Raoul Precht
Periscopio (globale)

I dilemmi di Marías

Omaggio allo scrittore madrileno Javier Marías per i suoi settant'anni. E intanto a febbraio sarà disponibile anche in Italia il suo nuovo romanzo, “Tomás Nevinson” che ruota intorno a un gioco di specchi tra il mestiere di spia e quello di romanziere...

Il microsaggio di oggi è un ibrido, oscilla infatti fra gli auguri di buon compleanno e la recensione di un libro che ancora non c’è. Cominciamo dagli auguri, che faccio, con piacere e sincera ammirazione, a Javier Marías, scrittore spagnolo arrivato al traguardo delle settanta candeline, senza che peraltro si scorga alcuna ruga o alcun segno di vecchiaia nella sua prosa, che si snoda anzi attraverso un’impressionante progressione tematica ed espressiva durata cinquant’anni, dal romanzo d’esordio, Los dominios del lobo (I territori del lupo), che è appunto del 1971, a oggi. Quanto alla recensione, riguarda un romanzo non ancora disponibile in italiano (sarà pubblicato da Einaudi, come tutti gli altri libri dell’autore, in febbraio), ma in compenso uscito nella versione originale per i tipi di Alfaguara. Già il titolo, Tomás Nevinson, dal nome del protagonista, suonerà familiare al lettore che di Marías abbia letto almeno il penultimo romanzo, Berta Isla, in cui Tomás è l’assente deuteragonista e intorno alla prolungata scomparsa del quale tutto ruota.

Risulta insomma difficile, anche se non impossibile, capire e apprezzare pienamente Tomás Nevinson senza aver letto Berta Isla, anche se i due romanzi sono del tutto autonomi e ruotano intorno a fattispecie e considerazioni etico-filosofiche diverse. Al tempo stesso sarebbe però riduttivo considerare l’ultima fatica dello scrittore madrileno un semplice seguito dell’opera precedente, di cui semmai rappresenta un potenziamento, come se, nel riprendere in mano un personaggio in parte negletto (o non pienamente sviluppato) e facendone ora il vero protagonista, l’autore avesse inteso non solo ripercorrere, almeno in parte, le medesime vicende da un diverso punto di vista, ma soddisfare la curiosità del lettore (e forse dello scrittore stesso) fingendo di dargli altre e più consone informazioni o di svelargli, sia pure in modo ambiguo, il seguito della storia. Dico “dello scrittore stesso”, perché è risaputo che nella sua narrativa Marías procede senza mappa, ma al massimo, come ha scritto lui stesso, con una bussola, nel senso che le vicende narrate non sono preordinate a tavolino e schematicamente definite. Sulla scorta del suo maestro Juan Benet, ma anche di altri scrittori ai quali si è di volta in volta ispirato, come Nabokov e Bernhard, Marías si lascia andare a un ispirato (e talora ludico) vagabondaggio letterario che da una digressione all’altra – ma si tratta sempre di digressioni perfettamente controllate, à la Henry James – può condurlo, per il piacere del lettore, a svolte insospettabili. Errabondo in modo programmatico, insomma, Marías controlla tutto il suo materiale e sembra non perdere appunto mai la bussola.

Javier Marías

Nella ventina fra romanzi e raccolte di racconti che punteggiano la sua carriera letteraria siamo abituati a trovare da un libro all’altro echi e rimandi costanti, tra cui sempre spiccano l’universo shakespeariano – si pensi solo a un titolo come Mañana en la batalla piensa en mí (Domani nella battaglia pensa a me), tratto di peso dal Riccardo III –, luoghi feticcio come Oxford e alcuni quartieri di Madrid, personaggi che ricompaiono da un testo all’altro, primo fra tutti il dirigente del controspionaggio inglese che di volta in volta risponde a diversi nomi (Reresby, Tupra, Ure, Dundas, ecc.), variazioni su diversi temi, insomma, che costituiscono il vero e proprio sistema a cui l’universo di Marías si ispira incessantemente. Così come siamo ormai abituati al suo periodare lento, ipotattico, alle sue improvvise accelerazioni e ai più numerosi rallentamenti, che consentono di sviscerare lo scarso agire dei personaggi in tutti i suoi dettagli, di osservarlo come sotto una lente d’ingrandimento che ce ne svela i dettagli nella tessitura, e in definitiva i segreti.

Nulla di tutto ciò manca in Tomás Nevinson, libro in cui inoltre Marías gioca da virtuoso con l’alternanza fra prima e terza persona e contestualizza il dilemma morale principale – saremmo capaci di uccidere qualcuno se sapessimo con certezza che la vittima diverrà in futuro un pericolosissimo, acerrimo nemico dell’umanità? – con una serie di rimandi e citazioni a opere letterarie e fatti storici che, lungi dal ridursi a divagazioni, danno maggior sapore alla vicenda narrativa, in sé e per sé relativamente semplice. Provo a riassumerla, badando a non togliere al lettore alcun elemento di suspense e con la piena consapevolezza del fatto che la trama, benché ben calibrata, in Marías è sempre secondaria. Tomás, ex agente del controspionaggio britannico ormai in pensione anticipata (forse perché “bruciato”, forse perché non più utile) e tornato definitivamente a Madrid, la sua città natale, dove vivono la moglie, Berta Isla, e i figli, è richiamato d’improvviso in servizio dal suo ex-coordinatore, l’ineffabile Bertram Tupra. La missione consiste nel cercare di individuare una donna facente parte dell’IRA, ma da tale organizzazione “prestata” poi all’ETA, per conto della quale ha partecipato in Spagna a efferati crimini, fra cui un attentato costato la vita a decine di persone. I servizi inglesi temono che la donna, che vive attualmente sotto falso nome in una sonnolenta città spagnola di provincia, possa tornare in Irlanda del Nord e organizzare o partecipare ad altre azioni terroristiche. Fin qui tutto semplice: non fosse che, a corrispondere alle segnalazioni e ai sospetti, in quella città vivono ben tre donne, ma una sola di loro è quella coinvolta, mentre le altre due sono innocenti e hanno solo la sfortuna di avere alle spalle un passato poco chiaro. Prima di liquidare l’assassina, Tomás dovrà dunque anzitutto scoprire chi sia o radunare elementi sufficienti a escludere le altre due; ma naturalmente il tempo a disposizione e gli scrupoli morali, che il periodo d’inattività forzata ha acuito, non giocano a suo favore. Il rischio, in cui Tomás incorre, di eliminare un’innocente e le relative perplessità etiche che ne derivano diventano, con lo scorrere delle pagine, sempre più presenti e coercitive, e certo non possono non far pensare a un episodio della biografia familiare dell’autore, quando, durante la Guerra civile spagnola, uno dei suoi zii venne sommariamente giustiziato.

