Alessandro Boschi
Ricordo di un mito perduto

Il segreto di Bébel

La grandezza di Jean-Paul Belmondo, come quella di ogni grande attore, forse di ogni uomo, è un segreto indefinibile che si porta con sé e che adesso rimarrà legata a quel suo sorriso enigmatico. Forse di contentezza, forse di tristezza

Difficile scrivere quando muore un attore e a te non viene in mente niente che abbia a che fare con il cinema. Di certo, Jean-Paul Belmondo, scomparso a 88 anni, di cinema era imbevuto. E lo aveva segnato, il cinema, in maniera indelebile. Basterebbe parlare di À bout de souffle, del leggendario jump cut. Del suo rapporto con Godard, in buona sostanza. Ma non è questo che ci viene in mente.

Ci viene solo nostalgia, perché se ne va un pezzo importante della nostra vita, della nostra memoria. Memoria che certo resta, ma si indebolisce. E allora questo conferma una nostra teoria; che il cinema è più cuore che testa, è più pancia che cervello. Perché in fondo il cinema serve a questo: a condurci in un mondo che solo il cinema potrebbe farci conoscere, a farci provare emozioni che solo in una sala buia diventano, per un attimo, emozioni nostre.

È la persona che ci mancherà, con quella faccia da pugile suonato (il pugilato, forse il suo più grande amore). I fiumi di inchiostro versati per parlare dei suoi film non potranno mai descrivere la nostalgia che adesso ci dà quel sorriso, perché la grandezza di ogni grande attore, di ogni uomo, è un segreto indefinibile che si porta con sé, e corrisponde a quel qualcosa dentro di noi che riusciamo a percepire ma mai capire fino in fondo.

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