Valentina Mezzacappa
Torna il capolavoro shakespeariano

La spia di Amleto

Il National Theatre, con la regia di Nicholas Hytner, ha trasformato la vicenda del principe di Danimarca in un caso di controspionaggio. Ma tutto si salva grazie alla prova di Rory Kinnear

Eh, sì, la passione per le produzioni del National Theatre di Londra è anche un po’ una malattia o forse sarebbe più adeguato definirla una dipendenza, ma di quelle che possono solo arrecare benefici. Dopotutto come si fa, se si ama il teatro nella sua interezza – volendo indicare con il termine interezza tutto ciò che contribuisce alla messa in scena – non sviluppare una dipendenza per un’istituzione che da decenni propone testi, regie, attori e quant’altro di altissimo livello? Non potevamo quindi non andare al cinema per vedere l’encore screening di Amleto.

La tragedia scritta dal Bardo tra il 1599 e il 1602 è in questo caso diretta da Nicholas Hytner, attualmente anche direttore del National Theatre, e vede nel ruolo principale il giovane Rory Kinnear affiancato da un cast d’eccezione composto da Patrick Malahide (Claudio), Clare Higgins (Gertrude) e David Calder (Polonio) per citarne solo i più importanti. La proiezione dura quattro ore: il testo viene messo in scena nella sua versione integrale. Precede l’inizio della tragedia più famosa del mondo un mini-documentario durante il quale essa viene contestualizzata storicamente e il regista insieme agli attori condivide con il pubblico la visione della produzione e dei personaggi.

Rory Kinnear hamlet2Ci dispiace davvero dirlo e lo diciamo subito perché preferiamo ricevere prima le cattive notizie per poi poterci gustare al meglio quelle buone, ma la lettura che qui viene fornita del testo non ci piace affatto. Il faux pas affonda le sue radici nella decisione di dare totale risalto alla contestualizzazione storica dell’opera, scritta come ci racconta il mini-documentario, in pieno regime elisabettiano. Allora ecco ricomparire sul palco il mondo di Elisabetta I con le sue spie e i suoi delatori e la soffocante presenza delle forze dell’ordine. Hytner mette in scena una Danimarca contemporanea e un palazzo del potere perennemente popolato dai servizi segreti, per intenderci quei signori inespressivi intenti a comunicare anche la minima informazione ai microfoni che tengono celati nei polsini dei loro completi grigi. Questa lettura della tragedia a lungo andare non solo risulta tristemente riduttiva ma finisce anche con il creare fraintendimenti e ambiguità. L’esempio più lampante riguarda Ofelia (Ruth Negga) e la sua orribile sorte. Impazzita in seguito alla morte del padre e alla soppressione di quell’onesto sentimento che la legava ad Amleto, viene tenuta sotto controllo dalla casa reale per motivi strategici e politici. Alla fine della sua ultima scena viene fatta sparire da due agenti attraverso un passaggio segreto. Considerato il percorso intrapreso da Hytner, uno non può fare a meno di chiedersi se non si sia presa la decisione di “farla sparire” per convenienza. Inizialmente una scelta simile può anche risultare interessante ma la descrizione che Gertrude offre della morte della ragazza, la reazione di Claudio inviperito perché era appena riuscire a calmare l’irato Laerte e le risposte fornite dal sacerdote durante il funerale mal si legano a quella scelta registica e il tutto finisce per diventare come un puzzle mal concepito i cui pezzi che dovrebbero incastrarsi fra loro con facilità necessitano di una forzatura.

È davvero un peccato dover assistere a un simile risultato, specialmente se si prende in considerazione come Hytner mette in scena il nuovo nucleo familiare dopo il matrimonio tra Gertrude e Claudio. Assistiamo durante questa scena a uno splendido Claudio che ignora palesemente il figliastro Amleto costringendolo a ritornare alla sua sedia e ad aspettare che il patrigno abbia prima concesso a Laerte il permesso di far ritorno in Francia e che abbia dato i dovuti ordini ai suoi ambasciatori. Ci sarebbe senz’altro piaciuto avvertire di più simili dinamiche. Questo vale soprattutto per il senso di tradimento emotivo che alimenta la ragionata follia di Amleto, il suo rapporto con il patrigno usurpatore e l’allontanamento della madre dal proprio figlio perché abbagliata dalla falsità del nuovo marito ma anche dalla fresca relazione che sta vivendo. Hytner vuole dare troppo risalto al volto politico dell’opera e finisce con penalizzarne la profonda umanità, perché che piaccia o pure no, Amleto affronta (e lo fa con sconcertante trascendenza temporale) elementi che sono di noi tutti. In conclusione Hytner non riesce a rendere organiche le quattro ore di rappresentazione, crea ambiguità fastidiose, in alcuni punti decide di tagliare delle battute per difendere l’ambientazione contemporanea ma poi non mantiene questa linea fino alla fine e addirittura sacrifica inutilmente lo splendore della lingua di Shakespeare per sottolineare alcuni concetti chiave con l’inserimento di vocaboli moderni. Anche in questo caso ci dispiace dirlo, ma la scenografia non è di grande aiuto. Vicki Mortimer crea una serie di pannelli componibili e scomponibili dal sapore neo-classico ed effettua delle scelte cromatiche infelici che sviliscono la messa in scena. Tutto sembra vecchio, riciclato ma senza alcuna motivazione registica. Di una cosa però siamo grati a Hytner, di avere evitato nella celebre scena ambientata nelle stanze della regina l’avvilente cliché dell’incesto latente, ambientando il dialogo tra Amleto e madre su due divani.

Rory Kinnear hamletMa veniamo ad Amleto, a Rory Kinnear. Sì, le cattive notizie sono finite. Trentacinque anni, 46 titoli all’attivo solo su Imdb, una carriera teatrale ricca di ruoli, candidature e premi importanti. La sua interpretazione offre momenti di profonda verità, cosa assai difficile quando si è costretti a recitare in pentametro giambico, ed è così mesmerizzante da far sì che questo giovin attore riesca a reggere sulle proprie spalle ben quattro ore di dramma. Kinnear ha ben poco dell’Amleto così come in questi anni ci hanno abituati a vederlo. Non ha la prestanza fisica o l’eleganza di molti attori che lo hanno preceduto, è un giovane come tanti altri, non si riempie la bocca con le parole che sta pronunciando incantato dal suono della propria voce né impugna il fioretto come l’eroe di un film di cappa e spada. Egli riesce a immergersi nel momento con impressionante naturalezza e il risultato è un arco del personaggio organico, reale, toccante. Lo insegue perennemente un’ombra di insidiosa fragilità, il suo Amleto cerca disperatamente di comunicare con la madre e la frustrazione che deriva dalla consapevolezza di parlare con una donna che non lo capisce più lascia attoniti. Capitava in passato, anche con celebri attori, di pensare «Ah, eccoci arrivati all’essere o non essere», questo con Kinnear non succede. Si riesce solo a provare una grande tristezza nel vedere un giovane, costretto dalle vicissitudini della vita, abbandonarsi a simili ragionamenti. Non c’è dubbio, Kinnear dà del filo da torcere a David Tennant, Amleto della Royal Shakespeare Company, che qualche anno fa aveva fatto impazzire la critica e supera di diverse lunghezze molti prima di lui, soprattutto chi aveva pensato di essere Amleto per diritto di nascita finendo sepolto e forse anche schiacciato dalla pomposità delle proprie convinzioni.

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