Pier Mario Fasanotti
In occasione del bicentenario dalla nascita

Enigma Dostoevskij

Ritratto di uno scrittore tanto grande quanto pieno di contraddizioni (soprattutto di carattere biografico): Paolo Nori gli ha dedicato una biografia che sembra un romanzo e che, volutamente, non squarcia il mistero della sua genialità e della sua dannazione

Prima degli scrittori come Lev Tolstoj, Nicolaj Gogol’, cui aggiungerei Aleksanr Puskin, la letteratura russa praticamente non esisteva. Si leggevano testi francesi e pochi russi, scrivendo, li imitavano. In questa sede parliamo di Fëdor Michajlovic Dostoevskij. Quest’anno ricorre il bicentenario della sua nascita A questo grandissimo narratore Paolo Nori ha dedicato una biografia, anzi un romanzo visto che l’autore parla sinceramente di sé, in relazione alla narrativa aldilà degli Urali. Il titolo è Sanguina ancora (Mondadori, 286 pg., 18,50 euro).

Perché questo titolo? Lo spiega Nori: «Quando lessi Delitto e Castigo, a 15 anni, ho capito del fatto che «stavo al mondo, un momento mi sentivo il sangue che mi pulsava dentro le vene». La sua è una passione che non ha mai smesso di affievolirsi. Nori si è laureato in letteratura russa e per molti anni è stato corrispondente da Mosca. Una frase simile a quella che ha scritto Vasilij Rozanov, narratore russo: «Dostoevskij è come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue». Sulla straordinaria di Dostoevskij di parlare all’uomo universale, ha scritto Angelo Maria Ripellino: «Tutti coloro che hanno letto libri, visitato mostre… sono stati aiutati in questa cosa così difficile e così strana, stare al mondo, rendersi conto delle loro ferite, dei loro difetti e ad accettarli, perché è attraverso le crepe che si vede alla luce».

Dostoevskij è nato a Mosca l’11 novembre del 1821 (secondo il nostro calendario). È figlio di un medico militare, orfano di madre a 15 anni. Ma la città che lo vide protagonista è San Pietroburgo, dove vivrà in un minuscolo appartamento. Era ingegnere: sì, proprio come Carlo Emilio Gadda. Ma i numeri non lo interessavano e neppure la possibilità di un lavoro stabile e assai meglio pagato. Quando intinge la penna nell’inchiostro, si occupa di traduzioni. A spese sue e del fratello Michail pubblica Mathilde di Eugène Sue e, da solo, La Dernière Aldini di George Sand. Quando va a vivere con un suo amico, ingegnere pure lui, ha appena tradotto Eugénie Grandet di Balzac. Stando alle parole del coinquilino, «in quel periodo Dostoevskij passa giornate intere, e notti, alla scrivania». Scrive la sua prima opera, Povera gente, che un amico presenta all’editore. Rammenta Dostoevskij «Era uno spaventoso, terribile critico; mi ha accolto in modo straordinariamente solenne e freddo». Qualcuno esclama: «È nato il nuovo Gogol». L’ucraino era tra i preferiti da Dostoevskij Povera gente (romanzo epistolare), che Paolo Nori così commenta: «È forse, oggi, tra i suoi romanzi che hanno avuto successo, il meno letto».

Dostoevskij va a vivere da solo in un altro appartamentino: «Nulla da dire, ma in qualche modo non ci si respira, non è un cattivo odore, ma, se così ci si può esprimere, c’è come una puzza di marcio, acuta e dolciastra». Si lamenterà, in seguito, anche del fumo quando i vicini cuociono il pesce o la carne, «e poi versano l’acqua e lavano dappertutto». Dostoevskij non aveva un carattere facile anche se affermava di «non essere esigente». Il suo primo romanzo sarà pubblicato, nel 1846, sulla rivista Annali patri.

