Giuseppe Conte
Le Parole del Ceppo /8

Memoria Mito Anima Natura Viaggio

Cinque parole-chiave in cui il poeta Giuseppe Conte, vincitore della terza edizione del Premio Ceppo “Leone Piccioni Vita e Letteratura”, definisce la sua poetica nel segno del primato dello spirito, del canto del cosmo, del soffio vitale delle origini, dell’Amore «che move il sole e l’altre stelle»…

Al poeta Giuseppe Conte va il Ceppo “Leone Piccioni Letteratura e Vita” 2021. Come scritto da Paolo Fabrizio Iacuzzi, vince «per il complesso della sua “opera mondo” che attraverso la poesia, la narrativa, la saggistica e la traduzione è capace di incarnare oggi, come non molti altri poeti, quell’idea di “perpetua poesia maggiore” che Leone Piccioni ha indicato per Giuseppe Ungaretti». Nel corso del pomeriggio dedicato al Ceppo Leone Piccioni – giovedì 24 giugno a Pistoia, nel Cortile della Magnolia del Palazzo del Comune, al quale parteciperà anche Marta Morazzoni, premio Ceppo Leone Piccioni 2020 – Conte terrà una lectio, scandita in cinque parole chiave: la anticipiamo per i nostri lettori

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Memoria
La memoria, insieme al desiderio, è uno dei momenti chiave nella nostra vita interiore. Vorrei andare indietro nel tempo, quasi due decenni, e ricordare il mio primo incontro con Leone Piccioni: e dire perché fu così importante per me. Avvenne in Basilicata, in occasione dell’omonimo premio. Avevo già un culto per lui e per la sua edizione mondadoriana di Vita di un uomo, che considero a tutt’oggi insuperata. Ma quello che mi affascinò, a conoscerlo di persona, fu, oltre che il letterato, l’uomo con la sua grazia un po’ malinconica, il suo uso di mondo, il suo stile che lo faceva spiccare di una spanna sopra tutti gli altri. Non mi ricordo se parlammo di marche di whisky o di jazz. Certo che da allora restammo in corrispondenza ed ebbi il privilegio di scrivere su di lui e di ricevere da lui, con dediche molto affettuose, i suoi libri. 

Leone Piccioni

Tra gli ultimi, mi arrivò Intimità e memorie. Mi sono innamorato di questo libro in cui la memoria fa da padrona: è un quadro perfetto, intelligente, spiritoso, felice di una civiltà letteraria come quella italiana del Novecento, vista dall’interno, da una posizione apicale, ma senza nessuna forzatura ideologica, al contrario con uno spirito fraterno, a volte, in certi irresistibili aneddoti, quasi ammiccante. Nell’epistolario, spicca la risposta a Giuseppe Prezzolini che aveva stroncato Troppa morte troppa vita, accusando Piccioni di parteggiare per gli Afroamericani. Scrive Piccioni: «Io ho pietà per quel popolo, e ho orrore di quanto nei secoli scorsi è stato fatto contro quella gente […] una delle crisi più profonde che travaglia la leadership occidentale in questi decenni, è proprio il “complesso di colpa” per le atrocità passate…». La lettera è datata 24 novembre 1969. Le parole, di ispirazione cristiana, nobili e lungimiranti, sono ancora adesso attualissime, testimonianza di un problema irrisolto nella memoria dell’Occidente. 
La fedeltà di Leone Piccioni a Ungaretti è tale che gli consente di mostrarcelo anche in aspetti del tutto inattesi. Quando Ungaretti, ormai vecchio e con il cuore indebolito vuole provare l’ebbrezza della velocità salendo sull’auto di Manuel Fangio, il pilota, consapevole delle sue condizioni, non accelera, va quasi a passo d’uomo. Ma Ungaretti scende entusiasta, convinto di aver volato sulla pista. Ecco, letto in chiave mitico-simbolica, l’episodio ci dice che l’immaginazione vince sulla realtà, la volontà sull’esperienza. Che esiste, inconfutabile, il primato dello spirito.

