Raoul Precht
Periscopio (globale)

Karinthy, il solitario

Amato da Emmanuel Carrère, lo scrittore ungherese Ferenc Karinthy è da rileggere per come ha saputo raccontare l'irruzione dell'ignoto nella nostra vita quotidiana. Come succede al protagonista di “Epepe”, un esperto di lingue che si trova casualmente in un mondo sconosciuto

Trattandosi di uno scrittore poco noto (e poco tradotto), all’opera di Ferenc Karinthy si arriva, per così dire, per vie traverse o interposto scrittore. Nel mio caso la via traversa è la nota di Emmanuel Carrère che figura anche come prefazione all’edizione italiana (Adelphi, 2015) del romanzo più famoso di Karinthy, Epepe. Dico “anche” perché in origine quello di Carrère è un breve saggio, fin troppo encomiastico, apparso nella raccolta Il est avantageux d’avoir où aller (in italiano Propizio è avere ove recarsi, sempre Adelphi), al quale fa da pendant, nel medesimo libro, un’altra cronaca, stavolta sulle vicende di un soldato ungherese che alla fine della seconda guerra mondiale resta bloccato per quasi cinquant’anni in un ospedale psichiatrico russo, senza parlare una sola parola della lingua né fare alcuno sforzo per apprenderla, e senza che nessuno capisca quello che dice. In uno stato, quindi, di isolamento totale.

Questo stesso isolamento totale permea le duecentocinquanta pagine del romanzo di Karinthy, scritto già nel 1970, ma che avrà una risonanza internazionale solo molto più tardi, grazie alle traduzioni francese e inglese uscite rispettivamente nel 1999 e 2008. Come ricorda Carrère, non potrebbe esserci personaggio, in linea di principio, più antitetico al soldato ungherese di cui parlavamo del protagonista di questo libro, un linguista di spicco in viaggio verso Helsinki, dove deve partecipare a un convegno internazionale: uno che conosce decine di lingue in modo approfondito, e cioè non sa solo parlarle o scriverle ma ne sa analizzare con grande perizia morfologia, grammatica e costruzioni sintattiche. All’apparenza Budai, questo il nome del linguista, con il soldato ha quindi in comune solo la nazionalità ungherese e la madrelingua di partenza; ci vorrebbe davvero uno scivolamento nell’assurdo, un azzardo del destino, per farlo ritrovare in una condizione analoga. Ed è questo azzardo che il romanzo, appunto, postula.

