Giuliana Vitali
La storia di un'ossessione

La lettera

«Lo dico soprattutto al Prof. Giulio Arrigoni. Lui mi odia. Parla sempre male di me anche con gli altri professori. Dice che i miei occhi sembrano quelli di Satana, troppo neri e spiritati e che gli fa impressione guardarmi...»

Ho deciso di morire. C’ho pensato tante volte prima di farlo veramente. Avevo preparato una lista di come farlo succedere e poi ho pensato che buttarmi giù da qualche parte tipo da un balcone, una finestra era la cosa più facile. Poi mi sono detto di farlo proprio a scuola così tutti lo vedono. E chissà le facce che farete… Le sto immaginando adesso e l’idea mi fa stare bene, la vendetta più bella ma magari mi salvo e riesco a vederle davvero e poi dopo mi direte che sono un bravo ragazzo e che avevate sbagliato a trattarmi male e vi scuserete. Lo dico soprattutto al Prof. Giulio Arrigoni. Lui mi odia. Parla sempre male di me anche con gli altri professori. Dice che i miei occhi sembrano quelli di Satana, troppo neri e spiritati e che gli fa impressione guardarmi. Perciò è per questo che mi mette sempre brutti voti, lo so. Forse è vero che sono posseduto dal male? Perché poi tutti hanno cominciato a guardarmi strano. Allora meglio togliermi da mezzo una volta e per tutte. Comunque mi dispiace solo per i miei genitori che non mi vedranno mai più. Quindi vi chiedo scusa. Addio per sempre. Francesco.

Faticava reggendosi alla sbarra dell’autobus che percorreva la strada dissestata. Dalla borsa di pelle marrone appoggiata per terra in mezzo alle gambe, usciva fuori qualche foglio del compito sulle equazioni algebriche che lui, Giulio Arrigoni, aveva ritirato agli alunni. Urtò la fronte dritta sull’asta di ferro mentre, fermo sulle ginocchia strette, cercava di sistemarli bene, un foglio dentro l’altro, attaccati con una attaches. Il viso arrossato, gocce di sudore gli rigavano gli zigomi ossuti mentre il ferro continuava con quell’insopportabile rumore. Tirava sospiri a singhiozzo. Tornava dalla commemorazione al ragazzino che si era buttato dal terzo piano dell’istituto scolastico; un vecchio edificio con le aule disposte a cerchio con due grandi rampe a chiocciola. Quando quello si era lanciato, il bidello aveva visto tutto: il ragazzo, di spalle, appoggiandosi alla ringhiera curva fece per dondolarsi per poi cadere giù sbattendo la testa sull’ultimo gradino al piano terra. Giulio se ne stava al baretto della scuola, nella pausa tra un’ora e l’altra di lezione, assaporava piano il caffè bollente stringendo la tazzina tra le mani per prendere un po’ di calore. Sentendo quel tonfo, si era voltato con lentezza mentre si tamponava i lati della bocca con il tovagliolo. 

– Signore, si vuol sedere? – fece la donna di fronte allargando la bocca in un sorriso. Aveva i denti tutti uguali e piccoli. Lui la fissò per una manciata di secondi per poi girarsi verso la porta del mezzo e, svelto, uscì. Camminava sul viale dei Parioli che, alla sera, era un via vai di domestiche dai movimenti eleganti e dalle gambe corte; i visi asiatici, spenti dalla fatica e dal sonno. Sperava che Aimi non fosse già uscita, che ancora non avesse finito di sbrigare le faccende domestiche, di preparare la cena che ogni giorno gli lasciava sulla tavola apparecchiata.

Fece per infilare le chiavi nella serratura quando sentì vibrare il telefono nelle tasche. Annoiato rifiutò la chiamata; era la sua collega che di certo voleva sapere come stava, se aveva parlato con i genitori del ragazzo, se gli altri maestri gli avevano mostrato solidarietà. Ma poi perché? Niente aveva fatto. Se ogni scolaretto si dovesse ammazzare per ogni due preso a un’interrogazione… o per una battuta divertente. Quello era solo un moccioso viziato, senza disciplina, senza educazione.

– Aimi, sei a casa? – il grande quadrato dell’ingresso buio, le tapparelle del salone dall’altra parte erano abbassate. Sospirò svogliato. Appendeva il pastrano verde e la cartella alla parete quando il telefono squillò di nuovo. Stavolta era lei, Aimi.

– Pronto? Dimmi.

– Giulio, come ti senti? C’era molta gente alla commemorazione?

– Parecchie persone, poi c’era anche la televisione, un paio di emittenti nazionali. Volevano che gli rilasciassi un’intervista ma mi sono rifiutato. I giornalisti sono fastidiosi, ci vanno a nozze con queste storie.

– Sai… mi è dispiaciuto per quella lettera… domani ci vai funerali, no?

