Nicola Fano
Addio a un artista schivo ma molto amato

Addio al teatro di poesia

È morto Claudio Remondi: dagli anni Settanta in poi, in coppia con Riccardo Caporossi era stato uno dei maggiori protagonisti della nuova scena italiana

Claudio Remondi era un gigante buono anche se non era troppo alto né troppo grosso. Era un gigante nel senso che dava l’impressione di saper ruminare idee e digerirle. E poi era a suo agio con la fisicità del teatro: in Cottimisti era più convince del suo alter-ego Riccardo Caporossi, ma non bisogna credere che fosse meno consapevole, meno poetico di Caporossi solo perché aveva avuto un passato operaio…

Gli piacevano le scommesse teatrali. Ricordo una volta che mise in scena (con Caporossi) un’Antigone. Le ragioni della follia del progetto erano due. Uno, la volontà di misurarsi con una tragedia (e il senso tragico di quello spettacolo, con Antigone avvolta in una spirale di corde su una montagna di pietre, era fortissimo); due, l’averlo realizzato in un capannone gelato (s’era d’inverno) all’Isola Sacra. È vero che all’epoca (inizio anni Ottanta) si faceva teatro ovunque e noi spettatori appassionati eravamo disposti ad andare ovunque pur di vedere teatro, ma quando è troppo, è troppo. Oppure ricordo Claudio Remondi muoversi agile dentro al “suo” Rotobolo (sempre suo e di Riccardo Caporossi…) sistemato a Via Sabotino, a Roma, dove Nicolini nel 1979 inventò un festival del nuovo teatro che fece scoprire ai romani non solo Rem&Cap ma anche Benigni, Mario Martone, Toni Servillo… Remondi – era estate – si muoveva sulle travi di ferro per imbullonare sogni e illusioni, come un operaio della fantasia.

Il loro teatro era un teatro di poesia assoluta, personalissimo e appassionato. Lieve. È strano dirlo, ma “lieve” è l’aggettivo che mi pare più consono a Remondi. Eppure la vera “piuma” della coppia era Riccardo, che attraversava la scena come un’apparizione, segno della sua predilezione per la gestione dello spazio (è un architetto, Caporossi). Ma questa levità non ha mai peccato di mancanza di concretezza. Anzi, proprio il rapporto magico tra spazio e corpo era il loro segno. Spesso un segno muto.

Spesso ho pensato che Rem&Cap rappresentassero il proseguimento naturale (finale, quasi) del teatro beckettiano: un Beckett senza più parole (e del resto l’irlandese aveva finito per far parlare pochissimo, i suoi personaggi): so che Rem&Cap avrebbero voluto dare corpo a tutto ciò mettendo in scena un “loro” Beckett e so che fu impedito loro di “adattare” il grande scrittore. Ecco un rammarico che ci rimarrà per sempre, ormai.

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