Anna Camaiti Hostert
Omaggio al padre dei "Soliti ignoti"

Maestro Monicelli

Cinque amici-registi, Mario Canale, Felice Farina, Mario Gianni, Wilma Labate e Annarosa Morri, hanno girato un documentario sul grande artista. Un ritratto che ci fa ricordare quanto ci manchi la sua geniale semplicità

Essenziale, scarno e non solo nell’aspetto, naturalmente elegante, ruvido fino a farsi male, ma grandissimo umanamente e professionalmente. Curioso, intelligente e originale fino all’ultimo : un vero animo libero, un maestro. Questo il ritratto di uno dei più grandi registi del nostro cinema che emerge dal documentario Monicelli. La versione di Mario di Mario Canale, Felice Farina, Mario Gianni, Wilma Labate e Annarosa Morri. Un omaggio a dieci mani sempre misurato tuttavia (d’altra parte fare diversamente sarebbe stato snaturare l’intima personalità di Monicelli) più che un ritratto, dipinto con la delicatezza e la sapienza di chi il cinema lo conosce e lo ama. E di chi ha amato e continua ad amare questo grande artista del cinema italiano.

Prova ne sia che durante tutto il documentario di circa ’90 minuti non si distingue la voce dell’uno da quella dell’altro: un tessuto seamless. Una coralità che pur nella diversità di posizioni, dimostra l’intento comune di far emergere la personalità dell’artista con le caratteristiche gli sono proprie. Parlando con tutti e cinque gli autori c’è un dato comune che ne rende il lavoro prezioso: l’umiltà di chi vuole pagare un tributo alla memoria di un grande artista da cui tutti sentono di avere imparato qualcosa. Con grande affetto e senza nessuna accondiscendenza però.

Così c’è chi come Mario Canale che ha inaugurato la sua carriera proprio su un set di Monicelli racconta nel suo Mestiere proprio il fatto che questo lavoro il regista “lo possedeva” in tutti i suoi aspetti e si sentiva un artigiano. Sempre animato da una grande curiosità e da quello spirito di understatement che per spiegare come ha iniziato ad occuparsi di cinema  gli fa dire “Come molti di quelli che credevano di avere qualcosa da dire ho cercato di dirla attraverso la letteratura però per fortuna mi sono accorto rapidamente che non era quello, ho provato con la musica… e anche lì mi sono accorto rapidamente che non era il mio campo e allora ho scelto, come tutti quelli che allora e anche adesso probabilmente fanno il cinema come ripiego, il cinema, perché chi ha qualcosa veramente da dire non fa il cinema, fa altre cose di cui lui è veramente responsabile. E così mi sono messo a fare il cinema”. Oppure a proposito della sua capacità creativa: “Io almeno con quei pochi amici con cui ho sempre lavorato abbiamo per l’ottanta per cento soltanto rubato. Bisogna rubare ininterrottamente e chi ruba bene senza far riconoscere che ha rubato…” finisce per credere “di avere inventato”.

Una bella storia come le sapeva raccontare lui che proprio ad Annarosa Morri, nel suo Politica ha detto, riassumendo perfettamente la sua filosofia del sociale a cui non c’è da aggiungere assolutamente niente: “A me piace raccontare delle storie e basta, senza con questo voler insegnare o dire chissacché. Se poi uno ha dentro di sé una sua posizione sociale, politica soprattutto, economica, familiare molto radicata qualunque tipo di cinema fa, questa posizione sua dentro, questa sua anima viene fuori.” Ed è proprio questo modo così apparentemente semplice che lo ha reso grande. Inoltre fare cinema cos’altro è se non raccontare storie, facendo trasparire la propria idea del mondo? Senza scrivere trattati che, oltre tutto, sono abbastanza noiosi. Dal ritratto di Morri esce un Monicelli impegnato, ma post-ideologico anche quando era in voga l’ideologia. Un lato sconosciuto di quest’ artista che amava andare contro corrente, ma non per sbalordire o per creare uno sconquasso che fa parlare di sé; era la sua natura di uomo libero. Così parlando della sua posizione politica, dopo avere detto che per tutta la vita si è dibattuto nel dilemma se essere socialista o comunista conclude “Con la caduta del Muro… naturalmente dico no, mo’ che cade il Muro a questo punto io sono comunista a spada tratta. Voglio essere comunista perché voglio che l’uomo sia… uno che si muove, agisce, costruisce qualcosa per gli altri, per tutti, per far star meglio tutti e che ci rimetta persino la pelle per poterlo fare”.

