Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Illusioni & burocrazia

Dalla borghesia annoiata di Irène Némirovski a quella illuminata di Anna Maria Ortese. Passando per l'italica burocrazia raccontata da Tim Parks

Borghesia. Lei, ancora lei. Ma quanto ha scritto Irène Némirovsky prima di essere deportata da Parigi e uccisa in campo di concentramento nazista? Ogni suo scritto appartiene alla letteratura alta. Anche i racconti, da poco raccolti e pubblicati dalla Adelphi (258 pagine, 18 euro) col titolo L’orchessa, aggiungono merito al merito. Nel primo racconto, La commedia borghese, l’autrice dipana una storia lunga di una famiglia che vive nel nord della Francia, «…una strada, nera di catrame fresco, con ai lati due file di pioppi e due vasti campi grigi». Ecco, di qui i protagonisti non si muovono. Parigi è lontana. Il paesino è squallido, la vita è terribilmente tranquilla, intrisa di pensieri e ansie repressi. Madeleine suona un valzer al pianoforte, viene interrotta da mamma e papà perché si deve andare da zia Cécile, che fa buoni arrosti. Il capofamiglia dirige una piccola fabbrica, la moglie si gusta il piacere tiepido della casa. E Madeleine? Per lei si deve cercare un marito. Ogni tanto, nelle pagine della Némirovsky compare il termine “dissolvenza”, come se facesse entrare i lettori in un film dall’andamento lento. Il partito giusto per la giovane pianista potrebbe essere Henri. E lo sarà: «…entrambe le famiglie sono benestanti». Si va in chiesa poi. Il pranzo e una pacata allegria: «Si formano le coppie. I giovani ballano. Gli anziani accennano a qualche saltello sul posto, tenendosi per la vita, come una volta, e ridono». Il clima familiare non subisce scossoni. Madeleine scrollerà la spalle «con aria stanca e rassegnata» e percorre sempre la stessa strada, «ogni giorno, sono quasi trent’anni…». Nulla si muove, tutto è ingoiato da una noia sempre negata.

l'orchessa irene nimirovskiNel racconto Domenica, Agnes chiude le imposte per ripararsi dal sole estivo. Dopo la messa, pranzo di famiglia. Il marito avverte che rimarrà fuori tutto il pomeriggio. La moglie sa che Guillaume incontrerà altre donne e magari resta fuori la notte: «Ha 45 anni, è solido, vigoroso». Agnes accetta tutto. «Chi se l’aspettava che sarebbe diventata così pantofolaia, così spenta», pensa il marito, che si compiace della propria vitalità osservando la consorte «con sorda ostilità». La figlia Nadine esce per incontrare il fidanzatino. Agnes è contenta di stare sola nell’appartamento, «un rifugio, una conchiglia sigillata e calda, avulsa dai rumori esterni». Lavora a maglia e costringe la sua mente «ad abbassarsi, a umiliarsi, a starsene tranquilla, in silenzio…». Già, «perché i desideri, meravigliosamente, si dimenticano, si ridimensionano, diventano più accessibili a mano a mano che si avvicina la fine di tutti i desideri». Nadine rientrerà prima del solito, senza aver incontrato il fidanzato. Ma la sera arriva la tanto attesa telefonata e la ragazza ricomincia a sognare. Mentre la madre ripensa al passato: «Soffrire, disperarmi, aspettare qualcuno! Non ho più nessuno da spettare…come vorrei soffrire ancora…». E ripensa a quando Guillame «le stringeva il seno, piano, con cattiveria».

