Flavio Fusi
L'estate del nostro scontento?/7

Parlare coi fantasmi

«In questa estate “del nostro scontento” mi accorgo sempre più spesso di parlare con i fantasmi della vita che ho vissuto in altri luoghi e in compagnia di altre persone. È questa la differenza rispetto al primo impatto del meteorite pandemico. Non certo “ne usciremo migliori” o altre sconce banalità televisive»

Quando i ragazzi di Cuba sono scesi per strada gridando “patria e vita”, che vuol dire semplicemente pane e libertà, avrei voluto telefonare a Enrique, là nella sua villetta diroccata del quartiere Coly dell’Avana, tra cataste di libri e vecchie riviste e l’antro fumoso di una cucina spenta da anni. Ma – lo sapevo – il vecchio Enrique con il suo cappelluccio e la rada barba grigia e gli occhi allegri era già morto da qualche giorno, e il suo incartamento di irregolare e chiacchierone sospetto al potere era ormai consegnato alla eterna dimenticanza negli scaffali di  qualche squallido ufficio municipale.

E quando le boinas negras – le brigate dei picchiatori del regime – sono anche loro scese strada per strada a castigare, battere e arrestare i ragazzi agitando insieme ai bastoni gli slogan funerei di una decrepita rivoluzione, anche allora  avrei voluto telefonare a Victor, che non sento da venti anni: dai giorni delle nostre caute scorribande nei quartieri più desolati dell’Avana, lontano dagli splendori della città coloniale  e dalle vuote cartoline turistiche, lontano dai mille volti del Che e dal   dollaro senza volto che trionfa in ogni baratto dell’ ordinaria sopravvivenza  cubana.   

Oggi anche lui – dico il ragazzo Victor – potrebbe essere morto in qualche cimitero periferico o meglio vivo a guadagnarsi la vita nel frastuono assolato di Calle Ocho a Miami, finalmente lontano dall’ipocrisia retorica di una grande speranza che nei decenni ha divorato se stessa. Mireya e Octavio, Aidita e Marcos: i miei testimoni di quel tempo non ci sono più, trasformati in memoria affettuosa e infedele. Per loro celebro oggi un funerale laico e a tutti auguro vita, esistenza, un lungo futuro sconosciuto alle mie domestiche latitudini.

È vero: in questa estate “del nostro scontento” mi accorgo sempre più spesso di parlare con i fantasmi della vita che ho vissuto in altri luoghi e in compagnia di altre persone. È questa la differenza rispetto al primo impatto del meteorite pandemico. Non certo “ne usciremo migliori” o altre sconce banalità televisive: l’eterno mandolino italiano, l’eterna pizza italiana, l’eterno italiani brava gente. Per più di un anno un tempo cristallizzato ci ha sprangati dentro il bozzolo del presente, riducendo il vasto mondo a un pugno di case, un quartiere, una campagna domestica. Oggi incontro finalmente un futuro claudicante, un camminare con le stampelle, una incerta convalescenza.  Incontro il vasto pianeta, e nel pianeta i miei antichi luoghi dell’anima.

Mi chiedo allora: dove eravamo rimasti? L’Avana, per esempio: le ultime notizie del virus planetario illustravano la missione in Italia di benemerite squadre di medici cubani, o gli effetti del miracoloso vaccino autarchico Soberana, che doveva assicurare salvezza e benessere ai cubani e ai volenterosi turisti europei. Ed ecco che i ragazzi in strada, la potente richiesta di pane e libertà, i pestaggi e gli arresti, hanno squarciato il velo dell’ipocrisia di un presente cristallizzato nel bozzolo conformista: oggi la pandemia come gigantesca censura mostra le prime crepe.

Da lontano, da questo lontano in cui mi trovo a vivere, ho dunque bisogno di nuovi testimoni. E il mio primo testimone a Cuba sarà Edel Carrero, venti anni, arrestato insieme ai suoi compagni l’11 luglio scorso, mentre protestava pacificamente davanti all’ Istituto cubano di Radio e Televisione. «Mi hanno chiesto cosa volevo. Gli ho detto che volevo un paese sovrano, un Paese libero, volevo che il mio popolo non soffrisse più né fame né necessità, che il cubano potesse vivere del suo stipendio, che il cubano potesse andare in un hotel, a passeggiare, avere qualità della vita…».

Dove eravamo rimasti? Le ultime notizie dall’altro mondo ci informano che a novembre in Nicaragua il presidente Daniel Ortega correrà per ottenere il suo quinto mandato. Per l’occasione – e giusto per evitare sorprese – il governo ha provveduto a sciogliere d’autorità tre partiti di opposizione e a sbattere in carcere decine e decine di dissidenti, tra i quali sette ex aspiranti alla presidenza. Per tutti, identica e infamante accusa: tradimento della patria. L’ex guerrigliero sandinista si prepara così a festeggiare la sua terza rielezione consecutiva, in un Paese militarizzato, stremato dalla pandemia e di fronte a una superstite platea di partiti collaborazionisti.