E anche quando parla di sé, del suo passato in Origini di Mario Gianni, Monicelli lo fa con lo spirito toscano tagliente che lo contraddistingue, da flaneur del  lungomare viareggino, di cui Gianni, toscano, viareggino come lui, riesce a cogliere perfettamente l’essenza. Cosi raccontando gli esordi della sua carriera, di quando andò in Africa Monicelli esprime la sua meraviglia, ma anche la sua gratitudine, e con esse il suo amore per la vita:  “a 19 anni appresso a Genina nel Sahara in Libia manco l’assistente facevo. Io sozzoncello accendevo la sigaretta, però anche quella è stata un avventura, a quei tempi l’aereo non esisteva… il deserto, la Libia, la colonia, per un ragazzo era una cosa assurda, imbarcarsi, andare in Africa, attraversare il Sahara, arrivare sul luogo della lavorazione, mi sembrava di fare chissacché. Ero un ragazzotto da solo, mi davano da mangiare, mi davano da dormire ho imparato veramente come si fanno i film”. E poi la sua descrizione del clima del dopoguerra, del neorealismo di quando si pensava che il cinema americano avrebbe spazzato via quello italiano e invece ci fu “quell’esplosione di cinema  per cui tutti trovavamo lavoro, gli attori si prendevano dalla strada e poi avevamo questa freschezza, rubandola debbo dire a Rossellini, di fare le cose come capitava, dove capitavano senza la necessità di questi grandi studi, dell’organizzazione del cinema americano… e ci siamo liberati così”.

Ma è il suo sorriso, il suo modo di ridere e farci ridere  che apre il suo animo al mondo, perché attraverso di esso come, con grande eleganza, ha mostrato Felice Farina in Ridere, si rivela anche al di là delle sue parole. Il suo cinema, il suo modo di fare la commedia all’italiana che a differenza di altri registi, è sempre amaro, senza alcun compiacimento, graffiante allo stesso modo di Germi a cui lo accomunava una grande amicizia. Non fa sconti e scortica vivi i costumi degli italiani, stravolgendo i canoni del genere. Infatti fin dai film con Totò passando per i Soliti ignoti in cui inserisce attori drammatici e dramma all’interno di un tessuto comico giunge agli esperimenti linguistici e allo stravolgimento dell’iconografia medievale di “L’Armata Brancaleone” . Non a caso come dice Farina la sua risata era “comunicativa e rivelatrice di una limpidezza dell’anima  e di una profonda onestà” soprattutto alla luce del fatto che, come lui stesso affermava, non era “capace di far ridere”. Ma è certo il suo rapporto con le donne che rivela l’anima leggera, delicata e piena di pudore di Monicelli. Nel suo Donne Wilma Labate, promotrice di questo documentario pentavoce e legata da una profonda amicizia al regista toscano proprio in seguito all’esperienza di aver girato con lui il documentario Palestina anni prima, ci racconta un Monicelli inedito, privato e sconosciuto, difficile da stanare.

Durante una giornata passata con il regista assieme a Felice Farina e Mario Gianni bevendo vino e chiacchierando ci fa scoprire il suo sguardo sulla vita e sul cinema. Quando con affetto gli chiede “ma le donne le ami o no?” e alla breve risposta “sì, sì molto” lo incalza “e allora perché le hai sempre trattate con sufficienza?” si sente rispondere “Ma perché evidentemente… il fatto di amare un persona, che mi è indispensabile nel momento in cui ci sto… mi rompe i coglioni questo fatto… e non glielo perdono”. Non amava essere dipendente, voleva essere libero anche a costo della solitudine, ma era capace di gesti di grande generosità. Coerente con le sue idee.

Cosi seppure Goffredo Fofi sostiene che Monicelli era misogino, è  opportuno ricordare che è stato uno dei registi che ha dato un grande spazio a personaggi femminili di grande spessore di cui i suoi film sono ampiamente popolati. Vale per tutti Speriamo che sia femmina. E se verrebbe fatto di pensare che forse più che misogino Monicelli fosse misantropo, c’è un dato che, come ricordava Canale, non si deve dimenticare: anche da vecchio era curioso e amava i giovani. Famose erano infatti, vista la sua insonnia, le telefonate notturne alle radio private e le sue domande rivolte soprattutto ai giovani. Il “ragazzo” Monicelli ci manca molto, ma adesso con questo documentario ce lo sentiamo più vicino. Grazie!

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