Silvio Perrella
Memorie di un viaggiatore interessato./2

Napoli a Bahia

Davvero le città di mare si assomigliano tutte? O sono le metropoli che uniscono vitalità e disperazione a mostrare mille tratti in comune? Il Brasile ci dà qualche risposta. Ma non bisogna generalizzare. Ecco perché...

Bahia

1. Si può fare un viaggio in Brasile, senza andare a Salvador da Bahia, soprattutto se nella vita quotidiana si vive a Napoli? No, che non si può. E infatti, eccomi all’aereoporto di Rio, in attesa dell’aereo per Bahia. È difficile, qui in Brasile, dimenticarsi di essere in prossimità del Natale. Un po’ ovunque ci sono luminarie e segni di festosità natalizia. Mentre aspetto, passa un piccolo gruppo, composto da un chitarrista e due ragazze,  e anche loro s’impegnano con simpatia a cantare e a suonare melodie che riguardano il Natale. Ascolto anche gli annunci degli aerei, li scandisce una voce che mi aveva già colpito all’arrivo: ha un eloquio lento, sensuale, chiarissimo, sia in portoghese sia in inglese. So adesso che si tratta della voce di un’attrice, la cui voce i brasiliani amano molto, e anche se lei è scomparsa qualche mese fa, dopo una lunga carriera, usano ancora la sua voce registrata. È un piccolo segnale di cosa possa riservare questo paese nel campo dei sentimenti e delle passioni.

A Bahia arrivo con il buio. Ma la spiaggia che osservo dal balconcino del mio albergo illuminata a giorno. Sono a Porto da Barra. Mi riceve Mauro Porru, il presidente degli italianisti brasiliani. Mi dice di non fidarsi di avventurarsi a piedi, ma un giro in macchina, sì, certo, possiamo farlo.

Lui l’indomani parte per San Paolo, e molto gentilmente mi dà l’opportunità di un primo orientamento. L’autovettura  corre lungo la costa, vedo le onde schiumeggiare sulla riva, a una spiaggia ne segue un’altra. Là, vedi, mi dice il professor Porru (ma dopo esserci stretti la mano, ci davamo già del tu), abita Caetano Veloso.

Devo bilanciare le emozioni con la necessità di capire dove sono, da domani sarò solo, ho deciso di non chiedere altri aiuti, di Bahia voglio provare a farmi un’idea fidando sulle mie sole forze. Torniamo indietro: dalla parte opposta al mio albergo c’è il centro storico. Mauro si rammarica perché gran parte delle strade sono chiuse. Stanno preparando la festa di Santa Barbara, vedo molte persone camminare per strada, i marciapiedi non bastano o non sono molto considerati.

So bene di trovarmi nel luogo più africano di tutto il sud-america. Il fatto è che si sente subito, forse la festa imminente rende più rapidi i tempi percettivi. Quando Mauro si accomiata, mi son fatto una mappa mentale per i prossimi giorni. Mi addormento al suono e al ritmo della  risacca marina.

No, non la puoi paragonare Bahia a Rio, non ha senso. Se a Rio vengono in mente pensieri sulla possibile alternativa all’America del Nord, qui è evidente che si tratta di un luogo a sé, e in questo in effetti può far pensare a Napoli. Un luogo che è insieme passato e forse futuro, ma che del presente se ne frega. I carioca di Rio prendono in giro i bahiani, dicendo che sono degli sfaticati, sempre pronti a compiere gesti eccessivi e fuori dalle regole. In realtà, a me sembra che lavorino incessantemente, ma il lavoro di ognuno non si somma a quello dell’altro, resta lavoro singolo. Sulla spiaggia ti offrono di tutto, è un continuo viavai.  Riescono anche ad arrostire la carne, portando con sé dei fornelletti a carbonella. Sento tutt’attorno alla mia sediolina sprofondata nella sabbia un’energia incontenibile. E quanta birra (qui, come a Rio) bevono! Le bottiglie vengono messe in contenitori di plastica, se ne riesce a vedere solo il collo. È un modo per mantenerle fredde. E via una e via due, all’infinito.

Oggi ho preso uno degli innumerevoli autobus brasiliani (è impossibile capire bene dove vadano, perché sembrano andare ovunque) e ho provato a ripercorrere la costa, come mi aveva indicato Mauro, in direzione di Itapua. Ecco di nuovo, viste attraverso il finestrino dell’autobus, le spiagge oceaniche.

