Danilo Maestosi
Alla Centrale Montemartini

Roma ritrovata

Finalmente arrivano in mostra i reperti che furono dell'Antiquarium comunale di Roma, il luogo dove finivano i reperti che non trovavano spazio nei Musei Capitolini. In questi mosaici, c'è la storia del gusto di un popolo, fatto di grazia e di grande mestiere

C’era una volta, a Roma, l’Antiquarium comunale. Serbatoio di cimeli della capitale antica del mondo, raccoglieva materiali che ne ricostruivano la vita vissuta ma non trovavano posto tra i capolavori dei Musei capitolini. Un patrimonio di oltre centomila reperti declassati a torto tra le testimonianze di minor rango, ma continuamente arricchiti dai ritrovamenti dei nuovi scavi, che era finalmente riuscito a conquistarsi negli Anni Trenta una propria sede espositiva: un padiglione sulle pendici del Celio, di fronte al Colosseo, che nel 1939 crollò per uno smottamento causato dai lavori della prima metropolitana.

Ottant’anni dopo il rudere di quel fabbricato inagibile è ancora lì. Un monumento alla disattenzione e allo spreco. In attesa di un piano di recupero o di una soluzione alternativa che non sono mai arrivati in porto, insabbiati nelle paludi della politica dei piccoli passi e della cultura misurata a gettoni in cui è sprofondato l’ambizioso progetto di sistemazione dell’area archeologica centrale del sindaco Petroselli e il sogno del Grande Campidoglio disegnato da Renato Nicolini. Sogno che prevedeva anche la collocazione dell’Antiquarium in un museo della città che avrebbe dovuto occupare il grande isolato di via dei Cerchi, di fronte al circo Massimo.

Non se ne parla più, guarda caso da quando a qualcuno è venuto in mente che in un palazzone così sarebbe stato meglio piazzarci un grande albergo. E l’idea resterà ancora chissà per quanto in letargo: nella lista degli interventi in partenza con i fondi europei la voce Antiquarium non è stata inclusa, conferma con un comprensibile imbarazzo la soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli. In compenso, per fortuna, si è intensificato il lavoro di studio e di restauro dei suoi cimeli. Impegni dietro le quinte da cui è nata la mostra I colori di Roma che dopo un lungo blocco imposto dal Covid si è finalmente messa in moto ed ha aperto i battenti al pubblico nelle fascinose quinte postmoderne della Centrale Montemartini sulla Portuense.

Visitarla riserva sorprese e scoperte di grande impatto, ma lascia un retrogusto amaro di rabbia e rimpianti, proprio perché dimostra quali e quanti preziosi tasselli, per riavvicinarci alla storia antica di Roma e rileggerne da altre angolazioni quella più recente, si possono estrarre dai depositi di questa immensa collezione, e che spreco di stimoli e occasioni sia non trovar loro una casa stabile e adeguata.

Il filo narrativo che con rigoroso taglio divulgativo i tre curatori – Claudio Parisi Presicce, Nadia Agnoli e Serena Gugliemi – ci sgranano davanti porta alla ribalta i gioielli, l’evoluzione e gli slittamenti di gusto di un’arte applicata, parallela alla pittura, quella del mosaico, che la Roma tardo repubblicana importa dalla Grecia e quella dei Cesari rielabora nelle proprie botteghe, per decorare le case e rimarcare lo sfarzo e il prestigio delle classi abbienti, fino a dilagare in una moda di autorappresentazione e d’arredo, estesa ai luoghi sacri, a quelli di svago collettivo e poi ai cimiteri, che contagia anche la piccola borghesia e i ceti più popolari.

Una storia impaginata in quattro diversi capitoli e scandita dai diversi colori che l’allestimento assegna al susseguirsi di corridoi e di stanze al piano terra della Centrale Montemartini.

