Nicola Fano
Dietro i riflettori dello sport

The Greek Freak

Storia (altamente simbolica) di Giannis Antetokounmpo, il campione greco figlio di emigranti nigeriani che sta rivoluzionando l'Nba vincendo il titolo con i Milwaukee Bucks. Una storia di sogni e dolore che sembra una favola ma è lo specchio di questo tempo razzista

Chi segue il basket, specie quello americano, sa già tutto. E invece questa storia è dedicata a chi non pratica la pallacanestro, neanche in tv o sui giornali. È la storia di The Greek Freak, alias Giannis Antetokounmpo, star dei Milwaukee Bucks, la squadra che ha appena vinto il titolo nelle finali di Nba 2020/2021 contro Phoenix. Il secondo della storia di questa squadra, il primo, 1971, portava la firma di un certo Kareem Abdul-Jabbar. Un mito del basket che da oggi ha un erede, Giannis Antetokounmpo. Nome e cognome dicono quasi tutto di lui: è greco; è nero, è alto 2.11 ed è il primo giocatore ad aver segnato più di quaranta punti in tre partite consecutive delle finali di Nba (50 in gara sei!). Poi, è stato il più giovane andato in doppia tripla (più di dieci in almeno tre voci tra punti, rimbalzi, assist, stoppate recuperi) nella sua squadra e nella regular season per quattro partite consecutive. Ma non è questione di statistiche (anche se, purtroppo, ormai il basket sembra quasi solo statistiche…). È una questione di persone.

Giannis Antetokounmpo è nato ad Atene ventisei anni fa; anzi, più esattamente è nato a Sepolia, un quartiere ghetto, la banlieue storica di Atene. I genitori erano scappati da Lagos, si chiamavano Adetokunbo, “re nato lontano che torna alle origini”, in lingua yoruba. La Grecia li aveva accolti di nascosto, negando la cittadinanza ai loro figli nati lì, nella culla della democrazia (lo stesso sarebbe successo se fosse nato in Italia, per dire…): fino al 2013, quando è sbarcato negli Usa per un Draft (il provino collettivo per entrare nella Nba), Giannis Antetokounmpo è stato apolide, senza cittadinanza né nazionalità: la sua nazione era una dignitosa fame alla quale, insieme ai genitori e ai quattro fratelli, faceva fronte con mille mestieri, dal baby sitter al venditore ambulante. Finché è arrivato il basket che lo ha affrancato da tutto e tutti (lui e due suoi fratelli, per altro).

Il suo passato – per così dire – faticoso, ha generato molte leggende, nel mondo dorato dell’Nba: come quella di un paio di scarpe Gucci avute in regalo e mai indossate perché «troppo ricche». Oppure come le sporte riempite di meraviglie ai buffet gratuiti prepartita («Nessuno mi ha mai regalato nulla»). Ma qui non è questione di leggende. Né di favole, come sarà trasformata la sua vita, con ogni probabilità, dalla Dysney che ha deciso di dedicargli un film (privilegio toccato solo a Michael Jordan, prima di lui, infilato nel mondo Looney Tunes con Space Jam). No, la storia di Giannis Antetokounmpo è quella di un giovane dolente che trova il riscatto dentro se stesso: una storia che – auspicabilmente – lascerà un segno di speranza anche nell’America razzista infuocata da Trump e sue bugie dei suoi disgraziati supporter. Doppio emigrante, Giannis, con un nome da poeta greco: «Quante e quante notti/ in bianco/ ad ascoltare i treni, le navi o le stelle,/ a calcolare la materia e il colore di un suono,/ a dare nomi a ombre e nubi. Ora,/ quest’uomo cordiale e loquace sta in silenzio,/ forse perché sul fondo ha intravisto i fanali spenti, e si rifiuta/ di articolare la parola unica ed estrema: “nero”», scrisse Giannis Ritsos. Greco e nero; monumentale e fragile: uno sberleffo vivente ai razzismi di questo tempo disastroso.

Oltre a tutto, sotto canestro brilla non solo per la sua potenza e per la sua costanza. Il gioco della pallacanestro, a livello di Nba, è una roba da mattatori: lo schema vincente è dare la palla al campione e aspettare che lui la metta dentro. Uno solo è stato diverso, rispetto a questo cliché da Eteocle contro Polinice, ed è stato Michael Jordan che, all’occasione, la palla la metteva dentro dopo averla nascosta a tutti, ma che di norma puntava sul gioco di squadra (Pippen, Kukoc, Rodman), come gli aveva insegnato il suo coach ai Chicago Bulls, Phil Jackson. Ebbene, lo stesso vale per Giannis Antetokounmpo: i suoi record in doppia tripla dicono proprio questo: che sa giocare anche per gli altri, che il suo score segna tanti punti quanti assist, ossia è uno che fa punti e li fa fare. È possibile che il suo stile di gioco abbia qualcosa a che fare con la sua storia; è possibile che il suo occhio al collettivo sia un riflesso condizionato alla patita necessità di sopravvivere in accordo con gli altri. Sta di fatto che la storia di Giannis Antetokounmpo, detto The Greek Freak, il greco strano, vale molto di più di una semplice statistica sportiva. Sia pure eccezionale.

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