tim parks coincidenzeIl treno. Lo scrittore e giornalista inglese Tim Parks vive da una trentina d’anni in provincia di Verona (e insegna a Milano). Seguire i suoi scritti serve molto per comprendere meglio l’immagine che uno straniero, pur italianizzato, ha del nostro paese. Nell’ultimo suo libro, Coincidenze, edito dalla Bompiani (341 pagine, 19 euro), ha scelto come punto di osservazione le nostre ferrovie. Se l’alta velocità con Frecciarossa funziona bene (personalmente lo confermo, facendo il pendolare Milano-Roma), i treni che tagliano orizzontalmente la penisola possono riservare brutte sorprese, a parte lo scombinato e ridotto sistema che trasporta gli affaticati pendolari. Ebbene, mister Parks è seduto sul sedile di un “Regionale veloce” Milano-Verona. Passa il controllore e lui gli legge il codice del biglietto, come si fa sulle “Frecce”. Il controllore non possiede alcun sistema di verifica elettronica. Parks apre il computer e gli fa vedere la pagina ove compare il suo acquisto, numero prenotazione, nome cognome eccetera. Niente da fare: ci vuole un documento cartaceo. Il controllore cita l’articolo numero sei (scritto in piccolo, ovviamente) che impone una multa di 50 euro più il prezzo della corsa. Attorno allo scrittore una ventata di indignati commenti contro Trenitalia. Sparks ha due scelte. La prima, di marca “italiana” è di scendere a Peschiera per poi risalire confidando nella confusione. La seconda, molto “british”, è scendere subito e acquistare un biglietto “Frecciabianca”, che costa il doppio. Il treno, dunque, come metafora del «modo italiano di fare le cose». Sui binari la burocrazia mostra la sua faccia inutilmente feroce, simbolo di un mondo schizofrenico e paradossale.

nessun male può dirsi lontano orteseVeleno. Leggere o rileggere i libri di Anna Maria Ortese non deve certo suonare come un obbligo o uno dei frequenti imperativi di chi a tutti i costi pretendere di separare i testi buoni da quelli mediocri. È un consiglio. Punto e basta. Aiuta molto a conoscere la narratrice che nacque a Roma e morì, in condizioni disagiate, a Rapallo, il libro pubblicato dalla Empiria intitolato Nessun male può dirsi lontano ( 97 pagine, 15 euro). L’opera si apre con una vera e propria confessione fatta a Goffredo Fofi e comparsa nel ’96 sulla rivista Linea d’ombra e ripresentata poi su Lo Straniero. In aggiunta ci sono articoli di critici di buona fama sull’autrice tra l’altro de Il mare non bagna Napoli. Di sé la Ortese parla con una franchezza disarmante, senza alcun infingimento. «Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile. Sono esigente col mondo, non vorrei che le cose fossero così come sono, ma conoscendo del mondo solo le parti infime e dando giudizi che invece riguardano tutto, finisco per sembrare e per essere ingiusta, e così preferisco non parlare. Io sono in contraddizione continua con me stessa». Afferma comunque di non seguire molto la letteratura contemporanea, di amare poeti come Caproni, Montale. E aggiunge: «Mi piaceva molto Gozzzano». Riguardo al mondo che le stava attorno (è scomparsa nel 1998), cita L’isola del tesoro, esempio grande di divertimento, spazio entro il quale «non ci può essere il male assoluto». E allora dove lo colloca? Nell’industria e nel denaro. «Prima gli uomini avevano a disposizione elementi favolosi di realtà, oggi hanno voluto perderli: non c’è più la campagna, non ci sono gli animali… resta solo il denaro, che chiede e impone un’altra natura, una natura artificiale». Si dice poi «stanca di vedere i ricchi, gente che spende troppo» anche per colpa della televisione. Il suo respiro, sostiene Antonella Anedda, era lo scrivere. Si è defilata dal mondo, ma senza che ci sia stato “uno schianto”; semmai è giusto parlare di “silenziosa uscita dalla vita”. Lo stesso concetto viene ribadito dal critico Giulio Ferroni, quando afferma che Anna Maria «…è fuggita dalla “festa del mondo”, dal vortice di occasioni e di futili cose che la società ci propone con un ritmo sempre più incontrollabile e fatale».

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