Lidia Lombardi
Una biografia controcorrente

Claretta senza aura

Si legge come un romanzo il documentato libro di Mirella Serri dedicato alla favorita di Mussolini, una cinica calcolatrice, mai sazia di privilegi. Santificata, per convenienza, sia dai fascisti nostalgici che dalla sinistra, rubava soldi agli ebrei per salvacondotti fasulli e collaborava con i nazisti

Claretta Petacci, la favorita di Mussolini, ebbe tre vite. Giovane e sensuale amante del Duce dal ’32 al ’42; consigliera politica di “Ben” e intermediaria tra il dittatore italiano e Hitler durante la Repubblica Sociale Italiana; “povera donna” innamorata che morì per difendere il suo uomo nel ritratto postumo, a partire dal dopoguerra. È la parabola tracciata da Mirella Serri, storica e giornalista, in Claretta l’hitleriana (Longanesi, 297 pagine, 19 euro) che chiarisce il senso della ricerca nel provocatorio sottotitolo “Storia della donna che non morì per amore di Mussolini”.

E infatti il libro di Serri demolisce tanti luoghi comuni attorno alla ragazza – seno florido e belle gambe – che incontrò il Duce sulla strada per Ostia nel 1932, lei ventenne in automobile con i parenti, lui a ridosso dei cinquant’anni condotto dall’autista nella passeggiata verso il mare. Claretta non fu – spiega Serri (nella foto sotto) – la devota ancella del capo del fascismo. Piuttosto una cinica calcolatrice, capace di costruire la ventennale relazione con un preciso scopo: ottenere privilegi per sé e per la sua famiglia. Senza farsi scrupolo di intrighi e nefandezze: la più infamante, estorcere, in combutta con il fratello Marcello, soldi agli ebrei per procurare loro salvacondotti fasulli, lei che fu antisemita della prima ora.

Una biografia controcorrente percorre le documentate pagine, che si leggono per piacevolezza di scrittura anche come un romanzo, ancorché i fatti raccontati siano tutti veri. E un affresco del regime che fa entrare in scena tutti i comprimari, definendone ruolo e carattere. Dal sottosegretario e poi ministro dell’Interno, Buffarini Guidi – fedele alleato di Clarice (il nome di battesimo di Claretta) – a Rahn, il nazista potentissimo manovratore dello Stato fantoccio di Salò; da Arturo Bocchini, il capo della polizia fascista, a Edda e Galeazzo Ciano, la figlia e il genero di Mussolini. E via elencando, in una precisa entrata in scena di tanti tronfi personaggi, sopportati dalla gran massa degli italiani, che si accontentavano di irriderli nelle canzonette (Buffarini Guidi era “Bombolo”, Costanzo Ciano, suocero di Edda, il “Maramao perché sei morto?”).

Una grossa fonte per il volume è la corrispondenza di Claretta con il Duce. Documenti dalla donna conservati scrupolosamente, perfino le lettere scambiate a Salò sulle quali “Ben” vergava il disatteso ordine “Distruggere”. Sono state desecretate, insieme con i Diari della ammaliatrice, recentemente, orientando in modo nuovo la storiografia. Non li conosceva infatti il maggior studioso di Mussolini, Renzo De Felice, che accreditò l’idea benevola di una Petacci fedele e stregata dall’uomo di Predappio. Lo stesso De Felice ritenne che il legame erotico tra i due cominciasse non subito dopo il primo fortuito incontro, ma soltanto nel 1936, quando lei divenne presenza quotidiana nell’appartamento Cybo. È invece ormai chiaro che Claretta fin dalla prima “convocazione” del dittatore a Palazzo Venezia (appunto nel ’32), si portò nella borsetta le carte per chiedere raccomandazioni. In quel caso, un intervento a favore del padre, il professor Francesco Saverio Petacci, impelagato in una causa contro la clinica nella quale aveva lavorato. Mussolini non s’immischiò nella vicenda giudiziaria, ma cominciò a elargire favori: una collaborazione di Petacci senior al Messaggero (articoli che esaltavano la razza italiana condannando altresì i matrimoni tra ariani ed ebrei), la carica di ufficiale medico e poi di docente universitario per il fratello Marcello, l’aumento di stipendio per Riccardo Federici, che la Petacci sposò per coprire la relazione con il Duce e dal quale poi divorziò; i contratti cinematografici per la sorella minore Myriam, spesso introdotta presso Mussolini e considerata uno dei vertici di un triangolo erotico che assai piaceva al tombeur de femmes di Palazzo Venezia, particolarmente attratto dalle giovanette. 

