Michela Di Renzo
L'estate del nostro scontento?/12

La belva al sole

«Quando era tornata a casa dopo il vaccino, Mauro aveva fatto una battura per allentare le tensione che le aveva letto sul viso. “Chissà a che ora ti spuntano le ali di pipistrello.” Lei si era messa a letto, con gli occhi chiusi, ad aspettare. Le ali finora non sono comparse...»

Quando Anna arriva nello spogliatoio ha l’attaccatura dei capelli tutta bagnata di sudore. “Sembrano già sporchi anche se li ho lavati stamattina”, pensa guardandosi allo specchio del bagno; per rinfrescare il collo raccoglie le mechès sulla testa e le ferma con una pinza, in modo da formare una coda. “Speriamo che con queste temperature sahariane ci sia poca gente in ambulatorio”, si augura salendo le scale che portano al Pronto Soccorso.

Invece la lista dei pazienti in attesa è così lunga da uscire dalla schermata del computer. “Mi dispiace ma non ho potuto fare di meglio”, le dice Giulia, la collega, aggiustandosi la mascherina sul naso. “Del resto è sempre così il lunedì pomeriggio. E dentro sono messi anche peggio.” “L’ho visto”, risponde Anna: quando è passata davanti alle postazioni per raggiungere la stanza dove vengono visitati i codici minori, è rimasta inorridita dalla lista di pazienti in attesa di ricovero. E d’altra parte c’è ancora la bolla, ovvero quel tot di posti letto liberi e già pronti in caso la belva torni a colpire con ferocia. Posti letto che vengono sottratti ad altri Reparti.

Mentre scrive le consegne, si sente bussare con forza alla porta. “Un attimo”, risponde lo specializzando con la sua voce baritonale. Ma l’uscio si apre e un uomo di mezza età con indosso la divisa azzurra degli autisti di autobus entra protestando: “Sto aspettando di essere dimesso da più di un’ora.” Il giovane si dirige alla svelta verso di lui con la sua falcata sportiva e lo riaccompagna fuori. Dalla sala di attesa arrivano brandelli della loro conversazione. “Ha visto quanta gente c’è oggi qua dentro?” “E allora?” “Quando si viene qui ci vuole pazienza.” Anna sorride dietro la mascherina. “Ha vent’anni meno di me, per questo ha ancora voglia di discutere”, pensa. Giulia si alza dalla scrivania per lasciarle il posto. “Mi raccomando fammi sapere come viene il tampone di quel paziente, il Bandini, ha solo una lieve cefalea ma potrebbe anche essere positivo visti gli esami.” “Ma questo a quarant’anni come mai non è ancora vaccinato?” “Ha detto che voleva aspettare”, risponde la collega, inarcando le sue sopracciglia disegnate in maniera perfetta.

“Proprio come Laura”, pensa Anna che sente un nodo alla gola tutte le volte che le viene in mente la conversazione telefonica con l’amica di Forlì. “Conoscendoti, se non abbiamo fatto le due dosi e un tampone il giorno prima, in ferie con noi quest’anno non ci vieni”, aveva esordito prendendola in giro. “Mi conosci proprio bene allora”, aveva ribadito Anna con lo stesso tono scherzoso. Poi aveva aggiunto diventando seria: “Vaccinati dai, perché io non ho nessuna intenzione di rischiare.” Quando avevano riattaccato Mauro, il suo compagno, l’aveva fulminata con lo sguardo. “Ma davvero pensavi di farle cambiare idea mettendola con le spalle al muro? Cosa credevi di ottenere con la tua intransigenza?” “Speravo che ci ripensasse.”

“Ho paura a farmi iniettare qualcosa di estraneo”, era stata questa la giustificazione di Laura. “E io non l’ho avuta?” avrebbe voluto replicare Anna che invece era stata zitta. La mattina del 27 Dicembre quando era tornata a casa dopo il vaccino, Mauro aveva fatto una battura per allentare la tensione che le aveva letto sul viso. “Chissà a che ora ti spuntano le ali di pipistrello.” Lei si era messa a letto, con gli occhi chiusi, ad aspettare. Le ali finora non sono comparse, ma chi lo sa, magari arrivano dopo la terza dose, quella che forse le faranno in Autunno. “Se non ci vacciniamo non se ne esce”, si ripete spesso, per darsi coraggio. Le vacanze con gli amici intanto sono saltate e chissà se quando si rivedranno la loro intesa sarà la stessa.