– Sono appena tornato, mi stai facendo troppe domande. Ho la testa che mi scoppia, cazzo.

– Volevo solo essere gentile…

– Mi stai troppo addosso. Lo fai sempre. Sei noiosa!

Attaccò il telefono mentre lei ancora parlava, si era lasciato cadere a peso morto sulla poltrona coperta da un plaid rosso gualcito e prima di cenare afferrò il vecchio libro di poesie appoggiato sul tavolino accanto, come era solito fare appena rientrato a casa, e cominciò a sfogliarlo piano. Le pagine avevano gli angoli piegati, si leccava il dito e le girava da una parte e dall’altra leggendo e rileggendo righe sparpagliate, in modo disordinato; una raccolta che gli avevano pubblicato parecchi anni prima, quando era ancora un giovane studente di lettere e filosofia. Erano versi d’amore, per la timida e spesso impacciata ragazza che poi gli aveva confessato di non amarlo più, di amare invece una donna di molti anni più grande che insegnava greco nello stesso istituto, una col fascino da vecchia Afrodite quasi in pensione. In un giorno di assemblea all’ateneo lui era corso al centro dell’agorà, aveva buttato il suo libro per terra e dopo aver tirato giù i pantaloni ci aveva pisciato sopra. Tutti i ragazzi intorno presero a ridere. Per questo la decisione del senato accademico di espellerlo e così si iscrisse a scienze matematiche.

Ripose il libro sul tavolino e, infilatosi le pantofole, fece per avvicinarsi alla tavola apparecchiata ma gli prese una vertigine così forte da doversi mettere con le spalle al muro. Nella stanza entrava la luce pulsante e arancione del camioncino dei rifiuti e il timpano dell’orecchio cominciò a ronzare al fracasso del cassonetto afferrato dal braccio meccanico. Prese a boccheggiare, cominciò a calmarsi solo quando il mezzo si allontanò. Portò con sé i compiti da correggere mentre masticava grandi pezzi morbidi di lasagna che Aimi aveva preparato per lui, con la stessa avidità in cui mordeva la carne molliccia dei suoi seni prima dell’amplesso. Mentre sottolineava con la penna rossa gli errori di uno dei compiti, proprio all’ultima pagina vide scritto il nome in stampatello di quel ragazzino che si era suicidato. Pensò che era l’ultimo cattivo voto che avrebbe preso e non lo avrebbe saputo mai. Il fatto gli sembrò così grottesco che gli scappò una risatina. Sentendo il palato amaro bevve un sorso di vino rosso e subito dopo decise di andare a coricarsi anche se era ancora molto presto per lui. Era sua abitudine addormentarsi solo dopo i talk show politici in tv. E poi non sognava mai, si risvegliava prima che suonasse la sveglia quando la luce tenue dell’alba macchiata d’arancio pastello sostituiva lo schermo nero degli occhi chiusi. Dovevano essere le tre quando il telefono di casa cominciò a squillare. Di scatto sollevò la testa dal cuscino e acchiappò quasi meccanicamente la cornetta.

– Pronto? Chi è?

– (…)

– Insomma, parla!

– Professore! Sono Francesco.

– Smettetela con questi giochi del cazzo! – fece l’uomo, preso da una vampata di rossore.

– Aspetta! Non mettere giù il telefono. Forse ero davvero il figlio del diavolo. Lo sai? Prima di lanciarmi ogni giorno mi guardavo allo specchio della mia cameretta fino a quando sono riuscito a vedere quelle ombre nere di cui mi parlavi. Lo spirito maligno che abitava nei miei occhi.

– Cristo, ma era un gioco!

– Ma come, Giulio? Che cos’è questa vocina piagnucolosa? Non preoccuparti che qui dove sono non posso farti del male. Sei spaventato? Non devi. Solo una chiacchierata ogni tanto… Sai, mi sento solo. Qui è tutto buio.

– In classe vi prenderò a uno a uno e guai a voi se non mi dite chi ha pensato a questo scherzo idiota! Vi farò vedere io… chi ne ha colpa la pagherà cara.

– Colpa? Io la mia l’ho pagata. E tu?

Sentì mettere giù la cornetta e poi solo un leggero fruscio nel telefono.

Ingollò l’intera bottiglietta d’acqua che era sul comodino. Gli occhi umidi si facevano pesanti. Sembrò perdere conoscenza. Si risvegliò che aveva la fronte e il collo imperlati di sudore. Non si infilò nemmeno le pantofole e corse verso lo scrittoio iniziando a scrivere su un foglio che aveva strappato in malo modo dal quaderno. Buttò un’occhiata alla finestra mentre una lieve pioggia cominciava a inumidire l’aria. Passarono alcuni minuti e lo scroscio dell’acqua che colpiva la strada si faceva sempre più rumoroso e i tuoni lontani allertavano dell’imminente arrivo del temporale.