La ventenne Claretta spingeva poi per diventare informatrice del regime, lautamente pagata. Come tutte le amanti del capo del Governo riceveva mensilmente denari, ma i pagamenti per lo shopping in via Condotti con la madre Giuseppina e con Myriam (dietro le vetrine di Bulgari, Montorsi, Gabriella Sport) venivano girati al compiacente ministro Buffarini Guidi. Per non parlare della principesca villa alla Camilluccia, la malversazione più odiosa: il terreno era stato sottratto all’Opera Nazionale Balilla e per le spese faraoniche di costruzione, arredi e decorazioni, i Petacci non tirarono fuori una lira. C’è una bella pagina che sintetizza come sineddoche il ben di Dio che Claretta infilò frettolosamente nei bauli quando con il suo clan le toccò, dopo il Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio, di lasciare la residenza: a parte anelli e spille preziose infilate in un sacchetto di seta blu, «ammonticchiò piatti, alzatine per la frutta, guantiere intarsiate, mazzetti di lire tenute insieme dalla fascetta bianca, le volpi argentate, il castoro, l’ermellino bianco, sottovesti di pizzo… una cinquantina di paia di scarpe di Ferragamo… la biancheria intima con applicazioni ricamate, bordi di cigno e molti profumi non autarchici, tra cui Chanel N. 5Arpège di Lanvin…». La villa fu assaltata subito dopo la fuga dei Petacci, (che poi finirono in carcere a Novara). «Il giorno dopo Il Messaggero descrisse scandalizzato il tenore di vita dei Petacci. Mentre in Italia si moriva di fame erano stati trovati settanta abiti da sera, duecento paia di scarpe e varie pellicce». 

Del resto Claretta era la perfetta incarnazione di quei fascisti rampanti che costituiscono una nuova classe, anzi una “casta”, termine proprio allora coniato per quanti – gerarchi, ministri, funzionari di partito, podestà, federali, deputati – vivevano di privilegi, dagli inviti al Teatro dell’Opera agli appartamenti, alle prebende, agli chauffeur, alle poltrone ben remunerate. Nessuno era esente dalla corruzione ai piani alti dello Stato fascista, pure nato come “moralizzatore”. E qui Serri smonta l’altra vulgata sul capo del fascismo, l’onestà sbandierata a iosa. Arnaldo, il fratello di Mussolini, è il destinatario di una tangente da trenta milioni pagata dalla Sinclair Oil per l’estrazione dell’italico petrolio; donna Rachele fa affari con Dario Pater, lo svizzero inventore di un materiale edile di facile utilizzo, quel populit con il quale in quattro e quattr’otto si tiravano su casette – a Ostia, ad Acilia, a Riccione; per non dire del milione di lire che nel 1938 il Senato stanzia per “Ben” senza indicarne la causale.

Ma torniamo alla “seconda vita” di Claretta. A Salò sposa la causa del Reich, diventa punto di riferimento di Rahn feroce persecutore di ebrei e antifascisti, tenta l’approccio diretto con Hitler. «Vado io a Berlino al tuo posto», suggerisce a Mussolini esplicitando la collaborazione con i nazisti che pure avevano invaso l’Italia. Nella Repubblica fantoccio spera di ritagliarsi un ruolo predominante che le garantisca un futuro, mentre tutta la famiglia è fuggita in Spagna. Alle costole di un Mussolini depresso e malato mette spie, un’abitudine radicata perché già negli anni felici dell’idillio aveva trasformato Luciano Antonetti da guardaspalle a informatore e lo stesso i Petacci fecero con un altro ambiguo personaggio, Enzo Attioli. «Tu sei odiata al pari di me e forse più di me. Io non ti ho mai parlato delle lettere anonime che ricevo e che vengono da ogni parte, specie da quando sei qui e la cosa è oramai nota in tutta Italia», la avverte in una missiva Mussolini. Perché allora, dopo morta, Claretta viene spacciata come una sorta di martire, che si sarebbe frapposta con il suo corpo ai colpi sparati dai partigiani Audisio, Lampredi e Moretti contro Mussolini e avrebbe così trovato la propria fine? Non furono solo i nostalgici fascisti a crearle l’aura di vittima innocente. Fu la stessa sinistra, avverte l’autrice, ad avvalorare la tesi. Meglio, per il giudizio politico e storico, una Petacci che aveva scelto di morire accanto al suo uomo che una Petacci eliminata brutalmente senza chiarire i motivi dell’esecuzione. Perfino Sandro Pertini, il partigiano diventato presidente della Repubblica, sostenne nel 1983 che «la sua unica colpa era quella di aver amato un uomo».

Un conformismo politico interessato e anche, suggerisce la Serri, ennesima prova di un maschilismo che distorce i fatti. Petacci donna indifesa, un po’ folle, fanatica esaltata, bella e invaghita del despota fino alle estreme conseguenze: si tratta di una “Storia scritta dagli uomini”. Piuttosto la si giudichi per il vero ruolo politico da lei giocato, per la persecuzione degli ebrei e per gli intrighi colpevoli, giunti fino alla diffusione delle informazioni riservate delle quali era depositaria, e dunque fino al tradimento della Patria. Avrebbe dovuto essere sottoposta a processo invece che all’onta di Piazzale Loreto. Per essere inchiodata alle sue responsabilità e diventare «l’emblema al femminile del volto buio e oscuro del secolo passato». 

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