Ho pagato i mie due reais (ogni euro vale quasi tre reais) al bigliettaio (qui ci sono ancora, come da noi fino a qualche decennio fa), ho fatto girare la girandola di ferro che sancisce la tua regolarità come passeggero, e mi sono seduto. E’ uno degli ultimi giorni di scuola. I ragazzi salgono in gruppo e ognuno scende alla propria fermata.

Adesso l’autobus ha lasciato la costa (non me l’aspettavo), e s’inoltra per salite ripidissime in quartieri fatti di poche strade, a volte ci sono grattacieli, altre catapecchie. Sembra che il suo giro non debba mai finire, il mare prima lo riesco a vedere da lontano, poi sparisce del tutto.

Al capolinea, bigliettaio e conducente m’invitano a scendere. Ero forse l’unico di pelle bianca, e dunque non passavo certo inosservato: uno strano turista, mi sembra di capire che si dicano tra loro, indicandomi un autobus che mi riporterà sulla spiaggia di Porto da Barra.

Adesso sì che posso farmi un bagno, me lo sono conquistato. È il primo bagno nell’Oceano. L’acqua è leggera, non certo trasparente come quella del Mediterraneo, passa un nuotatore professionale, nuota parallelo alla spiaggia, bracciata dopo bracciata. L’osservo che va in direzione di un faro che chiude l’insenatura.

Quando torno in camera è quasi l’ora del tramonto. C’è una luce calda e smemorante. È come se il mondo intero si preparasse a tramontare, ma ben consapevole che poi non verrà il freddo, no, il freddo no. Mi appresto dunque a godermi il tramonto dal mio terrazzino. Rientro in camera solo per qualche minuto, e quando torno del sole vedo solo l’ultimissima mezzaluna che entra nel mare. Parte un applauso, festoso e rituale allo stesso tempo. Qui si applaude ai tramonti. È giusto farlo, penso. Però il sole dovrebbe essere meno rapido nel tramontare, accidenti.

L’ho detto: è Santa Barbara. Chissà forse riuscirò ad assistere ai riti africani del candmoble. Il Pelourinho, la parte alta della città, è letteralmente  invasa da musiche, da corpi danzanti, da cibi cotti per le strade. È un apoteosi. Sull’Escaradia do Paco, una ripida scalinata che porta a una chiesa, si fa fatica a passare. Anche lì, alla base delle scale, hanno sistemato un piccolo palco, i musicisti fanno la staffetta, si scambiano gli strumenti, è impossibile stare fermi, proprio impossibile.

Penso a Napoli, penso che come con la città dove vivo, devo stare attento a capire cosa c’è sotto alla superficie. Sono guardingo, sono andato su e giù usando la vertiginosa funicolare (il Plano Inclinado Goncalves), l’altissimo ascensore (l’Elevador Lacerda), sbirciando dentro chiese grandi come palazzi, illuminate  a giorno nella notte della citta bassa. Ma una parola di più non la dico. Bahia è più misteriosa di Rio. Bahia sfugge, anche se ti si offre dinanzi agli occhi in una notte che sarà difficile da dimenticare.

Minas Gerais

2. Quando arrivo a Belo Horizonte c’è uno splendido arcobaleno. Il clima è ben diverso da Rio e Bahia. Qui piove, e non dico che faccia freddo, ma quasi. Belo Horizonte è nata per sostituire Ouro Preto come capitale del Minas Gerais. Siamo nell’area mineraria, la terra è così ricca di metalli da essere rossa. Passano camion  enormi, immagino che trasportino i metalli estratti dal sottosuolo.

Di Belo Horizonte è difficile capire come sia fatta. Si va per chilometri lungo il grande lago artificiale che dà respiro al quartiere di Pampulha, dove sorge una chiesa progettata da Oscar Niemeyer; poi arrivano salite così ripide da mettere a dura prova i motori delle automobili, e case case case. Ma la città vera e propria dov’è? Tommaso Raso, un linguista italiano che ha deciso di trasferirsi qui, mi spiega che la zona pianificata è solo una piccolissima parte di quello che è oggi la città.