Non dirò altro per non guastare la lettura, in molti tratti avvincente; mi limito a indicare, come uno dei numerosi possibili percorsi ermeneutici, la riflessione sulla prossimità fra il mestiere della spia e quello del romanziere, che nei confronti dei personaggi, man mano che li costruisce, si comporta con le medesime cautele che Tomás deve adottare nei confronti delle sue sospettate. Dato che negli ultimi tempi si discute molto di autofinzione, di corrispondenza fra autore, narratore intradiegetico e personaggio, varrebbe forse la pena di analizzare il modo in cui Marías è andato variando di romanzo in romanzo il rapporto fra questi tre elementi, con delle riflessioni metanarrative in cui la realtà autobiografica e per certi versi leggermente narcisistica (Madrid, gli anni oxfordiani, il fascino del cinema, la passione per la letteratura inglese e in particolare per Shakespeare ecc.) si mescola con l’inverosimiglianza, l’artificio e l’iperbole (le basi filosofiche dei servizi segreti, le doti talora opache del protagonista e via elencando). Almeno a partire da Todas las almas (Tutte le anime), che è del 1989 e funziona da spartiacque nella sua produzione, tutta la narrativa dell’autore è posta al servizio di questo gioco ondulatorio, di questo pendolare (e pencolare) fra i due estremi, (auto)biografia e finzione, non senza qualche ironica sottolineatura del fatto che a uno scrittore non si è obbligati a credere né gli si possono attribuire a tutti i costi patenti di credibilità. In Negra espalda del tiempo (Nera schiena del tempo), del 2007, Marías confesserà che, seppure autore e narratore possano coincidere, “ya no sé si somos uno o si somos dos, al menos mientras escribo”.

Sono molti i temi e gli interrogativi con cui Marías si destreggia qui con estrema perizia, interrompendo la descrizione della vicenda, come si diceva, ogni qualvolta il dilemma morale finisca per prevalere, con digressioni e congetture che sviluppano a loro modo il ricorso al monologo interiore (e talora producono qualche forzatura nei confronti della sintassi spagnola, cosa che non tutti in patria gli perdonano). Qualche esempio: la contrapposizione fra la noia insita nella tranquillità e il brivido dell’azione, anzitutto, che spinge Tomás a rimettersi in gioco anche se poco convinto dalla missione ricevuta; l’influenza che certe persone riescono a esercitare, manipolandoci con precisione, sulle nostre scelte (e qui va menzionato il personaggio di Reresby/Tupra, ma prima ancora anche quello del professor Wheeler, colui cioè che recluta originariamente Tomás, come pure i protagonisti di altri romanzi dell’autore); la curiosità, che ci spinge a continuare a esplorare il mondo anche quando potremmo riposarci, ma senza la quale ci sentiamo malinconici, se non prematuramente defunti; la figura femminile, considerata, che sia o no una terrorista, come un eterno enigma; quel grado di vaghezza e imprecisione che s’instaura nelle conversazioni fatte in lingue diverse dalla nostra, e dunque il gioco di malintesi e incomprensioni fra civiltà diverse, qui quella britannica e quella spagnola (non a caso, Marías è anche un valente traduttore); la capacità più o meno sviluppata di ciascuno di discernere il male assoluto e di separarlo nettamente dal bene, in un mondo in cui ciò è di rado possibile. E naturalmente il peso insostenibile del passato, poiché, come Marías scriveva nel primo volume, Fiebre y lanza (Febbre e lancia), della trilogia Tu rostro mañana (Il tuo volto domani): “Non lo si sopporta, no, il passato; non sopportiamo il non poter porvi rimedio, non averlo potuto indirizzare, dirigerlo; né evitarlo. E così lo si travisa o lo si trucca o altera se risulta possibile, lo si falsifica, oppure se ne fa liturgia, cerimonia, emblema e alla fine spettacolo (…)” (trad. di Glauco Felici).

A prevalere, alla fine, è il dubbio, la perplessità, nel migliore dei casi la consapevolezza che in letteratura, come nella vita, non sempre alla fine tutto è evidente, non sempre tutto si chiarisce; e a questa conclusione Marías giunge dopo aver sviscerato, con il rischio di qualche ripetizione manieristica, ma anche con la padronanza assoluta dei suoi mezzi, tutto l’armamentario di pensieri e concatenazioni che lo spingono verso continue digressioni, continui aggiustamenti di tiro. Un tiro, tuttavia, che anche in questo romanzo si rivela alla fine infallibile e che ispira al lettore la speranza che certe digressioni non finiscano mai – e con esse, naturalmente, non finisca neanche il libro.

Facebooktwitterlinkedin