Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Superlega svanita

Sono bastate quarantotto ore a far sgonfiare il progetto di un calcio dei ricchi alle spalle di quello dei poveri. Un trucco (non solo contabile) per sanare i bilanci in rosso cronico dei club più potenti d'Europa. Ma ci riproveranno, questo è sicuro

Era già scritto. E da un pezzo. Che il calcio avido dei club più ricchi e indebitati non fosse sazio e volesse molto ma molto di più: la Superlega, un club superesclusivo. Meno previsto era che la cosa si sgonfiasse miseramente nel giro di 48 ore. Svanita, evaporata, scusate, ci siamo sbagliati. Si sono defilate le squadre inglesi, impressionate, come altri club spagnoli e italiani, anche dalle proteste dei tifosi (il proprietario del Liverpool, un imprenditore americano, ha chiesto loro scusa), dalla contrarietà di un po’ di calciatori e allenatori, spaventati dal muro della politica e dal rifiuto dell’opinione pubblica. Anche l’Inter s’è fermata. Anche la Juve si è arresa nonostante Andrea Agnelli – si dimetterà, verrà cacciato a Torino? – continui a dire che ci riproveranno perché tra i club “rivoltosi” «c’è un patto di sangue» ma anche che il cosiddetto progetto non si ferma: lo ha detto a Repubblica, il suo giornale. Per ora l’assalto è stato fermato, il fronte Superlega si sta sfaldando. Ma i problemi restano tutti. Molte società blasonate, a cominciare dalle nostre, sono con l’acqua alla gola. Non finirà qui e chissà a quanti altri colpi di scena ci toccherà assistere. Ci saranno trattative e compromessi come sempre accade.

Sono, questi signori della Superlega, come Erisittone. Chi è Erisittone, direte? E in quale squadra gioca? Anche il computer mi sottolinea in rosso la parola Erisittone ed anche io, per rinfrescarmi la memoria (ricordavo solo uno che era sempre affamato), ho dovuto consultare qualche volume per ravvivare studi troppo lontani. No, Erisìttone (e non Erisittòne) non gioca da nessuna parte ma era un tipo insoddisfatto: i miti della Grecia antica lo descrivono come un principe tessalo che si mise contro Demetra e quella, che aveva un bel caratterino, lo condannò ad avere sempre fame. Più il nostro  mangiava e più voleva ingurgitare altro cibo, fino a vendere sua figlia, fino a mangiare le sue stesse carni. Dante, che lesse Ovidio, lo chiamò Eresitone e lo mise tra i golosi del Purgatorio. Chissà dove avrebbe collocato Andrea Agnelli.

Una montagna di buffi, una crisi che ha origini lontane, certo aggravata dalla pandemia, dagli stadi vuoti, ma soprattutto da spese folli precedenti il morbo: questo è il panorama del calcio europeo. 4,6 miliardi di euro i debiti accumulati solo dalla Premier League; la nostra Serie A nella stagione 2019-2020 «ha registrato una perdita aggregata di 754 milioni, con il fatturato crollato a 2,2 miliardi dai 2,7 della stagione precedente. I debiti sfiorano quota 2,8 miliardi…» ha scritto Alessandro Gozzini sulla Gazzetta. Superbi e disperati, gli autori del “golpe” cercano in ogni modo di accaparrarsi altri soldi facendo saltare il tavolo del calcio, quello che finora abbiamo conosciuto con tutte le sue tradizioni, le sue bellezze, le sue aberrazioni, i suoi scandali continui, le sue leggende.

Perez, Agnelli e Glazer, proprietario del Manchester United, avevano deciso di formare una Superlega del calcio europeo, farsi un torneo tra le squadre più forti economicamente del continente: 15 squadre, sempre le stesse, altre 5 promosse, diciamo così, dal campo. 12 club avevano firmato la scissione ed avevano aderito fino a ieri al progetto: (6 inglesi: Manchester United e Manchester City, Liverpool, Chelsea, Arsenal, Tottenham; 3 spagnoli (Real e Atletico Madrid, Barcellona), 3 italiani (Juventus, Inter e Milan). Il modello resta quello degli sport professionistici statunitensi, un mondo lontano anni luce dalla nostra cultura sportiva anche perché da quelle parti lo sport si pratica bene a scuola e nelle università, a cominciare dal basket della Nba. Ma anche  quello della Eurolega del basket. La Superlega, ora abortita, avrebbe oscurato  la Champions League, facendola diventare un torneo di serie B, avrebbe ridicolizzato la Serie A e gli altri campionati, a cominciare dalla Premier. Tedeschi e francesi hanno detto di no (ma i tedeschi hanno un sistema eccellente per sostenersi). I ribelli avrebbero voluto continuare a giocare nei rispettivi campionati e scontrarsi tra di loro a metà settimana nella Superlega che avrebbe consentito loro di spartirsi una torta di 10 miliardi di euro all’anno, 3,5 miliardi da distribuire tra i club fondatori e premi annuali da 55 a 250 milioni per società. A sganciare tutti questi quattrini, vari sponsor e la banca americana JP Morgan.