Non è un luogo dove si cammini con facilità, per spostarsi la macchina è spesso necessaria. Il solo campus universitario, dove insegna Tommaso e dove incontro Wander Melo Miranda, colui il quale dirige tra le altre cose una raffinatissima university press, è già una città nella città.  E nuovi insediamenti si fanno largo nel tessuto urbano: un quartiere di scintillanti grattacieli,  ad  esempio, dove i ceti alti amano comprare le loro abitazioni.

Ci passiamo andando verso Tangarà, che si raggiunge in meno di un’ora di macchina. È il nome di un uccello, l’hanno scelto i condomini di un parco d’eccezione. Una tenuta attraversata da un fiume, che forma ben undici cascate. Dentro hanno potuto costruire solo poche abitazioni, rispettando alcuni criteri; case che si perdono nella vastità naturale del cerrado, uno dei tipi principali di vegetazione di queste zone.

Essere ospitato nella casa di Giselle e Tarcisio è per me come trovare un’oasi nella quale rigenerarsi. Niente paure di furti e aggressioni, niente casseforti nei quali depositare passaporti e valute. Certo, bisogna stare attenti agli scorpioni e ai ragni. Quando hai finito di fare la doccia, è necessario chiudere lo scarico dell’acqua, onde evitare che gli scorpioni s’intrufolino. Però che silenzio, che respiro potente della natura, e che beatitudine conquistare un posto sotto lo scrosciare d’acqua della cascata, stando ben fermo sotto il suo oceano di gocce.

Tarcisio fa l’economista e Giselle la biologa, sono ottimi interlocutori per capire qualcosa in più del Brasile. Ascoltiamo un cd di Ana Carolina, una cantante di talento, mentre Giselle parla dei problemi naturalistici dell’Amazzonia e Tarcisio afferma che il Brasile è un paese razzista, ma è costretto alla convivenza dalla sua mescolanza razziale. Vivono entrambi a Belo Horizonte, e anche parlando con loro e osservandoli, si capisce che nella loro città si lavora sodo. In un’ipotetica comparazione con le nostre città, se Rio è l’equivalente di Roma, San Paolo di Milano, Bahia di Napoli, Belo Horizonte potrebbe far pensare a Torino. C’è anche la Fiat brasiliana, che con la Fondazione Torino diffonde la nostra lingua.

Siamo al Mercado Central di Belo Horizonte. Mi accompagna Bernando, un giovane brasiliano che studia italiano all’Università. Siamo andati in giro in cerca di una buona bottiglia di cachaca, il liquore ricavato dalla canna da zucchero, elemento fondamentale per fare il cocktail che prende il nome di caipirinha. Al mercato vendono di tutto, anche gli animali vivi. Di continuo chiedo a Bernardo come si chiami quel determinato frutto, e lui si aiuta con un dizionario. C’è una quantità di frutta non usuale da noi, che è difficile orientarsi.

Ci fermiamo a bere un sucos, un frullato. Quale scegliere? Ce ne sono di così tanti tipi! Mentre ce ne stiamo appollaiati  su sedie alte, in attesa dei nostri sucos, chiedo a Bernardo qual è il suo sentimento del Brasile.

Lui mi guarda attraverso gli occhiali e dopo un po’ dice che il Brasile deve lavorare per acquisire alcune cose che non possiede. Mi sembra che parli di attitudini sociali e politiche. La sua è una rispota seria, lo capisco dal tono della voce, dallo sguardo. Bernardo vorrebbe diventare un traduttore, gli piace Pirandello. È stato a Napoli, e ne è tornato con un cd di Consiglia Licciardi, scoperta per caso.

I nostri succhi sono scesi di livello, tutt’attorno c’è il mercato che pulsa, la gente che passa, le mercanzie esposte con cura (è un luogo coperto, con al primo piano un grande parcheggio per le automobili) ed ecco che Bernardo mi rivolge la stessa domanda: “Cosa significa essere italiano oggi per te?”.

Adesso sono io a guardarlo, non mi aspettavo che mi facesse una tale domanda,  e mi accorgo che non so bene cosa dire. Balbetto qualcosa, e nel frattempo penso che i brasiliani danno l’idea di essere un popolo: pieno di stridenti contraddizioni, certo, ma protesi verso qualcosa che può tenerli insieme. Noi italiani, no, non mi sembra che ci si possa più definire un popolo. Sarà la nostra attuale depressione sociale, sarà che non vogliamo nemmeno immaginare il futuro, perché abbiamo paura che sia troppo nero… Il malumore, lo smarrimento acuiscono le nostre difficoltà.