Mito
Il mito è la memoria e il canto del cosmo. Ed è, come forma di conoscenza, come sapere dei primordi, ancora presente in noi, in una parte nascosta della nostra interiorità. Riconoscerla in me diede l’avvio alla mia ispirazione e alla mia attività di scrittore, in versi e in prosa. Ho sempre detto senza reticenza che per me ci fu una vera e propria conversioneal mito. Per capirlo, bisogna pensare alla Milano degli anni Sessanta del secolo scorso in cui io studiavo all’Università Statale. Per me, che venivo da un polveroso anche se glorioso Liceo di provincia (ne furono allievi due Premi Nobel, Natta e Dulbecco), quella Milano e il professore con cui studiai e di cui poi fui brevemente assistente, Gillo Dorfles, fu un corso accelerato di modernizzazione. Incamerai neopositivismo logico, strutturalismo, semiologia, sociologia marxista, psicoanalisi freudiana. All’improvviso, mi sentii soffocare da tutto quel sapere analitico. Il risultato fu che mi ritrovai inaridito, svuotato, lontano dalla poesia, dal mio sogno adolescente di essere scrittore. 
Mai sottovalutare la potenza dei sogni a occhi aperti. Il sapere del mito irruppe a scacciare materialismo nichilista, senso di disincanto e di impossibilità, e mi riportò di colpo tutta l’energia dello spirito in cerca di verità, di risposte ai primi perché, di contatto con il mistero dell’universo e della mia vita. Avevo studiato a fondo la metafora. Il mito mi appariva la metafora dell’invisibile, che la poesia cerca di cogliere dentro le forme del visibile. Mi appassionai ai miti degli Aztechi, dei Nativi americani, a quelli dei Celti, un popolo semiscomparso ma che ebbe gran parte nella formazione dello spirito europeo. In Irlanda, dove sopravvive con maggiore evidenza, scopersi la leggenda del ragazzo muto che sulla riva ascoltava la voce delle onde e che per imparare a parlare si gettò nell’Oceano, scese nei suoi gorghi sino al fondale, al punto magico dove tutte le correnti di tutti i mari si incontrano, e lì apprese le prime parole del mondo. Tornò in superficie e parlò, cantò, divenne il maggior poeta del suo popolo. Proprio lì, in riva al mare di Galway, scrissi la ballata intitolata L’Oceano e il Ragazzo, che diede il titolo al mio libro pubblicato per la prima volta nel 1983.

Giuseppe Conte

Natura
Il tema della natura, della sua progressiva distruzione da parte della nostra civiltà, della fine del rapporto tra la natura e l’uomo, occupa una parte preponderante nella mia visione delle cose e nella mia opera sin dagli anni Settanta del secolo scorso. Quando, solitario, in esilio, leggevo e traducevo D.H. Lawrence e tenevo Alce Nero parla come una sorta di vangelo. Oggi il disastro è sotto gli occhi di tutti. Avvelenamento dell’aria, del mare, della terra, deforestazioni, incendi, siccità, mutamenti climatici, nuove sconosciute pandemie. Io ho cercato, sin dall’inizio del mio lavoro letterario, di ridare voce alla natura ferita, fuori e dentro di noi. 
Per farlo, il mito mi aiutava. Mi portava indietro a epoche in cui la natura conviveva con gli dei e aveva echi profondi nell’anima degli uomini. Mi ero convinto che la natura poteva salvarsi soltanto se l’uomo fosse stato disposto a riconoscere che in essa abitano forze divine. Se fosse riuscito a vedere Venere in un’onda e in una conchiglia, Diana in un bosco sotto la luce lunare, Bacco in un pendio coperto di vigne, Pan nella forza selvaggia del sole di mezzogiorno. Così ho popolato i miei versi di dee e di dei, mi sono fatto guidare da Ermes attraverso le stagioni degli dei, della fauna, della flora e dell’anima umana nel suo viaggio attraverso i quattro elementi. Cominciai a sentire l’influenza del pensiero mistico dei Sufi. 
Oggi ancora sostengo la necessità di una visione sacrale della natura. E a chi per salvare il mondo propone giustamente di piantare alberi, nel solco di un mirabile racconto di Jean Giono, io dico: non basta, bisogna amare gli alberi, andare ad abbracciarli, sentire la loro linfa vitale che scorre dal buio delle radici sprofondate nella terra alla luce delle fronde rivolte al cielo.

