Sud, amica mia, è un punto nello spazio. È un punto che per tradizione percettiva si è soliti segnare nel giù. Il Sud sta giù, in fondo a qualcos’altro. Ma per molti la sola cognizione dello spazio non basta a definirlo. Ci vuole il tempo. E il tempo presto diventa una condanna: il Sud non si colloca solo nel giù, è anche indietro. Da qui a dire che è “arretrato” il passo è breve.

Ma arretrato rispetto a cos’altro? Domanda maligna, che scatta perchè, quando arriviamo in questi paraggi argomentativi, siamo già stati trasportati, malgrado noi, nel territorio dei giudizi morali. Come non scivolare dalla geografia (il Sud è un punto nello spazio) alla storia (il Sud è un luogo rimasto indietro)?

Quel che sta alla base degli argomenti qui sfiorati può essere sintetizzato così: il Sud non è riuscito a stare al passo con la modernità, ecco perché è arretrato. La sua atavita lentezza tende a metterlo spesso al di fuori della storia. Da qui, il mito della sua immobilità.

napoli immondiziaA leggere il dibattito che di solito si sviluppa sui media a proposito del Sud, viene da pensare che i dati quantitativi servano sì, ma non siano così determinanti a intessere un discorso veridico. Non solo perché sono spesso inverificabili, ma anche perché, in assenza di altri parametri, gli stessi dati possono suggerire letture opposte. Se per esempio dicessimo che la modernità non è un monolite? Se provassimo a mettere in scena le sue tante sfaccettature?

E soprattutto se prendessimo in esame la cognizione del tempo che nel Sud è da sempre presente ma che non ha ancora trovato “narratori”  adeguati.  Il tempo che prevale nell’idea  della modernità è progressivo. Simile a una freccia, vuol raggiungere velocemente  stadi superiori.

Il tempo che prevale nel Sud è invece ciclico. In apparenza non si evolve; anzi dà l’idea che ristagni. Fu Leopardi a insorgere contro la progressività del tempo. E Vico, prima di lui, disegnò una mappa del mondo dando alla circolarità un posto preminente e fondativo. Entrambi lavorarono le loro cosmologie al Sud. E possiamo arrischiarci a dire che le loro cosmologie sono anche quelle che i cultori del quantitativo dovrebbero tornare a guardare.

Dunque, il Sud è un punto nello spazio, ed è anche un modo d’intendere il tempo. La sua immobilità è tale se guardata con gli occhiali della modernità cartesiana; ma se si inforcano gli occhiali della modernità vichiana le cose cambiano.

Ciò non significa che così il Sud si mette a correre. La sua lentezza corrisponde a una sedimentazione. Il tempo al Sud è verticale. È dal giù che sono venute le sue scosse; scosse simili a movimenti tellurici.

In questo senso il sapere archeologico dovrebbe essere tenuto più da conto. Quando il mondo occidentale scoprì Pompei ed Ercolano, l’intera percezione della storia dell’arte cambiò. Il neoclassico, senza quelle scoperte, non sarebbe stato possibile. E lo stesso Freud si dice che, visitando Pompei, pensò all’inconscio, anzi lo vide all’opera. Il giù tornava su e lo modificava. Verrebbe da dire, usando una famosa immagine di Primo Levi, che senza il mondo sommerso il mondo emerso non ha nessuna possibilità di essere salvato.

Se in orizzontale il mondo del Sud sembra immobile, in verticale si muove, eccome. Da qui ne deriva che è impossibile pensare al nostro Sud senza la presenza del mare. Sarebbe il mare la sua rivoluzione perenne. Ma purtroppo il mare nei nostri discorsi viene sempre per ultimo, se viene.

Se sei arrivata a leggere sin qui, amica cara, prendi queste note come stimoli; e dai a questi stimoli la tua energia. Solo l’immaginazione e l’energia possono tirarci fuori dalle secche in cui ci troviamo. I “narratori”, ovunque loro vivano, sarebbero chiamati a soffiare entrambe nei loro lavori di restauro, non solo del possibile, ma anche della veridicità perduta.

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