Claudio Ranieri vincitore con il Leicester

E’ ovvio che questa filosofia è lo sgretolarsi dell’idea stessa dello sport, per quello che ancora ne resta, della competizione su un campo d’erba dove persino il piccolo Cagliari di Gigi Riva o lo sconosciuto Leicester di Claudio Ranieri potevano andare a vincere uno scudetto e partecipare ai tornei internazionali più importanti. Una partita di calcio mortificata dal listino prezzi e dal fixing. Un bel romanzo popolare buttato al macero.

Ma sarebbe ipocrita pensare che la Superlega sia stato un meteorite caduto all’improvviso su un campo con l’erba ben pettinata e verde. Da decenni  le società finanziariamente più forti dettano legge sia imponendosi con i risultati e le vittorie, sia cambiando le regole scritte, sostenuti e coperti dagli organismi principali del governo del pallone, l’Uefa e la Fifa.

Quella Fifa (la federazione mondiale del calcio) e quella Uefa (la federazione europea) che fanno le vergini immacolate e si ergono a defensor fidei, promettendo sanzioni durissime: niente campionati nazionali e coppe per i club scissionisti, niente maglie delle nazionali per i calciatori degli stessi club, minacce di maxi-cause da 60 miliardi. Ovviamente adesso riaccolgono a braccia aperte i figliol prodighi pentiti.

Questi di Uefa e Fifa, vecchi e nuovi personaggi, sono quelli che hanno affidato al Qatar i Mondiali del 1922 e che hanno chiuso gli occhi e aperto le borse, facendo  finta di non conoscere il livello dei diritti umani da quelle parti e rifiutando qualsiasi parola di condanna sugli “schiavi” che stanno costruendo stadi a Doha e altrove per quella kermesse. Ci sono pile di denunce di Amnesty International sulle sofferenze, le morti dei lavoratori, sullo sfruttamento bestiale di quella gente: respinte con un linguaggio diplomatico arrogante. Uefa e Fifa recitano la parte dei “buoni”, si aggrappano alle tradizioni, ai tifosi, allo sport più popolare al mondo. I “cattivi” sono, anzi erano, quelli della Superlega. Questi che ora si appellano all’etica sono quelli che hanno assistito senza batter ciglio a spese dissennate, sono quelli, da Blatter a Infantino, da Platini a Ceferin, che hanno fatto saltare qualsiasi tetto economico, assistendo impotenti e complici all’aggiramento del fair play finanziario.

Da Macron a Johnson, da Letta a Draghi, i politici di mezza Europa hanno bocciato l’idea della Superlega e questo evidentemente ha avuto il suo peso nella frenata del progetto. I giornali inglesi hanno chiamato questo colpo di mano un “atto criminale”. “La guerre des riches” titolava l’Equipe, il prestigiosoquotidiano sportivo francese. E a me torna in mente, invece, lo striscione esposto qualche tempo fa in uno stadio di Tunisi in occasione di una partita amichevole del Club Africain contro il Paris Saint Germain degli sceicchi arabi: “Created by the poor, stolen by the rich”. Sì, il sogno dei poveri è stato rubato dai ricchi. Il calcio è stato trasformato dalla finanza globale che non ammette passioni e conosce soltanto i bilanci e i giochi in Borsa. I ricchi si sono indebitati sempre di più anche per pagare ingaggi favolosi ai calciatori. Il Covid ha costretto però i bari a scoprirsi. E’ un mondo di rapaci, famelico.

Ha scritto la felpata Gazzetta dello Sport, che ha accolto spesso morbidamente le operazioni di mercato più disinvolte: «Anche i nostri club più vincenti e prestigiosi però devono pensare che non si può tirare troppo la corda. Soprattutto quando sono note in seno alle istituzioni certe particolari situazioni finanziarie. Quelle che costringono ad esempio la Juventus a plusvalenze tanto esagerate quanto necessarie per far quadrare i bilanci. Con centinaia di milioni virtuali, ma solo pochi reali che entrano in cassa. O quelle riguardanti gli stipendi arretrati nell’Inter, con il club alla ricerca di altri complicati accordi con i dipendenti e le istituzioni per dilazionare al prossimo anno queste mensilità o addirittura, si sussurra, chiedere di rinunciare ai premi e parte degli emolumenti. Che strano il calcio italiano, dove c’è chi paga puntualmente e rischia di retrocedere, come il Parma, e c’è chi sta per vincere uno scudetto ma non chiude i conti alla fine del mese». La firma è del vicedirettore Andrea Di Caro.