Ma cosa posso dire a questo ragazzo innamorato della nostra cultura? Siamo già fuori, in cerca dell’autobus che ci ricondurrà al campus. Anche Bernardo fatica a trovare il posto giusto in cui passa l’autobus, ma infine ce la facciamo.

Mi consolo pensando che Belo Horizonte è contornata di luoghi che vale la pena di conoscere. E se da una parte, l’oasi naturale di Tangarà non è lontana, dall’altra ci sono l’Estrada Real e le cosiddette città coloniali: Sabarà, Diamantina, Ouro Prèto… Sono i luoghi del barocco brasiliano, segnato dalla presenza di Aleijadinho, un artista che ha lasciato tracce del suo genio nelle facciate delle chiese, negli altari e un po’ dovunque.

Se si conquista una delle colline di Ouro Prèto, si possono ammirare le tante chiese, i saliscendi rapinosi, la natura circostante, e mi viene in mente la siciliana Val di Noto: Noto, Modica, Ragusa Ibla. Ouro Prèto è una sosta, uno sguardo al passato, il tempo di gustare la comida miniera. Già sento il rombo dell’aereo che mi porterà a San Paolo.

San Paolo

3. A molti San Paolo non piace. Dicono che non è bella, e in in effetti non è bella. Però con i suoi quasi trenta milioni di abitanti è una delle più grandi città del mondo. L’aereo atterra quasi in città, si può quasi vedere all’interno dei grattacieli.

A me dà subito l’impressione della potenza.Basta una prima passeggiata per l’Avenida Paulista. Ma bisogna arrivarci, però. Valicare il traffico che arroventa le strade a sette corsie, aver la pazienza di aspettare che il conducente dell’autobus ti faccia il segno stabilito per scendere. Qui la gente negli autobus è abituata a dormire, è un modo per far passare il tempo.

Ma l’Avenida Paulista è solo la prima vetrina da guardare, poi arriva la scoperta delle città che contiene questa megalopoli. Le città degli italiani, quella dei giapponesi e via di seguito.

Qui non c’è bisogno di prendere aerei per raggiungere mondi lontani, basta il metrò, basta scendere a Liberdade ed essere in pieno Giappone. Cambia anche il colore dei lampioni, rosso naturalmente. E quando attraversi i ponti, vedi scorrere laggiù fiumi di macchine, e ti viene da immaginarti cosa facciano i conducenti e i passeggeri in attesa che il traffico gli consenta di raggiungere i loro luoghi. Dormono, forse, come fanno sugli autobus. La città della modernità brasiliana contiene molti sonni inquieti, è qui che ti capita di vedere con maggiore frequenza persone che dormono per strada. Forse la fatica dell’esistenza li ha sfiniti all’improvviso.

Senza quasi saperlo attraverso l’incrocio amato da Caetano Veloso. Lo canta in Sampa. È tra Avenida San Joao e Avenida Ipiranga. Me lo ricorda Mauricio Santana Dias, quando ci sediamo ai tavolini di un caffè per parlare di musica letteratura e cinema. Mauricio ha coronato il sogno di Beranrdo; oltre ad insegnare all’Università, fa il traduttore di libri italiani. Tutti gli amici conosciuti lungo il mio viaggio brasiliano sono in questi giorni a San Paolo. C’è il congresso degli italianisti e dei professori d’italiano del Brasile: Mauro Porru, che lo ha organizzato, Carlos Sobral (Carletto), Andrea Lombardi, Tommaso Raso e i suoi studenti (anche Heloisa, che, accompagnandomi a Sabarà, mi ha parlato delle jabuticabas, i frutti scuri fuori e bianchi dentro), Mauricio e tanti altri sono qui a parlare della cultura italiana, a studiarla, osservandola dalle loro vaste lontananze (E peccato che non ci siano anche Livia e Valentina, incontrate a Santa Teresa, a Rio, e già tornate a Napoli). Rendono tutti omaggio a Gina Galeffi, la fondatrice dell’italianistica in Brasile, e la figlia Eugenia ne traccia un ricordo semplice e commosso.