Annota Paolo Nori: «Dostoevskij fin dall’inizio scrive di cose che si fa fatica non solo a scriverle, e non solo a nominarle, anche pensarle… I bambini, per esempio, quando muoiono». Infatti Povera gente parla di un bambino di nove anni e della sua morte. Più avanti gli morirà la figlia Sonja. Chiamata così in onore di Sonja Marmeladova, protagonista di Delitto e Castigo, che faceva la prostituta. Racconta la seconda moglie, Anna Grigor’evna: «Dostoevskij era un padre tenerissimo, assisteva immancabilmente al bagno della bambina, mi aiutava, lui stesso l’avvolgeva in una coperta da pic nic con delle spille inglesi… la faceva dondolare e, abbandonando i suoi impegni, si affrettava verso di lei appena sentiva la sua vocetta e quando le cantavo delle canzoni con la mia voce ridicola, le piaceva ascoltarle… smetteva di piangere quando mi avvicinavo». Sonja prende il raffreddore, il medico dice che non è niente. Tuttavia la bimba muore. E Fëdor, dice la moglie, «aveva una disperazione violenta, singhiozzava e piangeva come una donna… le copriva il viso pallido e le mani di baci caldi».

Ma come era l’aspetto fisico di Dostoevskij? Testimonianza di un amico: «Era più basso della media, con delle ossa grandi, particolarmente ampie le spalle e il petto; la testa ce l’aveva proporzionata, ma la fronte era straordinariamente sviluppata; gli occhi piccoli, grigio chiaro, molto vivaci, le labbra sottili e sempre serrate che davano a tutto il viso l’espressione di una certa particolare bonarietà e tenerezza; i capelli erano più che chiari, erano quasi biancastri e sottili; le mani e i piedi molto grandi». Quella sua armonia, si fa per dire, si sgretolava a causa delle scarpe, troppo lunghe, così che si muoveva in modo un po’ goffo. I suoi vestiti erano puliti, quasi eleganti; aveva una finanziera di ottima qualità, un gilè nero. Una sua amica riportava invece: «Di fronte a me c’era un uomo basso, vestito senza cura… non l’avrei detto vecchio… in base agli occhi infossati e le rughe facevano pensare alla sua biografia… si poteva dire con sicurezza che era una persona che aveva molto pensato, molto sofferto, molto sopportato».

Dopo Povera gente, pubblica Il sosia. Al fratello scrive che «sarà un capolavoro». Poi ci ripensa e in un’altra missiva a Michail è feroce con se stesso: «Ho riletto la mia lettera e mi sono accorto che: prima di tutto sono un analfabeta, secondariamente un fanfarone». Sempre al fratello confida di «non aver letto critiche, ma insulti… però mi ricordo come accolsero Gogol’: Lo insultavano, lo ri-insultavano, lo insultavano ancora, ma, comunque, lo leggevano, e adesso hanno fatto pace con lui e hanno cominciato a elogiarlo». Si identificava con lui? Molto probabile. Gli riferiscono che il conte Sollogub, storiografo si corte e anche scrittore e commediografo, riferendosi alla prima opera di Dostoevskij, scrisse: «Mi è sembrata la testimonianza di un talento così autentico, di tanta semplicità e tanta forza, che quel romanzo mi ha portato a uno stato d’estasi».

Nel 1849 Dostoevskij si installa in un appartamento, con affaccio sulla prospettiva Voznesenkij. Qui ha scritto Le notti bianche. Torniamo brevemente a ciò che nel dicembre del 1825 era accaduto in Russia: la rivoluzione dei decabristi, che è stata soffocata nel sangue. Entra in scena il ventiquattrenne Nicola I, zar di tutte le Russie (che poi sono: la piccola Russia, cioè l’Ucraina, la Russia bianca, ovvero la Bielorussia, e la Russia Russia, in altre parole la Russia). Torna la calma, ma non per Dostoevskij: durante la notte sente il rumore di una sciabola. È un colonnello che gli dice di alzarsi, dopodiché fruga tra le carte dello scrittore, che aveva pubblicato Il sosia, non ancora considerato un capolavoro. Dello stesso avviso, ad anni di distanza, lo conferma Paolo Nori, l’autore di questa biofragia. Il quale scrive: «Questa idea del doppio è un’idea che ossessiona Dostoevskij per tutta la vita, e che lo scrittore riuscirebbe a realizzare compiutamente solo nell’ultimo romanzo, I fratelli Karamazov, che sono là in fondo».

La perquisizione dà i suoi frutti al colonnello: sono trovati testi dell’anarchico-socialista P. J. Proudhon (celebre la sua frase «La proprietà privata è un furto»). Gli ufficiali considerano anche un altro capolavoro di F.D, I demoni, e «ritengono che il suo compito fosse di cercare di diffondere, con tutte le sue forze il socialismo, l’ateismo, e il terrorismo». Dostoevskij ne parlavano spesso in quello che fu chiamato il circolo Petrasevskij.

