Silvio Perrella
Memorie di un viaggiatore interessato./1

Un sabato a Rio

Viaggio in Brasile, tra desideri, illusioni e contraddizioni. Cercando di tenere a bada la curiosità e l'oceano, in un mondo che sembra simile e vicino e invece è diverso e lontano.

Alla fine del 2007 feci un viaggio in Brasile. Al ritorno, già all’aereoporto, ne provavo nostalgia. I commentatori di questi giorni tumultuosi, dicono che è troppo facile innamorarsi del Brasile. Troppo facile, certo. Ma se avviene, avviene. Inoltre, anche le fiumane di persone viste in tv dimostrano ancora una volta che lì un popolo c’è ancora, perbacco. E se c’è un popolo, c’è anche voglia di futuro. C’è voracità di vita. Pensando all’oggi, mi sono tornati in mente gli appunti che presi durante quel viaggio. Elisabeth Bishop li chiamerebbe “interrogativi di viaggio”. Arrivando in Brasile, la grande poetessa americana si chiedeva: “E’ la mancanza d’immaginazione a spingerci/ nei luoghi immaginati anziché restare a casa?/ E se Pascal sbagliasse  sullo starsene/ seduti buoni buoni nella propria stranza?//”. “Continente, città, nazione, società:/ la scelta non è ampia e non è libera. E qui o là…/ No. Meglio allora  per noi restare a casa, / ovunque sia o sarà?//”

Rio 

1. Il mio viaggio in Brasile comincia a Parigi. Ho alcune ore da far trascorrere tra un aereo e l’altro, ne approfitto per andare a trovare Lorenzo Mattotti. L’appuntamento è alla Gare du Nord. Fa freddo, m’imbacucco con gli unici abiti invernali che ho portato con me, cerco di proteggere l’orecchio reduce da una brutta otite.

Lo studio di Lorenzo è accogliente, a far gli onori di casa c’è anche Rina, la moglie. Dappertutto opere, cartoni appena arrivati con dentro libri illustrati, cataloghi, la copertina dell’ultimo numero del “New Yorker” sulla quale campeggia un bel disegno subito riconoscibile come suo, e un libro dedicato al carnevale di Rio. Lorenzo mi mostra gli ultimi suoi lavori, ammetto di provare invidia per una forza creativa così inarrestabile, sempre pronta a ripartire da punti diversi ma sempre capace di riportare il diverso a segno unitario: colori, bianco e nero, paesaggi, figure, movimenti. “Una volta lì riempiti gli occhi” dice Lorenzo.  E nel frattempo m’indica uno scorcio che potrebbe essere il Brasile, almeno come lo ha visto lui e come se l’è portato con sé in questo studio tutto finestre, emblema di occhi aperti e fervore immaginativo.

Dormire in aereo non è facile. ma bisogna provarci, chiudere gli occhi, indossare la mascherina per proteggersi dalle luci, trovare la posizione giusta. Sul piccolo video compare la rotta del viaggio. Stiamo superando l’Andalusia, s’intravvede la costa africana. Andremo oltre, certo. Di là c’è il nuovo mondo e io ci metterò presto i piedi, più di cinque secoli dopo la sua scoperta. Sono in ritardo, lo so. Ma per queste cose, non si sa mai quando scattano i tempi giusti, quando l’impossibile si fa praticabile.

Il sonno non arriva, sarà un piccolo stordimento, l’eccitazione della mente, la curiosità con tutte le antenne deste. Leggiucchio le pagine iniziali del Viaggio sentimentale di Sterne, tradotto da Giancarlo Mazzacurati.

Sembra che ci siamo, bisogna mettere l’orologio tre ore indietro. C’è una grande fila per il controllo dei passaporti. È una fila lenta: ci dividono tra brasiliani e non. Bisogna riempire un modulo, da portare con sé durante la permanenza e restituire al ritorno. C’è qualcosa di militaresco, come un ricordo ancora non sbiadito, sia nelle uniformi e un po’ nei modi. Il ricordo della dittatura militare finita alla metà degli anni Ottanta?

Sono a Rio, prima delle otto del mattino. Il taxi s’incolonna nel traffico, noto molti campi di calcio e ragazzi che giocano.  Rio, non ci credo, sono a Rio! Non m’importa del traffico, voglio guardare tutto. Poi all’improvviso arriva un pezzo di città, c’è un lago in fondo, il tassista gira a destra e poco dopo ecco il mio albergo.

Devo dormire, è giusto che dorma. Non guardare fuori, non fermare l’attenzione su quella collina che la finestra incornicia, non farti impressionare dal numero di condizionatori d’aria che girano là fuori, fai finta di non sentirne i rumori. Dormi, recupera. Poi ci sarà il Brasile. Poi.