In volo per Helsinki, complice la stanchezza, al momento di cambiare aereo in uno scalo non meglio specificato il nostro protagonista si sbaglia, o viene mal istradato dal personale dell’aeroporto, e al suo arrivo si ritrova non alla destinazione finale prevista, ma in un luogo del tutto sconosciuto. Fin dall’inizio Karinthy, giustamente preoccupato della verosimiglianza della sua storia, accumula dettagli significativi: il nostro eroe dorme per quasi tutto il viaggio, non dispone di un orologio e quindi non saprebbe dire a posteriori per quante ore abbia volato; il bagaglio naturalmente nella confusione va perso e una volta sceso dall’aereo Budai scopre di avere con sé unicamente una borsa personale; all’arrivo all’albergo – e poi anche in seguito – il nostro eroe si ritrova sempre intrappolato in mezzo a una folla urlante, impaziente e inferocita, che rende ancor più risibili i suoi già vani tentativi di farsi capire. Il passaporto gli viene ritirato, come avviene spesso negli alberghi, per la trascrizione dei dati, ma non gli sarà mai restituito, e lui non saprà chiederne conto; non disponendo più nemmeno del biglietto aereo, che qualcuno deve avergli ritirato o che è andato smarrito, Budai perde qualunque menzione ufficiale della propria identità, di cui col tempo gli diventerà lecito persino dubitare; quanto al lato finanziario, un assegno in dollari gli viene cambiato per un equivoco nella sconosciuta e inconoscibile valuta locale, e una volta esaurito il fascio di banconote Budai non saprà come fare per ottenerne altre. E così via. Karinthy lancia quindi una sfida al lettore: cosa faresti tu, lettore, in una condizione simile? E, dispiegando tutte le armi della fantasia, induce il suo linguista a fare letteralmente tutto il possibile per tentare di districarsene, anche se fin dal principio intuiamo che i suoi tentativi andranno a vuoto e che non riuscirà mai, per quanto si sforzi, a sbloccare la situazione. Scopriremo poi che nessuno degli elementi che ci consentono di orientarci nella vita gli sarà di qualche ausilio: non la certosina analisi linguistica cui Budai sottopone il giornale e le piantine della metropolitana senza cavarne però nulla, nemmeno un’ipotesi sull’alfabeto del posto; non la meteorologia: il tempo è stabilmente grigio, e sempre uguale; non la topografia: impossibile rintracciare nella labirintica, impenetrabile città alcun punto di riferimento, tanto che Budai non riesce a trovare nemmeno una stazione ferroviaria, per non parlare dell’aeroporto in cui pure all’inizio è sbarcato e che quindi deve esistere; e men che mai gli esseri umani, le cui fisionomie sono talmente varie da rappresentare tutte le possibili origini e provenienze (e non gli danno quindi alcun indizio valido) e che in ogni caso si rivelano sempre ostili e alieni da ogni forma di comunicazione. Con l’unica eccezione, forse, della bionda ascensorista dell’albergo di cui Budai s’invaghisce, tentando d’istituire, con fugaci quanto clandestini incontri al diciottesimo piano, almeno un minimo di rapporto erotico, che finirà tuttavia anch’esso frustrato. (Del resto, neanche il nome della bella è certo: sembra Epepe, ma potrebbe essere, e in altri punti del romanzo lo diventa, anche Pepep o Ebebe o Debebe, perché tutto, in quest’universo, anche le combinazioni di vocali e consonanti, è un’approssimazione.) Budai, tuttavia, non perde la speranza; resta convinto che, a condizione di poter davvero analizzare tutto, “qualcosa sarebbe per forza venuto fuori, proprio come una somma in fondo a una lunga colonna di numeri”.

Se è vero che la speranza è letteralmente l’ultima a morire, il disorientamento resta tuttavia totale; è anzitutto linguistico, ma anche storico o temporale (un viaggio nel tempo non sarebbe forse ipotizzabile?), e naturalmente geografico o spaziale, tanto che a un certo punto Budai si chiede addirittura se non sia finito su un altro pianeta. Ed è aggravato dalla nostalgia: per la patria, l’Ungheria, per gli affetti familiari, per tutto quello che ci consente di vivere pienamente dandoci un’individualità e un’identità. Da questo universo chiuso e carcerario non si può uscire, e ovviamente, per molti versi, le sue caratteristiche ricordano quelle dei peggiori totalitarismi del Novecento – non a caso, una delle peculiarità della città sconosciuta è il dover fare la fila per qualunque cosa, come accadeva nei paesi comunisti; e sempre non a caso, pur nella sua totale incapacità di comprendere l’universo nel quale è finito, Budai finisce per ritrovarsi coinvolto niente meno che in una sollevazione popolare, che naturalmente non avrà (neanch’essa) alcuna ripercussione sulla sua sorte.

Per quanti riferimenti si possano fare a Kafka, a Orwell, a Borges e ad altri autori del passato, o addirittura, per i cinefili, a Metropolis (pare che il titolo inglese del libro, Metropole, sia un omaggio a Lang) o a film come The Groundhog Day o Edge of Tomorrow, dove i protagonisti sono condannati a rivivere in un circolo vizioso sempre la stessa giornata, Epepe è un romanzo unico e davvero sui generis, imperniato non tanto e non solo sull’impossibilità di sfuggire a un destino dato, ma anche e soprattutto sulla crescente incomunicabilità e sul disprezzo per gli altri, in particolare se diversi, e per le loro esigenze. Non è forse del tutto casuale che Karinthy l’abbia scritto al ritorno da un viaggio in Giappone, paese che per noi europei è e resta eminentemente esotico e nel quale espressioni e comportamenti umani spesso sfidano la nostra comprensione.