Avrei voluto commentare queste novità – magari davanti a un bicchiere di birra – con il mio antico amico e compagno di avventure Paolo “flaco” Bosio, che da tempo e senza avermi prima avvertito riposa in qualche verde cimitero della verde Managua. Paolo – che in tempi remoti ebbe l’ardire di fondare nella capitale nicaraguense il ristorante “Maggica Roma” – conosceva bene questo omone spicciativo, armato di folti baffi e da spesse lenti da miope. E anche a me capitò di stringere la mano al comandante guerrigliero che nei lontani anni Ottanta si faceva chiamare “El gallo” e guidava con pugno di ferro e voce stentorea l’avanguardia armata che nella primavera del 1979 pose fine alla dittatura di Anastasio Somoza.

Salman Rushdie definì il capo sandinista un «topo di biblioteca reduce da una terapia di anabolizzanti». Definizione maliziosa, dentro un reportage (The jaguar smile, 1987) che dall’ interno della giovane rivoluzione mostrava più ombre che luci, un resoconto partigiano intessuto di silenzi imbarazzati e sospensioni di giudizio. Già prevedeva il peggio, lo scrittore anglo-indiano, ma non poteva ammetterlo. Una rivoluzione che si trasforma in dittatura: niente è più banale, ma niente è più doloroso per coloro che ne furono cronisti affascinati e intimoriti. 

Eppure, eppure i segnali erano tutti davanti a noi, squadernati davanti ai nostri occhi di ammaliati testimoni. L’Avana, un giorno qualunque della primavera dell’88: il violento acto de repudio organizzato davanti alla villetta di Gustavo Arcos, con la famiglia del dissidente chiusa in casa, terrorizzata, e il giardino invaso da una folla scatenata, guidata dai caporioni di quartiere, il sangue agli occhi, il coro violento di “gusanos”, vermi traditori.  Gustavo – eroe della rivoluzione, protagonista dell’attacco al Moncada insieme a Fidel Castro – finiva allora di scontare sette anni di prigione nelle carceri del suo antico compagno. Ma non era concluso il tormento suo e della sua famiglia, che durò tutta la vita, tra arresti, intimidazioni, ritorsioni, violenti atti di ripudio e processi pubblici collettivi.

Di questo e di cento episodi come questo siamo stati testimoni. Potevamo denunciare e non l’abbiamo fatto, troppo bella e troppo insidiosa era la favola di una rivoluzione senza macchia, di un popolo che si ribella, caccia il dittatore e costruisce il proprio eroico destino.  Da questa parte dell’Oceano – nelle nostre case ben riscaldate e nei nostri negozi ben forniti – questo sogno non costava nulla: al massimo qualche omissione, qualche giustificazione, piccole dimenticanze. Ma in questi lunghi sessanta anni generazioni di cubani in carne ed ossa hanno pagato il prezzo di rimanere prigionieri dei nostri sogni borghesi. Oggi i ragazzi dell’Avana ci mostrano il conto: la protesta spazzata via, centinaia in carcere, 46 che ancora mancano all’appello, processi e condanne per direttissima senza l’assistenza di avvocati difensori.  La protesta civile di “Patria y vida” tradotta in una lunga lista di reati comuni: disordine pubblico, istigazione a delinquere, resistenza, danni, attentato e vandalismo.

E anche il Nicaragua sandinista è rimasto prigioniero dei nostri sogni borghesi finchè la rivoluzione ha trionfato.  Anche qui, dove eravamo rimasti, e dove ricominciare a tessere il filo della storia? Noi, visitatori di un tempo lontano, siamo oggi orfani disarmati di fronte alla trasformazione di un antico capo guerrigliero in una sorta di tenebroso Macbeth caraibico. Da quando abbiamo abbandonato al suo destino questo piccolo, straordinario, struggente approdo centroamericano, anche i testimoni di allora ci hanno abbandonato.  Molti non ci sono più, altri sono stati sbattuti in cella, come Dora Maria Tellez, nota a ventidue anni come il “Comandante dos” ai tempi eroici della rivoluzione.  O come i candidati dell’opposizione alle presidenziali, tutti trasformati dalle leggi del regime in “traditori della patria”.

Sceglieremo allora come testimone del nostro tempo Hugo Torres, un vecchio comandante sandinista, che dalla sua casa assediata dalle squadracce della dittatura trasmette questo messaggio: «Ho 73 anni, e quarantasei fa anni fa rischiai la vita per liberare dal carcere Daniel Ortega. Non avrei mai pensato di dover lottare oggi contro una nuova dittatura, ma così è la vita, questi sono i casi della vita. Ieri impugnavamo le armi, oggi la lotta è pacifica, e questa è la nostra forza. Queste prepotenze sono sussulti disperati di un regime che si sente moribondo. Animo, popolo, la storia è con noi e la fine della dittatura è vicina». Dove eravamo rimasti? Dopo più di un anno ci azzardiamo a guardare oltre le nostre finestre sbarrate, oltre la triste contabilità quotidiana dei bollettini medici. Riprendiamo così il filo di un racconto che non sia solo nostra cronaca quotidiana. Mai avremmo pensato che la storia – quel frammento di storia scelto dalla nostra esperienza – potesse ripartire dalla testimonianza di un indomito, anziano signore e dall’ esempio di  un pugno di ragazzi coraggiosi.


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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