Renato Minore
Un racconto inedito

L’Olivetti della befana

Storia (drammatica) del giorno in cui si passa dall'infanzia all'adolescenza e si scopre che i sogni di bambini sono destinati a morire. Per colpa di una "q" opaca...

La tenevo ben stretta quella lettera. L’avevo letta, riletta, commentata un’infinità di volte. Alla fine la sapevo a memoria. Quelle parole me le andavo ripetendo come un mantra, qualcosa che poteva far affiorare una verità forse nascosta, forse inaccessibile, qualcosa che comunque era unico, esclusivo.

Non capita tutti i giorni che ti scriva la Befana. E scrive proprio a te, «caro bambino Renato io voglio dirti che…». Che cosa voleva dirmi scegliendo proprio me, momentaneo interlocutore con cui confessarsi, magari scartando uno a uno gli amichetti con cui giocavo nel cortile di casa? Ma erano una confessione le quindici righe a macchina, trovate una mattina sul comodino, e quando avevo chiesto spiegazioni mia madre aveva detto: «La lettera è arrivata a nome tuo ieri sera tardi all’ufficio di papà e papà l’ha portata a casa, io te l’ho messa sul comodino in modo che potessi leggerla appena sveglio, per farti la sorpresa»…

Sì, la sorpresa: la Befana si confessava, confessava la sua identità da me messa in forse. Mi rimproverava per il mio dubbio, molto persistente negli ultimi tempi. O meglio per la fede in lei che vacillava. Avevo sei o forse sette anni e cominciavo a pensare che la vecchina con i doni nella calza fosse un piccolo imbroglio familiare, una favola da capire meglio e da smontare, una storia a uso e consumo dei più ingenui che credevano ancora possibile che qualcuno andasse in giro, una volta l’anno, e tutto gli altri giorni a preparare la festa, a raccogliere regali da distribuire in una sola tornata e così via, da sempre.

Non avevo idee chiare in proposito. Tutto era possibile e vago, il sospetto aveva trovato un terreno molto fecondo in quella nuova condizione cognitiva che si nutriva più di interrogativi che di certezze e diffidava di ciò che non era perfettamente concreto, visibile, certificabile.

«Caro bambino Renato, io voglio dirti che…». E la vecchina mi ricordava puntigliosamente che quel trenino che le avevo chiesto me lo aveva fatto trovare qualche giorno prima come sempre, sotto la calza, che anche gli anni passati era stata molto ligia al dovere, non mi aveva mai dimenticato, rivendicava con fierezza quasi contabile la sua generosità distribuita in rapporto ai miei meriti e alle mie carenze, valorizzando i primi e riducendo le seconde.  Ed io ora volevo cancellarla, fortemente desideravo che non esistesse: mi sentivo grande e pronto alla rivelazione fasulla , un trucco ben congegnato per divertirmi una volta l’anno e per farmi pensare a lei che non esisteva, negli altri giorni.

Era pignola, quasi notarile. Le sue parole s’erano trasformate nella striscia continua di parole battute con l’Olivetti, strani sbruffi di alcune lettere pressoché irriconoscibili se non con grande fatica e intuito: quella e che si raddoppiava ogni volta, quella a che si imprimeva a fatica, quella q che era quasi una g, quella r che sembrava una i senza puntino. Se scrivendo a macchina aveva voluto mandarmi un messaggio quasi impersonale, una circolare di orgogliosa rivendicazione della propria esistenza, nella realtà scrivendo proprio su quella macchina aveva molto personalizzato il messaggio. Era come se l’avesse scritto  non in modo meccanico, tante erano le irregolarità della battitura che lo rendevano unico, quasi fosse stato vergato di proprio pugno.

Pensai a lungo a questa Olivetti che aveva bisogno di una revisione, di un nastro nuovo o comunque di una bella pulitura. Una creatura che (se l’immaginavo) non potevo che vederla un po’ guizzante, irreale, sognante, dedita a una missione che riempiva tutto il suo destino, era alle prese con uno strumento per comunicare così visibilmente difettoso… Avrebbe potuto parlarmi in molti altri modi, e invece aveva scelto proprio quello. Questa debolezza un po’ inspiegabile, questa fragilità improvvisamente scoperta le fecero riguadagnare molte posizioni. Per alcuni giorni misi da parte dubbi e sospetti. Pensai che fosse tutto vero, che lei esistesse, che avesse voluto orgogliosamente scrivermi, che dovevo rispettarla anche se (per qualche ragione misteriosa) non mi sarebbe mai capitato di conoscerla.

Non la conobbi mai, è vero. Però mi capitò di smascherarla qualche settimana dopo.

Ero nell’ufficio di mio padre e sul suo tavolo c’era una pratica. Un certo signor Poli chiedeva il passaporto, l’appuntato in servizio al Commissariato aveva trascritto la sua richiesta. Leggevo distrattamente, il «sottoscritto… nato… residente etc etc. » poi improvvisamente m’inceppai, rilessi e ebbi come una rivelazione: anche quella lettera l’aveva scritta la Befana. Le stesse lettere sgorbiate, ripetute, fulminate sul foglio senza grazia, con tanto di alone. Ma che c’entrava la Befana con il signor Poli? In un attimo tutto mi fu più chiaro: la stessa macchina aveva scritto la lettera della Befana e quella del signor Poli. E la vidi finalmente l’Olivetti Everest K2 un po’ arrugginita sulla panchetta alla destra del tavolo, in una confusione di carte, fermagli e cartelle. D’istinto misi un foglio sul tamburo, il risultato della mia battitura con il solo medio destro fu lo stesso, inequivocabile: due e al posto di una, la q e la r davvero irriconoscibili. La Befana aveva scritto la lettera nell’ufficio di mio padre? No, era molto più semplice pensare che mio padre avesse scritto quella lettera nel suo ufficio fingendo di essere la Befana, per vincere con il minimo inganno il mio disorientamento, la mia convinzione di un tempo che s’era andata esaurendo, per ricaricarla di energia come una pila.

L’immagine della vecchina si dissolveva in una nuvola di niente. Al suo posto mio padre batteva, batteva sui tasti per puntellarmi l’immagine, per prolungarne l’effetto sorprendente e irrealistico, per conservarmi ancora un po’ la piccola benefica illusione destinata comunque a crollare. Mi voleva ancora bambino oltre ogni limite. Ce la aveva quasi fatta, senza l’errore, e gli errori, della macchina.

Sul momento fui orgoglioso della scoperta da piccolo detective che faceva collimare gli indizi e tirava le conseguenze. Poi però piansi molto quella notte, anche se non riuscivo a capire bene il perché. Capivo però confusamente che la vecchina non mi avrebbe più scritto. Io non avrei mai più creduto alle sue ambigue parole. Mio padre aveva cercato di farmi accettare quello  in cui era impossibile credere.

Ma aveva commesso un piccolo e vistoso sbaglio che rendeva più dolorosa l’inevitabile rivelazione finale. Con il mio pianto, che fu anche convulso in quelle ore, io l’accettavo, non potevo che accettarla, ma reagivo anche all’imprevisto  che me l’aveva  a sorpresa messa davanti agli occhi nella forma di un assai poco nitido carattere tipografico.

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