Dostoevskij, nell’aprile del 1849, viene rinchiuso, «con tutti i suoi colleghi di cospirazione», nella fortezza Pietro e Paolo. Ci resta otto mesi e scrive un breve libro, formato con uno pseudonimo. Il 22 dicembre del 1849. Lui e altri “cospiratori” furono scaraventati su alcune carrozze, dirette verso piazza Semenovskaja. Un testimone racconta: «Guardai fuori dal finestrino e vidi squadroni di gendarmi davanti e dietro le carrozze». Che cosa sta per succedere? Se lo domandano tutti; qualcuno pensa al patibolo. Hanno ragione: i prigionieri s’incamminano lungo il sentiero innevato fino al patibolo. Dietro di loro i gendarmi, che gridano «giù i cappelli». La lettura della sentenza dura mezz’ora: «…il Tribunale, riunito in sessione straordinaria, ha condannato per fucilazione tutti gli imputati, e l’imperatore ha scritto di suo pugno “così sia”». I militari li conducono verso i pali grigi e cominciarono a legare ciascuno a un palo, con delle corde. Dopo viene comandato che un cappuccio nasconda la testa dei cospiratori. Intanto i l capo dei gendarmi ordina “puntare”. Rullano i tamburi. «Quel momento spaventoso durò trenta secondi». Accadde l’imprevedibile: i fucili dei militari si alzarono. Ci chiediamo: come può accadere in trenta secondi che lo Zar avesse commutato la pena? È tutta una farsa ben combinata? Il biografo Nori non si sofferma su questa incongruenza. In ogni caso a Dostoevskij la pena di morte viene commutata in quattro anni di lavori forzati, dopo i quali lo scrittore russo avrà l’obbligo di servire nell’esercito, per dieci anni, con grado di soldato semplice e senza la possibilità di essere promosso».

Un particolare non da poco: un poeta e membro dell’Accademia delle Scienze, racconta che prima dell’arresto ha ricevuto una lettera in cui Dostoevskij esprime la volontà di «fare la rivoluzione». In seguito Dostoevskij s’innamora di Marija Isaeva. Succede a Semipalatinsk, cittadina (e poligono di tiro) in Kazakistan. Dostoevskij scrive al fratello: «Ero felice, non potevo lavorare». Marija è perplessa dinanzi alla prospettiva di sposare lo scrittore: «L’amore è una grande gioia, ma porta con sé tante di quelle sofferenze, che sarebbe meglio non amare mai». E lui: «L’amo da impazzire, non penso ad altro… mi è apparsa nel più triste momento della mia vita e ha resuscitato l’anima mia e tutto quel che c’è di vivo in me». Nell’autunno a Dostoevskij viene comunicato che «è in arrivo l’amnistia». Nell’aprile del ’57 riottiene il diritto di pubblicare. Nelle lettere successive la figura di Marija non scompare, ma certamente sbiadisce un poco. Nel privato litigano e la moglie, negli ultimi mesi, giura di vedere i diavoli. Morirà di tubercolosi a Mosca nel 1864. Aveva solo 39 anni. Scriverà Dostoevskij: «Mi ha amato tantissimo e anch’io l’ho amata tantissimo, ma non siamo stati felici… non potevamo smettere di amarci, e più infelici eravamo, più ci amavamo».

Il biografo Nori si pone una domanda: F.D era un uomo buono? E cita la testimonianza di Lev Tolstoj: «Non ho mai avuto rapporti diretti con lui e d’un tratto, quando è morto, ho capito che era la persona a me più vicina, più cara, più necessaria… l’arte mi ispira invidia, l’intelligenza anche, ma il cuore mi dà solo gioia».

Secondo altri, che lo conoscevano da vicino, Dostoevskij «non riusciva a frenare la sua cattiveria… certo, quando si trattava di insultare, aveva sempre la meglio lui, non le persone normali, e la cosa peggiore è che ne godeva, che non si pentiva mai delle sue porcherie… mi hanno raccontato che si è vantato di aver peccato, in un bagno pubblico, con una bambina che gli era stata affidata da una governante. Si noti che, a causa della sua sensualità animalesca, non aveva nessun gusto della bellezza e del fascino femminile. Si vede anche nei suoi romanzi». A parte quest’ultima frase, il giudizio è pesante, forse troppo pesante, e probabilmente di parte. Una considerazione personale: «Avete mai incontrato un grande scrittore che sia anche del tutto buono, generoso e gentiluomo? Pare che Dostoevskij abbia avuto un forte litigio con Turgenev sostenendo che non era affatto vero che le donne inglesi fossero più belle delle russe. Guai a toccargli la “sua” Russia. Il narratore Rozanov scrive: «Il miracolo della scrittura di Dostoevskij sta nell’eliminazione della distanza tra il soggetto (il lettore) e l’oggetto (l’autore)…il suo miracolo è psicologico».

