Ilaria Palomba
Un libro di Fabio Forma

Romanzo da macello

"Carne da demolizione": per metà storia pasoliniana del lavoro in un mattatoio; per metà poesia del fallimento del protagonista. Un esperimento narrativo da seguire con attenzione

Leggendo Carne da demolizione di Fabio Forma (Gaffi Editore), per prima cosa ho sentito il bisogno di non mangiare carne almeno per alcuni giorni. Il libro narra in una terza persona, a tratti vicina al protagonista, a tratti onnisciente, la storia di Fabio che dopo i tranquilli studi universitari milanesi torna in Sardegna, a Macomer, per prendere parte al lavoro manuale nell’azienda del padre: un mattatoio. La sua sorte è già segnata, inizierà da operaio per piazzarsi quanto prima in ruoli dirigenziali. Conoscerà la routine e la brutalità del lavoro nell’atroce spettacolo della morte che scoprirà essere divenuto addirittura eccitante per chi da anni e anni svolge lì le stesse mansioni avendo a che fare con sgozzamenti, spellamenti, viscere, interiora e feci.

Di forte impatto è la descrizione degli odori, subito raccontati per quello che sono, poi i rapporti umani che, in questa fabbrica di morte seriale, non prevedono sconti per nessuno, neanche per il figlio del padrone. I personaggi, ben caratterizzati, con venature pasoliniane e l’uso del dialetto, hanno valore quasi documentaristico. Lo stile della voce narrante invece prende le distanze dalla stessa realtà che va a descrivere e si pone in tono a tratti aulico a tratti saggistico. Tre possibilità del narrare si incontrano: documentario, saggio e romanzo di formazione. La premura nell’uso delle parole, la particolare lentezza nella narrazione, miscelate alla crudezza con cui è minuziosamente descritto il processo di macellazione, ne fanno un libro non per tutti e in primo luogo non per stomaci deboli.

Carne da demolizione di Fabio FormaMi ha coinvolto la vicenda personale di Fabio raccontata, senza furbe strategie narrative, in quella che al lettore appare come la nuda verità. Nelle prime pagine ho faticato un po’ a entrare in contatto con una realtà così distante dalla mia ma l’immedesimazione è avvenuta nel momento in cui viene descritto il freddissimo e quasi solo professionale rapporto con il padre, il senso di responsabilità che giunge come un richiamo lontano, al quale inconsciamente il protagonista non fa altro che cercare di sottrarsi perché “Ogni privilegio richiede anche responsabilità: è l’equivalente della legge del contrappasso, ma in terra. Tanti non ci credono, che si può essere scontenti di essere nati in una situazione privilegiata – di essere come lui”. In oltre proseguendo nella lettura ci si rende conto di come i rapporti di potere all’interno dell’azienda siano davvero universali e universalmente estendibili a ogni rango della società. E da questi rapporti di forza dipende la vera sorte di Fabio: “Sarà un vincente se riuscirà, un fallito se non ce la farà… almeno agli occhi degli altri”.

L’entusiasmo che inizialmente Fabio si sforza di provare per il nuovo lavoro, nell’idea stessa che anche lui, apparentemente privilegiato dalla sua posizione e classe sociale, può fare lavori umili e sporcarsi le mani, svanisce poco per volta come l’ingenuità delle prime esperienze dopo i colpi subiti. Ci sono due capi nel mattatoio, il padre di Fabio e il severo Santino, che gli darà del filo da torcere. Il rapporto con Santino, cui è evidentemente poco simpatico, con i colleghi, che sempre guardano a lui come a un raccomandato, con il padre, che più che un padre appare qui come un impersonale datore di lavoro, condurranno il protagonista verso una presa di posizione che va contro le stesse leggi sociali non scritte e, di certo non scevra da conseguenze, la scelta per cui opta è il punto di sutura tra ciò che lui è e ciò che gli altri vorrebbero che fosse.

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