Anna Giurickovic
I racconti del peccato/2

La frusta che mi è dolce

Ripensate spesso a quel giorno in cui lui vi guardava all’ombra del ginepro e vi diceva che avevate i capelli morbidi come lana, se li avvolgeva intorno al collo, poi li annusava e pareva svenire. A me i capelli ora li tira

Mi chiamo Carmela e sono l’amante dei vostri mariti. Tutto ciò che loro non possono o non vogliono fare con voi perché danno ancora un valore alla vostra dignità, vengono a farlo nel mio letto. Io, d’altra parte, non ho alcuna abilità nel farmi amare, se questo può farvi stare tranquille, signore.

Di me hanno tutto e subito. Nonostante io mi imbelletti per loro con ciprie profumate e sottovesti di raso, non desiderano mai me, ma solo l’idea di quello che vogliono farmi. Io mi prostro, cercando di placare ogni loro appetito, anche il più sporco. Mi mostro candida e indulgente, ma conservando un velo di timore nello sguardo. Le mie gambe sono sempre leggermente aperte, le spalle abbastanza dritte da lasciare che i seni si affaccino dalla camicia,  ma mai tanto da far sospettare che io abbia stima di me o che pretenda il minimo rispetto.

Tendo a mantenere un’espressione remissiva e al contempo maliziosa. Sono sempre disponibile a raccogliere la loro rabbia, senza pretendere né spiegazioni né tanto meno affetto.

Mi mostro come un oggetto, capite? Gli do l’opportunità di liberarsi, per qualche ora almeno, della vostra fastidiosa convinzione di averli in pugno. Voi non avete proprio un bel niente in quel pugno. Aprite la mano: è vuota. Contiene solo sussurri, parole dette a mezza bocca, carezze sui capelli, sesso, che chiamate amore, ma che v’annoia. Vivete di cafféllatte la mattina, pan brioche, il Tg alla televisione che vi fa discutere di questo e di quell’altro, della sera al cinema e dei regali a Natale.

Mi faccio percuotere se devo. Al momento provo dolore, ma poi ci ripenso quando sono sola ed è buio e il ricordo delle botte mi dà la sensazione di essere stata voluta bene. Così mi accendo e ne desidero di nuove, ma mai le chiedo. Non chiedo proprio niente. I vostri uomini possono non chiamarmi per settimane o mesi e io rimango zitta, pizzicandomi la pelle sino a farne uscire il sangue. Penso: non mi vuole più, ho sbagliato qualcosa, ora mi ammazzo. Preparo il bagno caldo e il rasoio che poso vicino alla saponetta al gelsomino e immagino che quando mi aprirò le vene si svuoteranno con voluttà estrema rendendo tutto, in fondo, ancora più bello. Proprio allora vostro marito mi chiama con la schiuma alla bocca tanta è la sua impazienza. Corre al mio appartamento in Via del Teatro cominciandosi a toccare già in macchina. L’odore della tappezzeria in pelle gli ricorda il profumo dei bustini e dei lacci che io indosso.

Ripensate spesso a quel giorno in cui lui vi guardava all’ombra del ginepro e vi diceva che avevate i capelli morbidi come lana, se li avvolgeva intorno al collo, poi li annusava e pareva svenire. A me i capelli ora li tira. Mi strappa la pelle dai fianchi, mi morde i piedi e le mani. Voi, in cucina, rosolate, infarinate e mescolate mentre lui nasconde l’erezione e pensa come un ossesso alla mia schiena rotta, alle mie ginocchia che tremano. Vi osserva come foste un estraneo. Vi guarda i baffi mentre versate il tè nelle tazze del nuovo servizio Villeroy e vi asciugate, con la manica, il sudore dalla fronte. Un tempo ha persino creduto che voi foste la Madre, con i seni gonfi di latte e il ventre pieno. Talvolta, distrattamente, vi carezzava come si accarezza la coda di un gatto mentre si fa le unghie sul divano. Ora inorridisce al solo pensiero che voi abbiate dei seni. Segue infastidito il vostro corpo flaccido che si avvicina per dargli un bacio.“Chivalà” vorrebbe urlare, infilarvi in un sacco e buttarvi nell’inceneritore.

Nella mia vita non ho mai avuto niente che fosse mio, non ho mai neanche creduto di averne diritto. Sono sempre stata ospite, intrufolandomi nelle falle delle vite degli altri. Mi sono accovacciata affamata, in un angolo, a rosicchiare i resti della vostra pagnotta e non ho lasciato niente. A nessuno. Che è rimasto a voi di ciò che avete costruito con fatica? Di tutte le vostre risa a Lui non è rimasta che una sporca eco. Del vostro comprendervi, raggomitolarvi, dei baci sulla nuca, niente. Potreste prendere tutto questo, farci un giorno, stropicciarlo e buttarlo dalla finestra.

Quando per la prima volta vi ha guardato, voi avete pensato: “ecco, mi sta amando.”