“Domani ci rifanno il tampone lo sai vero?” le chiede Giulia prima di uscire dall’ambulatorio. “Sì ho appena letto la mail del caposala.” Qualche giorno prima un’infermiera è risultata positiva nonostante il ciclo completo di vaccinazione: se l’è cavata con una lieve sinusite ma tutto il personale del Pronto Soccorso deve essere testato ogni tre giorni. “Speriamo bene”, fa Anna. La paura della prossima variante che potrebbe bucare la doppia dose, facendo ricominciare tutto daccapo, aleggia per un attimo nell’aria.

“A domani”, la saluta la collega. “Ciao”, ricambia Anna cliccando col mouse sul primo nome in attesa della lista, poi aggiunge rivolta allo specializzando: “Fai passare Civai.” Il giovane fa entrare una ragazza di vent’anni, con dei pantaloncini di jeans che mettono in risalto le gambe affusolate. Dietro di lei si affaccia un trentenne robusto, con una maglietta di cotone blu scura. “Mia madre aspetta da due ore di fare la TAC”, dice irritato. “L’avete abbandonata in fondo a quel corridoio e non si è visto più nessuno. Qua l’organizzazione non funziona.” “Non lo vede che abbiamo un altro paziente?” ribatte lo specializzando. Anna interviene. “Esca per cortesia. Ora vengo a parlare con lei.” Va in sala d’attesa e si avvicina all’uomo che nel frattempo si è messo seduto.

“È inutile cercare di governare gli italiani”, sentenzia a volte il suo capo citando una frase del Duce. Anna solleva sempre gli occhi al cielo ma subito dopo guarda con affetto la testa di lui che non è tonda e pelata, ma a punta e con una miriade di capelli che da neri che erano sono diventati bianchi nell’ultimo anno: è da una vita che hanno idee politiche discordi, ma quando lei da soldatino ha combattuto la belva, chiamandolo a qualunque ora del giorno e della notte per risolvere l’ennesimo problema, lui, il generale nostalgico, c’è stato.

“Sua madre sta aspettando perché è un codice 3 e se dentro arrivano i codici 1 fanno la TAC prima di lei”, fa Anna all’uomo che si è spazientito. “Questo lo capisco e non ce l’ho mica con lei sa, ma si metta anche nei nostri panni…” “Vuole sapere come funziona l’organizzazione qui? Voi siete tanti e noi siamo pochi. Oltre a essere stanchi, dopo tutto quello che abbiamo passato.” La voce le esce fuori stizzita. “Lo immagino quello che avete passato.” Il tono dell’uomo si è addolcito e gli occhi esprimono comprensione. “Ora comunque telefono in TAC e mi informo.” “Grazie.”

Anna rientra in ambulatorio. “Non dovevo innervosirmi”, pensa. “Dobbiamo resistere”, si sono detti spesso tra colleghi nei momenti di sconforto. E il sistema, lei inclusa, ha resistito, ma un prezzo lo hanno pagato. La belva nella sua ferocia però ha messo in evidenza tante falle, a partire dalle carenze della medicina territoriale. “Magari questa è la volta buona che ci mettono mano”, si ripete speranzosa.

La ragazza con gli shorts sta parlando con lo specializzando. “Ho mal di pancia da due giorni e mi brucia quando faccio la pipì.” “E come mai non sei andata dal tuo medico di famiglia?” “L’ho chiamato ma mi ha dato appuntamento tra una settimana.”

Anna guarda la luce intensa del primo pomeriggio che filtra dalla parete a vetri dell’ambulatorio, una luce estiva: radiosa, come direbbe Shakespeare. Pochi giorni fa ha letto un articolo il cui autore citava l’incipit del Riccardo III, “L’inverno del nostro scontento si è tramutato in un’estate radiosa grazie a questo sole di York”, chiedendosi se si possa o no applicare ai mesi che stiamo vivendo. “Come scriveva bene il Bardo”, si dice Anna mentre, chiudendosi alle spalle la porta dell’ambulatorio, non può fare a meno di pensare: “Com’è pallido però oggi questo sole di York.”


Le fotografie sono di Roberto Cavallini

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