Incrociò Aimi per le scale mentre cercava di sfilare la fodera dell’ombrello, le fece un cenno col capo senza fermarsi, stava facendo tardi e avrebbe perso l’autobus delle dieci.

Tutti volti solenni intorno all’auto funebre che stava davanti alla chiesa mentre la bara bianca era già sulle spalle di due uomini che camminavano sicuri con gli occhi dritti verso il fondo della cappella. Lui fu l’ultimo a entrare e a prendere posto sulla panca dell’ultima fila. Qualcuno si voltò, vide che i genitori del ragazzino farfugliarono tra loro. Il brusio intorno si zittì quando il prete fece il suo ingresso sull’altare, maestoso nel piviale viola e col velo che scendeva pesante a metà della schiena.

– Pregate tutti per il piccolo Francesco che se ne è andato lasciando la famiglia nel dolore – diceva, con le braccia strette ai fianchi e le mani inanellate. Giulio alzò subito lo sguardo sul prete mentre quello continuava:

– Un tragico gesto ma i bambini meritano la misericordia di nostro Signore e il perdono dei genitori e dei suoi cari. Ora, fratelli e sorelle, non disperate e siate felici perché adesso Dio ha un altro angelo accanto a sé, nel Paradiso eterno e per cui tutti diverremo immortali, senza peccato né più colpe. Egli è vivo, la sua anima è energia viva e sempre presente per chi lo ha amato.

Tutte stronzate, pensava Giulio, e poi perché continua a fissarmi? Come se fossi io l’unico colpevole e tutto per quella maledetta lettera del cazzo scritta da un ragazzino arrabbiato. Ma io che ci posso fare? Cosa volete da me? Smettetela di guardarmi tutti!

Avrebbe voluto prendere la lettera, fermarsi al centro dell’altare, davanti a quel pubblico giudicante come fece quella volta col suo libro all’università; cancellare quello che era successo, fare tabula rasa e ricominciare da zero. Si strofinava le guance con il palmo delle mani, si accorse che piangeva. La bara era pronta per l’ultima marcia verso il cimitero dei bambini di Prima Porta e tutti si alzarono per accompagnarla, il calpestio dei tacchi si faceva chiassoso. Le facce sfilavano meste verso l’uscita, verso Giulio e gli occhi delle persone gli apparivano quasi diabolici sui lineamenti flaccidi dei vecchi col cappello, sulle mascelle spigolose degli studenti che accennavano risatine beffarde.

Era rimasto solo e doveva essere passato parecchio tempo. Guardò fuori coi piedi fermi sull’uscio mentre grandinava e il rumore ormai era diventato assordante. Le pietruzze di grandine coprivano i tetti dei palazzi novecenteschi di fronte, la via principale era vuota con il manto stradale da poco asfaltato, le macchine parcheggiate non si distinguevano più in quella nebbia di ghiaccio. Aprì l’ombrello e si avviò verso la stradina che portava allo stazionamento degli autobus. Ma il ronzio metallico di quello che doveva essere un vecchio scooter cominciava a farsi sempre più chiaro fino a che gli si era piazzato davanti, sbarrandogli la strada. Ebbe un sussulto, tirò la mano in avanti come per istinto. Due uomini gli intimarono a gran voce di dargli tutti i soldi che aveva e la borsa, quella pareva avere un certo valore. Le facce si confondevano all’aria cerulea, forse portavano delle sciarpe nere sulla bocca. Gridava loro di andarsene, di togliersi da mezzo ma appena vide che uno di loro fece per scendere dal motorino, si girò per fuggire ma quello subito lo colpì alla schiena con un calcio buttandolo a terra. Continuava a scuoterlo sferrando pugni sordi sulla bocca e sul naso, gli sussurrava lentamente all’orecchio che nessuno poteva parlargli a quel modo. La voce bloccata in gola, non riusciva a gridare aiuto, sentiva la grandine bruciare sugli occhi gonfi, sulle guance insanguinate. Cercava di divincolarsi rotolando prima su un lato e poi sull’altro, boccheggiando, ma ogni volta sentiva i calci nello stomaco, sulla testa fino a quando lo colpì per l’ultima volta sul timpano di un orecchio e così perse i sensi.

Il cielo adesso si era quietato, si colorava di una luce fiammeggiante mentre il telefono nella tasca fradicia squillava a vuoto. Intorno a lui, il gran vociare della gente che si era accalcata, le sirene dell’ambulanza erano vicine. Cercava di alzare le palpebre viola, incrostate di sangue.

– Come si chiama? Se lo ricorda? – fece una ragazza.

– Giulio… Arrigoni – disse a fatica, balbettando.

– Chi è stato? Chi le ha fatto questo? – proseguì la donna con una certa agitazione.

– Lui, è stato lui… è stato Francesco.

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