Ve ne stavate giulive, con quell’aria da cretine che avete, a farvi accarezzare sotto le sue mani pesanti e le braccia ossute, il suo ansimare e i suoi spasmi. Vi diceva che eravate belle: “tu guarda che musetto, Lucia”. La notte si svegliava in preda a dei brividi tutti suoi: “abbracciami, Teresa, muoio di freddo”. E voi eravate lì che lo stringevate piano, per non rovinarlo. Abbracciami più forte, Rita, che non ti sento. Più forte ti dico”. Ammaccavate il petto sulla sua schiena, gli strizzavate le gambe con i piedi e non vi bastava. Vi sembrava di essere nati insieme, dalle costole di uno stesso padre. Invece non eravate altro che cani che si annusano.

Con me è diverso, io non divento mai abitudine. Non cerco di coinvolgerlo con sbalzi emotivi o facendo sfoggio della mia intelligenza, lo spaventerei. Mi mostro come un nulla, eternamente disponibile e senza identità. Non prendo le redini della sua immaginazione se poi questa è destinata a sopirsi, non è ho né la facoltà né la vanità. Esisto solo in quanto sono un suo oggetto. Sono un buco da riempire, sono chiunque.

Non chiedo che pensi a darmi piacere, che si disturbi con le sue accortezze. Mai potrei accettare che faticasse per me e che, solo per un attimo, si curasse dei miei bisogni. Non sono protagonista, ma solo un accessorio che gli rende la vita leggera e quindi più accettabile.

Se per caso gli capita di chiamarmi per nome, il mio corpo è tutto un sussulto. Mi sento benedetta perché le sue labbra hanno pronunciato proprio quelle parole e obbligata a fargli un regalo con la mia bocca. Ci sono giorni in cui non riesco a frenare l’orgasmo. Mi pare di offenderlo, il vostro marito, mentre provo il culmine del piacere derubandolo del suo godimento.

Non nascondo di aver pensato qualche volta: “mi ama in verità”.

Ma è solo un pensiero puerile che sparisce non appena Lui mi dice: “Devo andare. Non chiamarmi per nulla al mondo, torno io”. Per un’ora, quella, mi è sembrata la mia vita e invece mi accorgo che è la vita di un altro. Sento bruciare il mio pianto sin dentro lo stomaco, da dove nasce, ma come posso davvero soffrire se nel profondo dell’anima sono schiava?

Sono vergine ogni volta che viene da me, perché quando va ho sempre la sensazione che non tornerà più e tutto ciò che per Lui si è aperto si richiude. È questo che mi tiene viva, che mi fa sudare nelle notti in cui sogno di essere violentata.

Vi scrivo questa lettera che mai riceverete, seppure io conosco i vostri nomi e cognomi, so dove comprate il pane e il latte e dove vanno i vostri figli a scuola. La conserverò dentro il cassetto in cui conservo il collare, le manette e gli altri orpelli e già sento che il ventre diventa leggero e le gambe pesanti come tufo. Quando Lui lo aprirà, per cercare la corda con cui legarmi, tremerò e sarò animata da una devozione estrema. Quando leggerà la lettera vedrò le sue pupille tingersi di collera e le dita serrarsi brutali intorno al manico della frusta. “Non picchiarmi” lo pregherò, baciandogli le dita dei piedi e assaporando i colpi sulle cosce che bruciano. Le mie tre aperture diventeranno il mio strumento e la mia prostrazione si legherà alla sua rabbia. Mi sentirò al sicuro, soprattutto se verrò trascinata a letto per i capelli, e il mio piacere crescerà con il suo disprezzo. Ditemi ora se tutto questo, il mio annientamento e il suo diletto, non racchiude una complicità che vi fa male. Lui è schiavo della mia schiavitù e lo avrò per sempre, mentre voi già non lo avete più.

* * *

GiurickovicAnna Giurickovic nasce a Catania nel 1989. Oltre a impegnarsi nello studio del diritto presso l’Università di Roma Tre, è una scrittrice appassionata. Lo dimostrano le sue numerose partecipazioni a corsi e laboratori di scrittura creativa, tra i quali quelli a cura di Rai Eri e della scuola Omero, nonché il laboratorio di drammaturgia e scrittura scenica presso il DASS dell’Università La Sapienza, la scuola di scrittura di Valeria Viganò e quella di Andrea Carraro. Nel giugno 2012 il suo racconto “Polimena, Polimena” si aggiudica il primo posto nella classifica del concorso Io Massenzio in seno al prestigioso Festival Internazionale delle Letterature di Roma, storica rassegna letteraria realizzata dall’Assessorato alle Politiche Culturali e del Centro Storico di Roma Capitale, con l’ideazione e la cura artistica della Casa delle Letterature e con l’organizzazione e produzione di Zètema Progetto Cultura. Nel gennaio 2012 il suo racconto “La bambina sul pendio” viene selezionato per essere inserito all’interno della raccolta di racconti Urban Noise, definendo la prima collaborazione con la casa editrice Gorilla Sapiens. Nel 2013 è finalista al Premio Chiara Giovani. Nel giugno 2013 pubblica Se mi distraggo perdo (Gorilla Sapiens edizioni), la sua prima raccolta di racconti.

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