Angela Di Maso
Alla Sala Assoli di Napoli

Elogio della paura

Fa discutere l'allestimento di “Giorni felici” di Beckett firmato da Andrea Renzi con Nicoletta Braschi: un omaggio alla parola piena e rotonda, che riempie la scena e incarna la difficoltà del nostro comunicare...

Pareri discordi sulla messinscena che Andrea Renzi ha ideato per Giorni felici di Samuel Beckett; così come per la scelta della protagonista, Nicoletta Braschi, verso la quale pubblico e critica non sono sempre stati “benigni”. Con lei Renzi aveva già lavorato in Tradimenti di Harold Pinter, altro spettacolo contestato; ma la verità è che Nicoletta Braschi è l’attrice ideale per recitare ruoli “assurdi”. Infatti è stata deliziosa nell’interpretazione della beckettiana Winnie, incantando ed ipnotizzando con quel suo fare – naturale – da bambinetta svampita, il pubblico della Sala Assoli di Napoli.

Winnie e Willie (interpretato da Roberto De Francesco) dai nomi simili, assonanti e allitteranti, che giocano con i riferimenti ai verbi inglesi ‘will’ e ‘win’ (volontà e vincere) nella loro forma abbreviata, come i protagonisti di Finale di partita (1957), sono ingabbiati in una semi-immobilità della quale non si conosce la causa reale, ma che impedisce loro di deambulare. Winnie, a differenza di Willie, è sepolta dalla vita in giù, in un cumulo di sabbia, pietre e erbette rampicanti. Willie invece non ha apparentemente alcun impedimento fisico, ma non riesce a reggersi in piedi e trascina affannosamente il suo corpo, strisciando come un verme, nel vero senso del termine. Mortificante. Poche sono le cose che rendono la giornata degna di essere vissuta, come la borsetta che Winnie ha con sé e nella quale fruga ed estrae oggetti che le servono per avere cura di sé ma soprattutto ad impegnarsi in qualcosa che la tenga occupata fino a quando un campanello non le ricorderà che è sera, e quindi l’ora di dormire. Dalla borsetta, Winnie estrae anche una pistola. Quella non verrà mai riposta. Starà sempre lì, sul suo corpo di sabbia, in bella vista, per ricordarle che quando vorrà, potrà sempre farla finita con quella sua misera vita. Ma Winnie ha Willie; ed ha soprattutto i suoi ricordi, i sogni, i classici da citare e le mille cose e parole da dire che sole riescono a tenerla eretta. Quando Willie l’ascolterà e le risponderà anche solo con un monosillabo o le farà un gesto con la mano, quello sarà stato un giorno felice, perché non consegnato alla solitudine.

Quanta bellezza c’è in Beckett, e quanto conta potere lavorare avendo tra le mani una drammaturgia perfetta, in cui ogni parola cela e svela poesia. Quando si parla di Samuel Beckett si parla di teatro  dell’assurdo. Giorni felici ne è degno rappresentante poiché nulla di più assurdo sta nel vivere una vita miserevole e crudele, venire da essa umiliati e sopraffatti, ma restarne attaccati con tutte le forze che si hanno, perché cedere, significherebbe avergliela data vinta. Così, Winnie e Willie, contemplano la pistola. Sanno che c’è, che è una possibile possibilità, che può in un attimo mettere fine alle loro sofferenze, ma resistono, fino a quando possono, resistono grazie al potere della parola. La drammaturgia di Beckett è una partitura. Pause. Silenzi. Respiri. Agogica. Ritmo. Tutto è segnato con certosina attenzione. Andrea Renzi ha eseguito alla musica questa sinfonia di parole, caricando le stesse di infiniti sentimenti e colmando silenzi di commovente pathos. Non solo, ma ha evidenziato attraverso la dolcezza dei due protagonisti, mai adirati, come in questo dramma il sentimento si confessa per la prima volta non travolto dall’individualismo, dall’egoismo, dal narcisismo e  dai rapporti sociali sepolti sotto una marea di false parole. È una metafora alla bellezza della vita, e si sa, le metafore hanno mille chiavi di lettura.

La drammaturgia di Beckett offre così una lezione. Una lezione che oltrepassa i confini dell’arte drammatica per accamparsi nel territorio della vita: c’è una sublimazione della sofferenza a oltranza, che rafforza e  protegge i personaggi da esiti estremi. I protagonisti di Giorni felici controllano ogni emozione, trovando così il modo di soffrire il meno possibile. È come se Beckett avesse estremizzato il metodo di Pirandello. Non ci sono personaggi in cerca d’autore, ma attori in cerca di personaggi: ogni personaggio è prima di tutto un attore che vuole crearsi il personaggio che lo metta decisamente in una posizione di forza nei confronti degli altri e del mondo. In questa lotta crudele per l’occupazione del suo spazio nel mondo, la drammaturgia si trasforma in luogo simbolico della società contemporanea, caratterizzata dalla concorrenza e dalla lotta per la sopravvivenza. Quello che Beckett ci spiattella dinanzi è non tanto l’impossibilità di vivere e di comunicare, quanto la nostra paura della comunicazione stessa, e della vita.

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