E il poi arriva presto. Sono a Ipanema, dunque la spiaggia non deve essere lontana. Intuisco la direzione. È vicina, sì, sono già in tenuta estiva: pantaloncini, sandali, una maglietta, riposti dopo la nostra ultima estate e di nuovo in uso per questa nuova estate.

Il mare è lì: oceano, ragazzo, oceano, maestoso, le isole vicine galleggiano sulla linea dell’orizzonte. Ma prima del mare gli occhi colgono la spiaggia, e le orecchie sentono i suoni delle onde che vengono alte verso la riva. La spiaggia è un magnete. Leva i sandali, poggiaci i piedi su quella sabbia meravigliosa, senti il calore sulla pelle. Sei arrivato ti dici: sono in Brasile.

Non so nulla di nulla, quello che posso fare è tornare in albergo, aspettare chi mi guiderà. Ma il primo contatto me lo sono procacciato da solo. È così che volevo. Compro subito degli infradito, li vendono ovunque, anche nelle edicole, e comincio a percepire il movimento delle strade, il modo in cui ci si cammina sopra, l’andare fluido e quasi danzante dei piedi, la temperatura accogliente. Aspetto che il semaforo diventi verde, e guardo i piedi di chi attraversa che vanno flessuosi nei loro infradito colorati.

Orientarsi, certo. In una città nuova bisogna sapersi orientare, trovare i primi punti di riferimento, a cui aggrapparsi quando la piccola porzione di strada che conosci assume una forma nuova.

Carlos Sobral è un italianista, insegna all’università, tutti lo chiamano Carletto per via dell’altezza. Dimostra molti meno anni dell’età che ha, anche se lui civetta con la sua memoria e dice che ormai non ricorda più nulla. Sarà lui la mia guida a Rio. Sarà lui a puntare il dito e a dire: guarda quello è il Corcovado, vedi il Cristo Redentor? Guarda quello è il Pan di Zucchero, ti ci porto domani. Qui, vedi, c’era una collina: l’hanno levata per fare il ponte su cui siamo. Io guardo, alzo e abbasso il finestrino fumé scuro per evitare di riprendermi l’otite. Eh sì, a Rio le automobili le vendono soprattutto con i finestrini oscurati. Sono una difesa: se non mi vedi, non ti verrà voglia di aggredirmi. A Carletto l’hanno addirittura sequestrato per qualche ora, nelle vicinanze di una favela. Rio è violenta? Sì, lo dice a chiare lettere anche la mia guida. Mi viene in mente che il tassista aveva, senza volerlo, tagliato la strada a un altro automobilista, e lui l’aveva raggiunto poco dopo dal lato opposto a quello del guidatore, si era accostato e gli aveva chiuso lo specchietto retrovisore laterale. Il tassista non aveva detto nulla, solo un po’ più avanti aveva tirato giù il finestrino, e sporgendosi con tutto il corpo, aveva riaperto lo specchietto.

Rio è violenta, ma lo straniero se lo dimentica perché non ne ha ancora fatta esperienza. E d’altronde Carletto non enfatizza il racconto della violenza subita.

2. Sono ore che cammino sulle spiaggie di Rio: prima ho percorso tutta Ipanema e adesso sono giunto a Copacabana. Non vien voglia di fare il bagno, piuttosto di osservare e godere del mondo circostante. C’è da guardare ovunque: lontano (le isole vicine), in alto (gli alianti), vicino (una giovane bellissima donna che scandisce il passo con sensualità), di lato (i giocatori di una pallavolo giocata senza usare mai le mani), vicino alla strada (i tanti chioschetti che vendono il cocco).

Comincio a farmi un’idea di come sia fatta questa città, intuisco che si tratta di più città tenute insieme dal mare e dalla foresta. Sì, perché a Rio la mata atlantica non si ferma dinanzi a nulla. Basta addentrarsi per le strade interne di Copacabana, ad esempio, ed ecco che la città all’improvviso s’interrompe  e la natura prevale, lussureggiante e verdissima.

Ho bevuto l’acqua di cocco: il venditore, con movimenti netti e precisi, ha tagliato la parte superione, praticando un’apertura, e dato una forma piatta a quella inferiore, in modo tale che il cocco possa essere comodamente appoggiato sul tavolino rosso. Succhio l’acqua usando una cannuccia: ha un sapore difficile da definire, ma di sicuro è dissetante. Bere l’acqua di cocco dinanzi al mare di Rio è il primo segno di ambientamento. Costa solo un reais e presto ne avrai di nuovo voglia.

Ho già scoperto anche il Guaranà, la bevanda gassata che qui fa concorrenza alla Coca Cola. E’ ottima, e bevendola vien da pensare che il Brasile, se solo lo volesse, potrebbe essere un’alternativa all’America del Nord. Ha una tale forza e una sua originalità che sarebbe facile esportare alcune sue caratteristiche.