Quando, nel 1859, Dostoevskij torna a Pietroburgo. Ha 38 anni, ma secondo alcuni ha l’aspetto del vecchio. O, meglio: «Sfiora il ridicolo, ma è un orfano adulto».

Con i soldi ha sempre avuto un rapporto strano e, per citare Paolo Nori, «Appena gli capitavano in mano dava loro grande valore, li trattava come se li considerasse non tanto un male, quanto una sciocchezza». È un fatto, comunque che Dostoevskij fu sempre tormentato dalla povertà.

Dopo la chiusura della rivista Vremja, che F.D ha fondato assieme al fratello, lo scrittore di Pietroburgo alla fine del 1862 va all’estero per la prima volta: Francia, Inghilterra, Svizzera, Germania. Paesi che non gli piacciono per niente. Poco prima ha scritto Memorie da una casa di morti, Umiliati e offesi, Note invernali su impressioni estive.  Una certa Sof’ja si innamora di lui. La sorella maggiore, Anjuta, lo invita a casa. E Sof’ja annoterà che «quel giorno «Dostoevskij era a disagio e fuori posto… sembrava vecchio e malato, come gli accadeva sempre quando era di cattivo umore. Continuò a pizzicarsi i baffi, e tutto il viso era contratto». E ancora: «Sua moglie deve dedicarsi a lui interamente, rinunciare a tutta la sua vita per lui, non pensare a nient’altro che a lui… e poi è così nervoso ed esigente. Mi sembra sempre che s’impossessi di me e di essere risucchiata. Quando sono con lui, non mi sento mai me stessa». Frasi illuminanti a proposito del rapporto che Dostoevskij ha con le donne. Memorie del sottosuolo, ha come incipit: «Io sono un uomo malato…un uomo cattivo sono, un brutto uomo, sono io».

Ci sono ovviamente molti saggi sul carattere di Dostoevskij, anche quello di Sigmund Freud, che dà per certo il fatto che il padre fosse una persona crudele e che, a causa di questa crudeltà, sia stato ucciso dai propri servi della gleba». Con tutto il rispetto per Freud, personalmente diffido delle “analisi” ex post, che rivelano schemi rigidi e alquanto arbitrari.

Dostoevskij nel 1856 si propone come marito di Anjuta. Non se ne farà niente. Sarà Anjuta a rivelare che Dostoevskij ha firmato, nel ’66, un contratto capestro con Stellovskij, personaggio squallido, «che di editoria non sa niente». Questo il crudelissimo accordo: in cambio di tremila rubli (che servono allo scrittore per ripianare i debiti, alcuni dei quali contratti al tavolo del gioco) Stellovskij diventa proprietario di tutte le opere di Fëdor, comprese quelle che scriverà nei successivi nove anni. F.D scrive a Turgenev: dei tremila rubli sono rimasti solo 175. Deve scrivere Il giocatore e L’idiota. Ha poco tempo. A questo punto entra nella sua vita quella che diventerà la sua seconda moglie: Anna Grigor’evna. A lei, stenografa, detterà i suoi libri. La donna s’innamora di lui anche perché nella sua mente Dostoevskij, nella sua famiglia era considerato il miglior letterato del mondo. A una domanda dello scrittore, Anna, che sposerà tre mesi dopo Dostoevskij, risponde senza alcuna esitazione: «Io la amo e l’amerò per sempre».

Nel ’74 Dostoevskij comincia a scrivere L’ Adolescente, che sarà pubblicato l’anno successivo, quando viene eletto nell’Accademia delle Scienze. Accanto a lui ci sono Tolstoj e Turgenev. In quello stesso anno esce I fratelli Karamazov.  Il 9 febbraio 1881, alle 8,30 di sera, Dostoevskij muore di enfisema polmonare. In quello che è oggi il museo Dostoevskij c’è una scatola di tabacco, con una scritta a matita: «Oggi è morto il babbo». Sua figlia Ljubov allora aveva undici anni.

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