Il famoso gol di mano di Messi

Ma non sono soltanto le società italiane le più indebitate. Il Barcellona, ad esempio, ha il piatto che piange: d’altro canto, per pagare Messi c’è bisogno di una borsa straripante. Florentino Peres, presidente del Real Madrid e al vertice del club degli scissionisti, ha detto che il “suo” Real ha perso ultimamente 400 milioni di euro, aggiungendo che la Superlega salverà il calcio perché il calcio sta perdendo appeal al punto che le giovani generazioni non apprezzano più certe partite mediocri e si rivolgono ad altre piattaforme: «I club importanti di Inghilterra, Spagna e Italia devono trovare una soluzione alla brutta realtà che sta vivendo il calcio. L’Eca (l’organismo che raggruppa i club europei, di cui Agnelli era presidente e da cui si è dimesso dopo il clamoroso annuncio ndr) stima 5 miliardi di perdite del calcio. Il virus ha amplificato tutto. Solo il Real Madrid ha perso 400 milioni. I problemi sono quando non ci sono entrate, in questo caso la soluzione è fare partite più interessanti e che intrattengano di più. Siamo arrivati alla soluzione che, se invece di fare la Champions, facciamo una Superlega, saremmo capaci di recuperare le entrate che abbiamo perso…». Per poi lusingare altre società italiane: «Anche Napoli e Roma potranno entrare nella Superlega, magari non subito ma tra un anno…» (queste dichiarazioni sono state tratte da un programma tv spagnolo El Chiringuito e riprese dal sito di Gianluca Di Marzio, giornalista di Sky). Poi il dietrofront, il flop, il fallimento del piano. Per ora.

Il calcio è come la vecchia rana che si gonfia e poi scoppia. Come scoppiano i calendari, i calciatori, i tifosi. Così l’Uefa, il governo europeo del calcio, che minacciava fuoco e fiamme contro gli “scismatici”, ha appena battezzato una Champions a 36 squadre, da 32 che erano, a partire dal 2024: questo significa 100 partite e 4 posti in più, altri proventi dal parte dei broadcaster televisivi, il moloch a cui tutto si è piegato da un certo punto in avanti. Non solo, ma dopo la Champions e la Europa League avremo un’altra competizione: l’Europa Conference League. Un calcio perpetuo, inesauribile, da annoiare. Il bello è che su queste nuove riforme Agnelli aveva assicurato il suo appoggio all’amico e compare Ceferin (ha fatto da padrino alla figlia), il presidente dell’Uefa, il quale ora strepita: «Mi ha sempre mentito» come un amante abbandonato. Agnelli, in verità, ha fatto anche di peggio: prima ha promesso il suo appoggio alla Lega calcio italiana a proposito dei fondi della serie A, poi ha voltato le spalle alla proposta del presidente della Lega, Paolo Dal Pino. Non fosse altro perché la proposta ostacolava in qualche modo la Superlega. Dante a questo punto avrebbe messo Agnelli tra i falsari, i falsari della parola, decima bolgia, ottavo cerchio, canto trentesimo dell’Inferno.

Noi vecchi romantici, proprio così: romantici, avremo un motivo in più, nel caso si ripresentasse questa follia, per staccare definitivamente la spina al calcio dei nababbi, non ingoiare più rospi per poi alla fine subire e pagare. Il tifoso, l’appassionato sono indifesi. Non è un caso che molti giovani il calcio, questo calcio senza anima, lo hanno già lasciato, attratti da altre cose, da altri mondi, da altri spettacoli.

Quelli della Superlega vantano già una fanbase, come dicono quelli istruiti, che supera il miliardo di persone in tutto il mondo. Ecco, se volete e se ci riuscirete, andate pure e tanti auguri (altre cose non si possono scrivere). Noi poveracci potremmo attuare una sorta di resistenza attiva: ad esempio, continuare a tifare, felici, per le nostre piccole squadre che hanno alimentato una parte del mondo immaginario che si è insediato nelle nostre menti. Torneremo negli stadi a urlare, a gioire e a disperarci invece di starcene dormienti nel salotto di casa a vedere le partite. Allora potremo boicottare ogni big match proposto dai padroni della pelota e correre sui campetti a vedere i nipoti, i ragazzi tirare calci ad un pallone. O infilare una palla in un canestro, o schiacciarla oltre una rete, o depositarla tra due pali, o colpirla con una racchetta o con una mazza. E ancora: potremmo riconquistare il nostro posto in una platea di un teatro, una poltrona in un cinema, persino guardare una serie in tv. La speranza è nel fare, titolava efficacemente IlFoglio, un lungo articolodi SimonettaSciandivasci sull’agire per uscire dall’anno della pandemia. In fondo la buona notizia in un tempo cupo e pestilenziale come questo è che nei mesi di clausura si sono moltiplicate le vendite di libri nel nostro paese. Potremmo chiamare il movimento: No Calcio Show. E bucare il pallone dei ricchi.

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