Orientarsi a San Paolo è una disciplina ardua. Riuscire a muoversi da soli, trovare i luoghi che si cercano, tornare in albergo senza dover ricorrere all’aiuto del primo taxi di passaggio, dà una certa soddisfazione. Sono nella LivrariaUnesp di Praca da Sé, la piazza in cui sorge l’immensa cattedrale.  Guardo attraverso le vetrine. Quante persone! Quante diresioni! Quante storie! E’ sempre un piacere poter guardare attraverso una cornice. Lo sguardo fa meno fatica a trovare il modo più appagante di usare gli occhi.

A due passi dalla libreria  c’è un panificio. A guardare il pane esposto si capisce subito che deve avere a che fare con l’Italia, direi con più precisione: con la Sicilia. Sì, a San Paolo capita a volte di pensare a Palermo.

Oggi piove: prima è acqua leggerissima che cade dal cielo, poi gli scrosci si fanno più intensi. Ma la città va come se niente fosse. I mercati sono zeppi di merci, un ragazzo vende lucchetti, li ha disposti su un telo appoggiato per terra. Tra i negozi enormi e i venditori avventizi c’è qualcosa in comune, entrambi sfidano e accolgono i flussi che attraversano le strade. Ma gli avventizi sono costretti alla fuga, non appena arriva la polizia. Le scene sono simili a quelle alle quali siamo abituati anche da noi. Ma il numero di persone in movimento deve essere moliplicato almeno per venti. E’ impressionante vedere scendere le persone per una strada ripidissima. E’ impossibile contarle, è impossibile fermarle: sono una forza naturale, e ognuno fa qualcosa nello stesso tempo. C’è chi scappa, chi protegge chi scappa; chi insegue; chi vende; chi cucina; chi acquista; chi passeggia. Tutti sono intrecciati ai fili della vita, e insieme compongono un arazzo mutevole e indescrivibile.

A San Paolo non c’è il mare, non c’è la foresta, come a Rio: ci sono gli esseri umani. Sono loro la natura: quella natura paradossale e storica che nasce solo nelle città. E che nelle grandi città diventa qualcosa di simile alle foreste dell’Amazzonia.

La mia camera è al diciasettesimo piano dell’albergo.Continua a piovere: laggiù ci sono le macchine, le persone rimpicciolite dalla distanza con i loro ombrelli, le striscie pedonali, gli altri grattacieli, la nebbiolina di smog all’orizzonte. Tutto si muove e tu sei dietro ai vetri, da solo, lontanissimo da casa, immerso in un attimo silenzioso, e ti viene da piangere, non sai perché.

Sulla costa sud di San Paolo ci sono molte belle spiaggie. Alcune sono meno conosciute, ci si cammina quasi da soli, fino a che non s’incontra il fiume che si tuffa nel mare. Le acque si mescolano, gli uccelli si alzano in volo, e sono così tanti che anneriscono il cielo.

Il mio viaggio in Brasile sta per finire. Osservo il movimento delle onde. E’ molto diverso da quello cui siamo abituati. Sono tante, le une dietro alle altre, sono lente, e più si avvicinano alla riva più sembrano rallentare. Hai l’impressione che si fermino quasi; anzi, scommetteresti che alcune non raggiungano la battigia. Qui sì che il signor Palomar di Italo Calvino potrebbe contare la sua utopica singola onda, sola, visibile, ben staccata dall’onda precedente e da quella successiva.

Il profumo dei fiori è stordente, gli alberi e le piante sono stillanti di acqua: siamo in piena mata atlantica, sembra che tutto si rigeneri velocemente.

La moglie di Mauricio, Silvana, ordina un bel granchio, cucinato con il pomodoro. Siamo sulla spiaggia, ci ripara un piccolo ombrellone. È una delizia. Lo assaporo ed è già un ricordo. Come è un ricordo lo spolverìo luccicante della sabbia volata sull’asfalto della grande strada che corre parallela al mare di Ipanema, a Rio. L’ho visto con la coda dell’occhio mentre attraversavo, le spalle al mare. Ed è subito rimasto impresso come un simbolo. Il simbolo di un miraggio complesso che davvero esiste dall’altra parte del mondo.

(2. Fine)

Clicca qui per leggere la prima parte.

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