Laura Novelli
In scena al Vascello

Tempesta di ormoni

"La tempesta" diretta (e interpretata) da Valerio Binasco è un omaggio (con qualche lungaggine di troppo) alla modernità di Shakespeare, alla sua capacità di mettere a confronto giovani e vecchi

Di cosa ci parla oggi un dramma romanzesco come La Tempesta di Shakespeare? Come può una storia di magia e di esotica ricerca dello stato di natura risultare nostra contemporanea? Attraverso quali canali la vicenda del diseredato Prospero e di sua figlia Miranda può affascinare e nutrire la coscienza moderna? Sembra prendere le mosse da questi interrogativi l’originale allestimento dell’opera proposto al teatro Vascello di Roma da Valerio Binasco quale seconda produzione, dopo il fortunato Romeo e Giulietta di qualche stagione fa, realizzata sotto il marchio Popular Shakespeare Kompany. Una risposta limpida e coraggiosa, quella del regista ligure (qui anche ottimo interprete nel ruolo principale), che rilegge la complessa trama originale (complessa anche perché, come è noto, pur mancando una fonte di ispirazione diretta, gli echi letterari, storici e filosofici qui rintracciabili vanno da Ovidio a Ben Jonson a Montaigne)  “semplicemente” come il ribaltamento di una coscienza, la presa d’atto di un perdono, la capacità (di Prospero ma dell’umanità tour court) di accettare e valorizzare i cambiamenti, di barcamenarsi fluttuando nell’incertezza e nella malinconia proprie di quei e questi tempi bui. Dunque, anche questa messinscena celebra in fondo un rito di morte e resurrezione simile a quello che Giorgio Strehler (complice la straordinaria traduzione di Agostino Lombardo) volle rappresentare al Piccolo nel ’78 e che, in modo assolutamente diverso, il grande regista Peter Brook esemplificò nelle sue memorabili quattro versioni del testo.

Scena vuota, avvolta in pannelli dipinti di un arancione autunnale caldo e mutevole. Costumi moderni non privi di simpatici guizzi pop. Musica incisiva (composta da Arturo Annecchino). Bastoncini, rami, cornici e barchette di legno ad evocare simboli di un mondo interiore che quasi per gioco trovano rispondenza all’esterno: nell’isola sperduta dove si svolgono i fatti e assurta a rifugio dell’ex duca di Milano bandito anni prima a seguito di una congiura ordita dal suo stesso fratello e dal Re di Napoli; tra le onde dove si genera la tempesta voluta da Prospero per far naufragare nel suo nuovo regno proprio i suoi usurpatori; nel recinto di quelle “arti” magiche di cui alla fine il vecchio antieroe si priverà volontariamente. Viene così ad affievolirsi la declinazione metateatrale dell’opera (secondo la quale l’isolamento del protagonista altro non sarebbe che metafora dell’emarginazione del poeta, del teatrante, degli spiriti creativi, un po’ come succede ne I Giganti della Montagna di Pirandello) a vantaggio di un sottotesto psicologico che trasforma l’isola/mondo/teatro nel palcoscenico della coscienza umana: un luogo emotivo dove far confluire fragilità e rovelli tutti interiori. Lo si capisce sin dalla bella scena iniziale, con Prospero in redingote nera e fare dimesso ma pensoso che immagina la schiera dei naufraghi nemici come un clan di malavitosi meridionali spauriti e increduli, e chiama a sé il buffo Ariel del bravo Fabrizio Contri, una sorta di anti-spirito ormai anziano con occhiali, maglietta di Superman, passo pigro e una pesantezza umana assai diversa, ad esempio, dalla leggerezza eterea della Giulia Lazzarini strehleriana, per assegnargli i piani finali della sua vendetta. Una vendetta che il duca spodestato deve compiere come uomo e come padre.

È infatti proprio nel rapporto con la giovane figlia Miranda, interpretata da una Deniz Ozdogan molto dinamica a livello fisico (tanto da sembrare un’adolescente smaniosa e inquieta di oggi, con tanto di lunghe trecce more, vestitino bianco e scarpe sportive) ma, di contro, capace di una mimica tesa su toni drammatici e accenti melò, che questo padre/mago si rivela maggiormente nostro contemporaneo. Sua figlia è stata la sua roccia. Sua figlia sarà giocoforza l’erede della sua benevolenza, del perdono accordato a chi gli fece torto. La sua crescita individuale passa dunque attraverso lo scarto generazionale, attraverso l’amore improvviso tra Miranda e il principe Ferdinando, attraverso la possibilità, insomma, di resistere al dolore, all’incertezza, alla fatica di vivere in nome di una speranza futura. Il cerchio si chiuderà ovviamente nell’epilogo, assemblando tutti i pezzi dispersi della storia e facendo ritorno in Italia con i venti propizi.

Nelle due ore e mezza di spettacolo che separano incipit e fine si avverte però qualche lentezza che sfilaccia il ritmo complessivo del lavoro: la parte centrale in cui i naufraghi cercano Ferdinando, gli intarsi dei personaggi bassi quali Francesco e Trinculo e i monologhi del selvaggio Caliban ci sono parsi infatti prolissi e ripetitivi. Ciò non compromette tuttavia la freschezza, l’originalità, la coerenza di uno spettacolo corale (nel cast figurano, tra gli altri, Fulvio Pepe, Giampiero Rappa, Sergio Romano, Gianmaria Martini), godibile, raffinato e soprattutto (evviva) adatto a tutti i pubblici.

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