Valentina Mezzacappa
Storie ritrovate

Il cavallo di Fulvio

Uomini e animali: un rapporto - a volte - che va oltre la ragionevolezza. E chiama in causa sentimenti unici. Provate a rivedere "Gran Premio" con Elizabeth Taylor...

Fulvio ha da poco compiuto nove anni. Fulvio è un’accesa macchia di colore, satura di luce e vivacità che non conosce confini, figure e disegni prestabiliti. È una giga giocosa che riempie l’aria di note e meraviglia. In lui convivono con disarmante armonia spirito d’osservazione, intuito ed entusiasmo. Sono totali e viscerali come li conosce solo l’infanzia e la lucidità e la consapevolezza che li accompagnano sono il segno inconfutabile di un’intelligenza creativa e fuori dal comune.

Fulvio è così profondamente radicato nel suo presente da perdersi davvero poco di quello che avviene nel mondo che lo circonda. L’adulto che si ritrova a intrattenere con lui una conversazione deve stare allerta perché non si può mai prevedere quando questa avrà esiti epifanici o si rivelerà, per dirlo con parole d’uso comune, una vera e propria doccia gelata. Sì, perché Fulvio dice, senza pudori e senza timori, quello che pensa e ti fa anche il regalo di renderti partecipe dell’arzigogolato eppure ammirevolmente logico percorso che intraprende ogni volta che decodifica, con l’ingenua precisione dei suoi nove anni, quello che vede, che metabolizza, che pensa.

Fulvio colpisce. Lo fa dritto al cuore. Rammentando al suo interlocutore un segreto che un tempo è stato di tutti.  Agire e reagire alle vicissitudini e ai piaceri, anche piccoli e ameni della vita, con rabbia non è cosa saggia. Perché ci deruba dell’intimo e viscerale amore per ogni cosa. Ogni volta che si parla con Fulvio, ogni volta che condivide con gli altri le sue piccole avventure, egli ricorda al mondo quanto sia straordinaria l’infanzia.

E senza saperlo in ogni sua squillante parola si cela un monito importante: rammentate sempre di nutrire e voler bene a quel fanciullo che vive dentro di voi e che spesso, curvati dal peso di sterili ma, ahimè, pratiche vicissitudini fate l’errore di relegare in un angolo. Quel fanciullo è il custode della vostra felicità e se non lo avete ancora capito e proprio quel fanciullo a prendersi cura della donna, dell’uomo, della madre e del padre che magari siete diventati.

Anche il poeta americano E. E. Cummings lo aveva capito: «Sempre sia il mio cuore aperto ai piccoli/
uccelli che sono il segreto del vivere/
qualsiasi loro canto è meglio del sapere/
e gli uomini che non li sentono sono vecchi/ sempre la mia mente vaghi affamata/
intrepida assetata e agile/
e anche s’è domenica il torto sia mio/
ché se la gente ha ragione non è giovane/e che io non faccia mai nulla di utile/
e il mio amore per te sia più che sincero/
perché nessuno giammai fu così stolto/
da non attirarsi con un sorriso il cielo».

Da qualche tempo il piccolo Fulvio è solito montare un giovane stallone dal carattere esuberante. Guardare quei due insieme è un vero nutrimento per l’anima. Quell’animale pare esser diventato tutt’altra creatura. Esso si prende cura del bambino, il quale ha spesso l’abitudine di lanciarsi al galoppo libero e temerario come un indiano e di farsi catturare e trasportare dal fruscio delle foglie, dalle chiacchiere a bordo campo, dagli occhi che l’osservano ammirati e increduli.

La purezza di Fulvio è contagiosa. E supera ogni confine. Ogni sfera animata di questo mondo.

È iniziata la stagione delle influenze. La scia di influenze che ha colpito l’asilo di mia figlia ha colpito anche me. E così durante un pomeriggio noioso, per esorcizzare quelle poche linee di febbre e il torpore influenzale, insieme abbiamo guardato un vecchio classico. È National Velvet, la pellicola del 1944 conosciuta in Italia con il titolo di Gran premio. Protagonista è una deliziosa Elizabeth Taylor nei panni di Velvet Brown, una bambina incapace di immaginare una vita che non sia in sella a un cavallo. E il destriero dei suoi sogni è un animale che nessuno riesce a domare e che nessuno desidera capire. Alla fine, sfidando il fato, il cinismo del padre e ogni convenzione sociale, Velvet vincerà la corsa a ostacoli più temuta del mondo, l’England Grand National Sweepstakes.

National Velvet è un film straordinario per diverse ragioni.

In primis è la storia di una bambina che grazie al suo amore per i cavalli apprende e metabolizza principi di vita fondamentali: la responsabilità, la dedizione e la comprensione. E lo fa nel migliore dei modi, lo fa come dovrebbe essere concesso a ogni bambino di apprendere simili insegnamenti: attraverso l’amore e il rispetto per la natura e gli animali.

Ma National Velvet è anche un film che anticipa i tempi, fondendo tradizione e modernità sociale attraverso lo straordinario personaggio della Signora Brown, la mamma di Velvet, interpretata da una superba Anne Revere. In questo personaggio albergano armonicamente la millenaria eredità del matriarcato e la modernità delle donne future. La Signora Brown è portatrice, grazie ai suoi passati traguardi di nuotatrice, di quei valori, di quella forza e di quel coraggio che costituiranno il patrimonio di tutte le donne che nei decenni a venire cambieranno l’assetto sociale del mondo dimostrando l’ammirevole complessità dell’universo donna, una complessità che non può e non deve essere relegata alla singola sfera domestica.

C’è uno scambio di battute tra la Taylor e Rooney, che nel film è il mentore equestre di Velvet, che colpisce e commuove a ogni visione.  La bambina che rassicura il suo trainer, preoccupato che si possa far male durante l’estenuante corsa ad ostacoli che l’attende, ricordando lui una verità che aveva forse smarrito lungo la tortuosa via della maturità: sarà The Pie, quel castrone al quale lei aveva regalato fiducia, amore e comprensione, a prendersi cura di lei durante la gara.

Inutile dire che quando ho rivisto National Velvet è stato proprio a Fulvio che ho pensato. E mi sono anche detta, durante i titoli di coda che a mala pena riuscivo a vedere tra una lacrima e l’altra, che la prossima volta che monterò a cavallo o che mi ritroverò anche solo a cucinare un piatto di pasta, chiederò a quel fanciullo che io stessa ho fatto più volte l’errore di mandare al confino di tornare a casa perché mi aiuti.

Scriveva D.H. Lawrence «Regala e ti sarà regalato/ è ancora la verità della vita./ Ma regalare vita, non è facile./ Non vuol dire darla via a qualche stolto maligno, o lasciare/ che i morti viventi ti sbranino./ Vuol dire saper ravvivare la qualità della vita laddove non ve n’è/anche se solo attraverso il candore di un fazzoletto appena lavato».

Insomma, di quanta inconsapevole saggezza e mistero sono intrisi i nostri bambini. La stessa saggezza e lo stesso mistero che fanno girare il mondo. E riempie l’animo di infinito leggere le parole di autori che questo segreto non l’hanno mai dimenticato. È anche vero però che a questa rassicurante e commovente sensazione si aggiunge una sottile tristezza perché rinverdita la consapevolezza e riabbracciata la verità non si può più fare a meno di pensare a quegli splendidi stralci di letteratura come a surrogati di vita viva e tentativi, più o meno consapevoli, di scongiurare la spaventosa metamorfosi dell’animato in inanimato.

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