Lidia Lombardi
La Domenica: itinerari per un giorno di festa

Il suono del barocco

Un'ascesa al bello per riscoprire, a San Pietro in Vincoli, una delle più suggestive chiese romane, l'Alani-Priori, l’organo che dopo un silenzio lungo cinquant'anni torna a far vibrare anche il marmo del Mosè di Michelangelo, suo dirimpettaio. Uno dei tanti tesori che Roma sa offrire, nonostante le offese dell’incuria e della corruzione...

Rinascimento e barocco si fronteggiano in una delle più suggestive chiese romane. E non è una novità. Però se il rinascimento è quello del Mosè di Michelangelo e il barocco è quello di uno dei più antichi organi capitolini, allora l’acme di interesse si accresce. E lievita anche perché il vetusto strumento, trionfante nel suo intaglio dorato, dopo essere rimasto muto per mezzo secolo è appena tornato a far vibrare col proprio suono i marmi di San Pietro in Vincoli, il tempio che interrompe nel suo spazio metafisico il viaviai rumoroso di via Cavour.

organo 2Vogliamo proporla per una passeggiata domenicale la riscoperta del nobile organo Alari-Priori, vivificato dopo il restauro lungo due anni, promosso e finanziato dal cardinale Donald William Wuert, del titolo presbiteriale di San Pietro in Vincoli. Il doppio nome è dovuto al fatto che fu Giacomo Alari a realizzarlo nel 1686 e che duecento anni dopo, nel 1884, un altro maestro organista, Attilio Priori, ci rimise mano, in un intervento non solo di restauro ma anche di aggiunta di nuove canne rese necessarie dallo sviluppo dei pentagrammi nel diciannovesimo secolo. Il pedigrée del mastodontico strumento – che pare benedire i fedeli con la sua cassa ricoperta di stucchi, festoni e statue nella cantoria del transetto sinistro, proprio in faccia al Mosè michelangiolesco – è di tutto rispetto. Perché se sono tanti gli organi nelle chiese sei/settecentesche romane, l’Alari-Priori gareggia per magnificenza con quello di San Giovanni in Laterano, costruito da Luca Blasi per il Giubileo dell’anno 1600, e con l’altro di San Giovanni dei Fiorentini, firmato nel 1673 da Giuseppe Testa.

Ma al piacere di sentirlo di nuovo “cantare” si unisce la soddisfazione per una scoperta: il restauratore Michel Formentelli – erede di una grande tradizione artigianale nata e operante a Camerino, nelle Marche, e poi estesasi anche a Drome, in Francia – quando è entrato nella “pancia” dello strumento si è accorto che non dice il vero il cartiglio posto dal Priori sopra la tastiera. Ovvero che oltre alla cassa e alle canne di facciata, nulla era rimasto dell’organo originale. Invece, smontando, pulendo, ispezionando, Formentelli si è accorto che il materiale fonico del Sei/Settecento era stato interamente salvato per la sua eccellente qualità e riutilizzato dal Priori. Insomma, egli non ha realizzato uno strumento nuovo, impresa della quale volle vantarsi nella certificazione del cartiglio. Piuttosto si è limitato, osserva il restauratore, ad aumentare l’estensione delle note nei bassi e negli acuti, aggiungendo canne nuove e arricchendo lo strumento di alcuni ulteriori registri, secondo il gusto della propria epoca.

s_pietro_in_vincoliAllora viviamola come una ascesa al bello e all’emozione la riscoperta dell’Alari-Priori. Una salita verso i tesori che soltanto Roma, questa Roma offesa dall’incuria e dalla corruzione, riesce nonostante tutto a offrire. Una salita non soltanto simbolica, poiché per raggiungere piazza San Pietro in Vincoli da via Cavour bisogna affrontare gli alti gradini della scalinata dei Borgia, che deve il nome alla convinzione popolare che l’alto e tetro palazzo che la sovrasta fosse appartenuto, a fine Quattrocento, all’amante di Alessandro VI, appunto il famigerato Papa Borgia. Altre suggestioni offre poi la chiesa. Fu un’imperatrice, Eudossia, moglie di Valentiniano III, a fondarla nel V secolo per accogliere la reliquia che tuttora conserva sotto l’altar maggiore e che viene esposta il primo agosto di ogni anno: la catena che quattro secoli prima aveva imprigionato San Pietro a Gerusalemme. E si colora di pathos anche la realizzazione del Mosè, ovvero il monumento funebre che papa Giulio II commissionò nel 1505 a Michelangelo. Doveva essere imponente, invece quel che lo scultore toscano realizzò è una sola, pur carismatica figura, insieme a due schiavi, finiti però al Louvre di Parigi. Successe che il Pontefice, dopo un primo entusiasmo, si concentrò sulla fabbrica della basilica di San Pietro, disinteressandosi del proprio mausoleo. Michelangelo se ne fece una malattia, addirittura parlando del lavoro interrotto come “tragedia della sepoltura”. Ci vollero un altro papa, Leone X de’ Medici successore di Giulio II, e altri trent’anni perché la tomba fosse completata. Non nell’impianto architettonico iniziale, ma ridotta alla sola figura del patriarca, affiancato dalle figure di Lia e Rachele, peraltro abbozzate da Michelangelo e terminate da un aiuto, Raffaello di Montelupo. Certo, il vigore, lo sguardo fiammeggiante, la torsione del corpo di Mosè affascinano. La scultura è corrucciata come il suo ideatore. Chissà se le note di un Bach, di un Frescobaldi che adesso l’organo dirimpettaio gli rimanda riusciranno a mitigare il suo sdegno.

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