Carletto mi riporta, a tal proposito, quello che si usa dire del Brasile: è il paese del futuro, ma il futuro non arriva mai. Eppure, qualcosa sta cambiando. Non solo perché si tratta di un paese che cresce economicamente di anno in anno, ma anche perché ha finalmente conquistato una stabilità monetaria, dopo burrasche continue, svalutazioni terribili e bancarotte inarrestabili.

Quel che colpisce subito chi arriva in Brasile è la presenza di un popolo. Certo, le contraddizioni  sono enormi, le favelas sono a volte fianco a fianco alle case dei ricchi, ma si capisce che un legame sociale esiste, s’intuisce che questo popolo aspira davvero a un futuro, che arrivi o meno.

Siamo sul Pan di Zucchero. Ci ha portati su una funivia ardita e vertiginosa. Si arriva qui facendo prima tappa sulla collina di Urca e poi si approda a quest’altura da cui si domina la vastità del tessuto urbano, si riconoscono le spiaggie, si vede laggiù in fondo la città di Niteroi, connessa a Rio da un lungo ponte che ricorda il percorso che da Mestre  porta a Venezia.

Carletto m’invita a pensare cosa debbano avere provato i primi scopritori della città. Qui, aggiunge, venivano a svernare le balene. Se fossimo nel mediterrano, direi che si tratta di un paesaggio omerico. Ma quello che sta laggiù è l’Oceano, e davvero le isole sparse qui e là sembrano balene, basta solo aggiungervi con l’immaginazione gli alti zampilli lanciati nell’aria. Verrebbe voglia di non scendere più. Le città che possono essere osservate dall’alto, suscitano sentimenti di appartenenza più rapidi, forse perché è possibile possederle con le sguardo e farsi un’idea ariosa e sintetica di che forma abbiano.

Cominciano ad accendersi le luci, il tramonto oggi siamo costretti ad immaginarlo, le nuvole lo tengono tutto per sé. Però il lavorìo solenne e cocciuto del sole di oggi me lo sento già sul viso e sulle spalle.

Torniamo giù. Ci aspettano altre zone della città da visitare, e soprattutto abbiamo un appuntamento un po’ particolare. Stasera, nella favela di Laranjeiras, ci sarà un concerto di Stefano Bollani. L’ha organizzato il dinamico direttore dell’Istituto di cultura italiana Rubens Piovano, insieme a Umbria Jazz e all’Università per stranieri di Perugia.

Carletto recalcitra, di andare in una favela farebbe volentieri a meno, però è gentile; il suo italiano, che sembra avere la candenza del genovese, non prevede un no netto. Andiamo, non andiamo? Nel frattempo si va in giro. È sabato, la città trabocca di musica, non c’è locale che non abbia il suo musicista in azione. Per strada assistiamo a una danza che blocca il traffico. Dappertutto odore di carne alla brace.

D’improvviso la città cambia aspetto. Siamo in una zona di mare quasi lacustre. Sulla spiaggia c’è una croce fatta di lumini: una ventina di persone vestite di bianco stanno celebrando un rito. Carlo mi spiega che adesso entreranno in acqua, e pian piano qualcuno di loro sarà posseduto da qualche divinità. Sul bordo della spiaggia ci sono altre persone che aspettano il compiersi del rito, sono loro che hanno chiesto l’intermediazione  con le divinità. Ognuno ha qualche problema da risolvere, e spera di risolverlo così.

In Brasile c’è una religione sincretista: il cristianesimo è penetrato nelle abitudini, ma sposandosi con altre religioni. Ho notato, sfogliando i giornali, che le classifiche dei libri più venduti sono divise in tre sezioni: romanzi, saggi e libri di esoterismo vario.

Non so perché, ma collego quest’attitudine a sconfinare dai sentieri retti della ragione, con l’interesse che i brasiliani hanno per la bellezza.  “Bellezza”, è una delle loro esclamazioni più consuete. E quando lo dicono è sempre uno spettacolo della lingua. Colpisce, inoltre, quanti negozi siano dedicati ai cosmetici, e soprattutto a quel che riguarda i capelli. Interi supermercati sfoggiano infinite marche di sciampi, di balsami, di creme e così via. Che il vero simbolo sessuale del Brasile siano i capelli? Capelli lisci, naturalmente.

Ed eccoci giunti alla favela. La salita per giungerci è stata ripidissima. Ma eccoci qui. Bollani è in grande forma, la gente balla, ma Carletto obietta che il pubblico non è composto da veri favellati, siamo noi che spingiamo la nostra curiosità sin dove è possibile. Ma l’impossibile è dientro quelle scale ripide, dietro quei mattoni rosssi, dientro quelle facciate senza intonaco. Dove può succedere di tutto, e dove la droga la fa da padrone. Ma dove, se arriverà mai, farà sosta il futuro.

(1. continua)

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