Anima
Mi piace pensare all’anima come soffio vitale delle origini, come energia primordiale, motore di tutto ciò che è vivo e che si muove nel mare, nel cielo, sulla terra, e dentro di noi. Fonte di ogni nostra passione, pulsione, stimolo, desiderio, quelli che Dante nel Paradiso, ormai sul punto di conoscere il mistero di Dio, chiamò «movimenti umani». L’anima è ciò che contiene tutto quello che può allontanarci da Dio, e poi farci ricongiungere con Lui. È l’essenza del nostro essere uomini, è il ponte con tutto ciò che è divino. Come simbolo – l’anima è tale, anzi è il simbolo dei simboli – risiede nel linguaggio, in ciò in cui la nostra specie si differenzia da tutte le altre, e che ci rende unici nel creato. Ed è l’essenza incoercibile della nostra dignità, della nostra libertà di scegliere. 
Io ora sento l’anima come una compagna nascosta e fedele dentro di me, con cui dialogo sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sulla sofferenza, sull’oscurità e sulla luce. La poesia dialoga costantemente con lei, vedi Baudelaire («Que diras-tu ce soir, pauvre game solitaire»), vedi Sbarbaro («Taci, anima stanca di godere/ e di soffrire/ (all’uno e all’altro vai/rassegnata)», tra quelli che io conosco e amo di più. 
L’anima è legata ad Amore. Come nella favola mirabilmente raccontata da Apuleio, Psiche, una volta perduto Amore, si mette a cercarlo superando prove impossibili e ogni più ardua difficoltà per ricongiungersi con lui. Nel mio lavoro di autore, questa fedeltà ad Amore è stata costante, dalle prime poesie sino al romanzo intitolato appunto Fedeli d’Amore, del 1993 a Dante in love uscito quest’anno.

Viaggio
Il viaggio è stata la mia passione primaria. L’ho scritto in Terre del mito, dove racconto il mio vagabondare in cerca dei luoghi, sui margini dell’Europa, in Africa, Asia, America, dove si colgono tracce più vive dei miti che ho più amato. E risulta da tante mie poesie, datate da tanti e diversissimi luoghi del mondo. Quante ne ho scritte, a biro, su taccuini slabbrati, tenuti nelle tasche di un giaccone da viaggiatore, in camere d’albergo, ai tavolini di bar sperduti, in aereo, in treno. Mai in automobile, lo confesso, dove invece il mio amico Seamus Heaney mi raccontava di ispirarsi battendo con le mani sul volante il ritmo dei versi. 
Il viaggio mi appare come la metafora decisiva del nostro essere nell’universo, della stessa avventura dell’umanità tra le epoche della storia. Esiste poi un viaggio archetipo, che è quello verso le ombre. Orfeo è il primo che lo compie, per riprendersi Euridice, impresa resa vana dal suo voltarsi verso di lei prima del tempo, poi Teseo e Piritoo scendono all’Ade per rapire Persefone, Odisseo per chiedere lumi a Tiresia sul suo destino, Enea per incontrare il padre Anchise. Però è Dante, erede gotico di Omero e Virgilio, personaggio egli stesso del proprio poema, a compiere il viaggio più strabiliante ed esemplare: dalla selva oscura dell’esistenza terrena all’Aldilà, dal fango, vento, ghiaccio dell’Inferno sino allo sfolgorare di luce dell’Empireo. 
Forse noi umani, inquieti, assetati, in balia di sofferenza e di gioia, di lutti e di rinascite, di passioni e di sogni, peregriniamo sulla terra alla ricerca di un sentiero che porti verso la luce. Nell’inferno delle nostre esistenze possiamo sempre sfidare le tenebre, essere fedeli all’Amore: quello che muove tutto: il sole, il mare, i poemi, noi stessi. 

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