Intendiamoci: nel testo non mancano i difetti, talvolta l’idea di partenza stenta a sostenere la lunghezza che al romanzo è stata imposta dall’autore, e la trama di tanto in tanto si riavvita su se stessa per mancanza di episodi forti che possano alimentarla. Nell’insieme, tuttavia, l’esperimento tentato da Karinthy ha del prodigioso, così come la sua capacità di mantenere desta, malgrado tutto, l’attenzione del lettore continuando ad alzare l’asticella, con la povera cavia, Budai, sottoposta a prove di crescente difficoltà, e non solo d’ordine linguistico.

Nato a Budapest esattamente cent’anni fa, il 2 giugno 1921, e morto nella stessa città il 29 febbraio 1992, Karinthy studia linguistica e letteratura italiana all’università ed entra contemporaneamente nella nazionale di pallanuoto. La sua gioventù, come quella di tanti autori a lui contemporanei, viene interrotta e segnata dalle vicende storiche e in particolare dalla guerra (la madre, di origine ebraica, sarà deportata e morirà ad Auschwitz). Nel dopoguerra, dopo un soggiorno di sei mesi a Roma nel 1949 e un altro a Parigi, pubblica un romanzo di notevole successo, Primavera a Budapest, da cui il regista Félix Máriássi trarrà un fortunato film; in politica, aderisce al Partito comunista, ma se ne separa già un paio d’anni prima dei fatti d’Ungheria del 1956, raffigurati nel romanzo Autunno a Budapest, rifiutando in seguito qualunque coinvolgimento politico. Sceglie piuttosto di concentrarsi sulla letteratura, scrivendo romanzi e racconti, traducendo, animando quiz culturali alla televisione ungherese e lavorando anche come drammaturgo per diversi teatri della capitale e della provincia. Un teatro a lui dedicato e fondato nel 1988, il Karinthy Színház, è stato diretto per molti anni dal figlio Márton.

Tempi felici, l’altro libro di Karinthy pubblicato in italiano, con la sua leggerezza e spensieratezza ricorda, più ancora che il Girotondo schnitzleriano a cui allude la quarta di copertina, certe commedie di Lubitsch in cui si richiede allo spettatore di sospendere il giudizio e di lasciarsi gioiosamente trasportare dall’inverosimile. Qui, tutto ruota intorno alle improbabili avventure amorose di un giovane ebreo, Józsi Beregi, il quale tra il dicembre del 1944 e il gennaio del 1945 riesce a sfuggire tanto alla pressione crescente dell’assedio sovietico di Budapest quanto al terrore seminato ovunque, in città, dalle filonaziste Croci frecciate, che vi fanno ancora, seppur per poco, il bello e il cattivo tempo, rastrellando e uccidendo tutti gli ebrei che riescono a trovare. E sfugge agli ingranaggi della storia anzitutto mentalmente, scegliendo di ignorare quanto gli accade intorno e di concentrarsi completamente su reminiscenze calcistiche e soprattutto sulle sue conquiste erotiche, e finendo per essere, da tutti e soprattutto da tutte – una prostituta, la moglie e la figlia adolescente di un colonnello e perfino una miliziana fascista – favorito e protetto. In questo testo, scritto nel 1972 e da leggersi probabilmente anche come un velato omaggio, Karinthy si dimostra figlio di cotanto padre, di quel Frigyes Karinthy che con il suo elegante umorismo tanto aveva contribuito in Ungheria alla letteratura leggera degli anni Venti e Trenta.

Uno scrittore, insomma, che sa muoversi con abilità su registri molto diversi fra loro, centrando il bersaglio con apparente facilità, e che con fare ludico e ironico, e anche un po’ sornione, ci ha lasciato in eredità la cronaca di un incubo al quale non si sfugge. O forse, l’anticamera dell’inferno d’incomunicabilità e frustrazione che attende al varco tutti noi peccatori.

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