Giuseppe Grattacaso
A proposito di “Monte Stella”

Poesia per ripensare

Nella nuova raccolta poetica di Luigi Fontanella il tempo della vita è tutto presente, un cerchio nel quale le figure sono sempre fantasmi e sempre reali, che vivano ora o che siano vissute nel passato. E le parole diventano uno strumento di scavo dentro di sé

Accade alla maggior parte delle donne e degli uomini che hanno attraversato un segmento consistente della propria esistenza, di provare il desiderio di guardare dietro, in una sorta di malinconico tentativo di riportare in vita, almeno nel ricordo, gli affetti infantili, gli anni della formazione e delle prime esperienze, solitamente sbiaditi nella memoria, per ognuno ancora attuali eppure in tutta evidenza intangibili e incorporei. Si ingaggia così una lotta con se stessi al fine di rievocare situazioni e persone del proprio passato. Lo sforzo può assumere alternativamente i caratteri della mestizia e della gioia, dello sconforto nostalgico e dell’allegria che proietta verso il futuro.

Luigi Fontanella, poeta che ha alle spalle numerosi libri di versi, a cominciare da La verifica incerta, esordio in volume nel 1972, autore di saggi di critica letteraria – il più recente Raccontare la poesia (1970-2020) è edito da Moretti & Vitali – di opere di narrativa e drammaturgiche, qualche anno fa professore di letteratura italiana alla Columbia University, ora professore emerito alla State University of New York, se volge lo sguardo indietro, ha parecchio da raccontare: nella raccolta Monte Stella (Passigli, € 14) sono gli anni più lontani prevalentemente a riemergere.

Ripensando al se stesso di un tempo, guardando comporsi dinanzi agli occhi l’immagine del bambino gioioso di alcuni decenni prima, dell’adolescente innamorato che trascorre lunghe ore a discorrere con gli amici o, forse più spesso, impegnato nella lettura, ricomponendo il ritratto, ormai dissolto nella realtà, della famiglia salernitana (Monte Stella è appunto la montagna che si scorge dalla città campana), Fontanella vede il ricordo prima presentarsi con nitida concretezza, poi scomporsi e annebbiarsi, dubitare di sé, sovrapporre al disegno della memoria quello dell’oggi e scoprire che le figure e i paesaggi non collimano, che il viaggio a ritroso può essere piacevole o doloroso, ma ci mette impietosamente malfermi in un territorio dove prevale l’incertezza, determinata dalla distanza e dall’irrimediabile distacco da quello che siamo stati, da quello che è stato il mondo intorno a noi, e non è più. Scrive il poeta con limpida e commossa fermezza: “Qui si celebra il canto del distacco. / Una porta sui campi. / La gabbia vuota. / Il richiamo di capelli e sorrisi / da un balcone all’altro. Siamo / solo bambini, conchiglie / dimenticate al vento”.

Il dialogo tra passato e presente non può essere che frammentato e scomposto. Proprio a partire da questa frammentazione, che genera un moto di malinconica rassegnazione, le poesie che compongono l’affresco di Monte Stella ci propongono una veduta continuamente smontata e ricomposta, vaga eppure tanto chiara nel rendere evidente, pur nella sua indeterminatezza, il sentimento del passato. Da una parte emerge la necessità di vivere di nuovo quello che è stato, dall’altra l’impossibilità che questo accada. In ogni caso la ricomposizione degli eventi trascorsi appare come reale, anche se proiettata in una dimensione mitica e immaginaria. La ripetuta dissolvenza incrociata tra epoche diverse sfoca le immagini e le ricompone, rende palpabili cose e personaggi ormai svaniti, teatro di assenze e di vuoti quello che ora è davanti agli occhi.

Nella poesia Girando nell’antica Fratte, dove Fratte è oggi un quartiere periferico di Salerno e fino a qualche decennio fa un borgo separato dal centro cittadino con la qualifica di “frazione”, ricordando un passato non sempre piacevole (“Fummo ragazzi cresciuti male”), il protagonista dei versi di questa raccolta, evidentemente autobiografici, si trova a fare i conti con mutazioni e assenze, ma anche con uno sguardo che vede diversamente, che colloca le cose in ordini di grandezza differenti: “Il tetto della nostra chiesa è sprofondato. / Il soffitto è un cielo nudo e trapunto. // Quella lunga strada oggi è / poco più di un vicolo. Ora / nessuno ricorda più niente. Nessuno / attesta la tua antica appartenenza”.

Il tempo per Luigi Fontanella non è dunque sequenza lineare, è tempo doppio e circolare, coesistenza di passato e presente, avvicendarsi di sensazioni che non si sa più in quale epoca collocare. In questo modo il poeta può rivolgersi spesso ad un “tu”, che non è l’ipotetico lettore, ma ancora più di lui semblable e frère, simile davvero in quanto si tratta dello stesso poeta, ma inquadrato e messo in scena in età diverse. A volte è da un tempo ormai trascorso che le parole sembrano provenire (e il “tu” dunque è il personaggio che vive nell’epoca presente), altre volte, più spesso, avviene il contrario, quando il “tu” è il protagonista bambino o adolescente. Così, mentre infuria il temporale a Long Island, il poeta vede scorrere immagini provenienti da momenti diversi della vita: “per magia vorresti tutti i tuoi amici / raggruppati vicino… / e tua figlia insieme con i suoi nonni / sorridenti apparire / nell’identico sogno / e una musica aleggi sulla culla / del tuo mare di Vietri / in cui ti bagnasti ragazzino / e né spine né odio brucerebbero gli occhi / e diventi il mare a un tratto / un letto di luna / e l’amata a te accanto / poggi la mano fiduciosa sulla tua…”.

Il tempo della vita è tutto presente, un cerchio nel quale le figure sono sempre fantasmi e sempre reali, che vivano ora o che siano vissute nel passato.

La struggente rievocazione è anche celebrazione pronunciata in una lingua piana, familiare e dalle cadenze proprie di una religiosità verrebbe da dire ordinaria e accessibile. È insieme rappresentazione di quello che siamo, di quello che il poeta (e con lui la poesia) continua ad essere, e serve a “mettere a posto ciò che posto non ha”. Così, mentre “la scena sfuma allontanandosi” e “sei solo tu a guardarti, / solo tu a ricordare”, ancora il bambino continua ad abitare il corpo dell’adulto e a manifestare lo stesso candore: “Giocano i bambini in quest’aria che trascolora / li intravedo nel parco: ondulati, evanescenti / fermi e potenziali. / Mentre li guardo soprappensiero / penetro quanto più possibile / il mistero ch’è dentro di me / per conoscerlo e mostrarmi a lui / con lo stesso candore / del ragazzo che sono stato”.


Accanto al titolo, “Castello”, fotografia di Roberto Cavallini

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