Il primo capitolo, il più didattico, parte dal lavoro collettivo che c’è dietro ogni mosaico: una lastra proveniente da una tomba di Ostia antica incornicia tre operai accucciati che manovrano i loro strumenti, diretti e sorvegliati da un maestro. Un intreccio di funzioni e specializzazioni. C’è lo scalpellino che incide le pietre, il muratore che prepara la base di calce su cui verranno posate le tessere, l’intagliatore che le ritaglia e le compone. E poi l’artigiano che produce i pavimenti e quello che invece è addestrato a realizzare mosaici sulle pareti e sulle volte. Già perché col tempo anche l’arte musiva, importata a Roma, si evolve e impone una strada del tutto originale. In esposizione tutti i passaggi di questa evoluzione sono documentati. Il punto di partenza sono i pavimenti, all’inizio impasti di tessere mal sgrossate che a poco a poco lasciano il posto a grandi ricami geometrici e all’apparizione delle prime scene figurate. Domina alle origini il bianco e nero, meno costosi i materiali, più semplice il loro montaggio. Poi irrompe il colore, il gusto per il disegno si perfeziona. E il mosaico ruba i segreti del racconto e del simbolo alla pittura, la capacità di ottenere volumi e sfumature dall’accostamento delle tessere si fa sempre più ardito. E il mosaico si trasforma in un vero e proprio quadro. A suo modo più prezioso di un quadro, perché costa e dura di più.

Ecco così apparire gli emblemata. Ritratti, composizioni di figure e vere e proprie scene che reclamano una vista diversa, incorniciati e appesi alle pareti. Spesso inquadrati dalle finte architetture e dalle modanature variopinte con cui i pittori abbelliscono e rimodellano gli interni. Assecondando il gusto dei committenti adeguandosi all’uso cui le varie sale decorate sono adibite. I padroni di casa impongono quasi sempre temi e soggetti, con cui identificano ed esaltano il proprio ruolo sociale o quelli della propria famiglia. Ma volendo, i meno orientati possono sceglierli da veri e propri campionari che documentano le specialità e le offerte delle varie botteghe.

Il più saccheggiato e declinato in infinite varianti è il repertorio iconografico della mitologia, ma si impone anche il paesaggio e la raffigurazione di animali e piante, in forme e specie sempre più esotiche che arrivano dai territori d’Oriente che l’impero continua ad inglobare. Le botteghe dei mosaicisti sono in grado ormai di sfornare veri e propri capolavori di bravura, leggerezza, realismo. Come la leggiadra scena, qui esposta, dominata dalla sagoma irsuta di un leone che travolge pentole e fiori ma che tre amorini cavalcano come un cagnolino. O il grande pannello, tra i più belli della mostra, che immortala con raffinati giochi cromatici la scena di un vascello che sta varcando in uscita l’imboccatura di una rada, segnata dalla torre di un faro, nel quale gli esperti hanno riconosciuto il terminale del porto di Alessandra d’Egitto: perfetta la resa della vela spiegata gonfiata dal vento e di altri dettagli dell’imbarcazione, dalla passerella che prolunga la prua, al pennacchio a spirale che la sormonta, alla scialuppa che  la nave si trascina appresso, ai movimenti dei marinai, alla tenda che sulla plancia accoglie probabilmente il padrone dell’imbarcazione che si gode all’ombra la scena. Quasi sicuramente ne conosciamo anche il nome: Claudio Claudianus, un ricco importatore di grano che aveva costruito la sua lussuosa residenza su una delle pendici del Quirinale, dove oggi svetta villa Aldobrandini.

Fu scoperta nel 1877 durante gli scavi per ampliare il tracciato di via Nazionale e adeguare Roma alle esigenze scenografiche di nuova capitale del regno sabaudo. Una scoperta che introduce e rappresenta l’attrazione principale del secondo capitolo, il più avvincente, della mostra, riservato appunto ai ritrovamenti scattati con gli interventi moderni per ridisegnare il volto della città.

Difficile non immedesimarsi nello spettacolo che si è offerto alle squadre degli operai che stavano smantellando a picconate quella scarpata di via Nazionale e dopo gli sterri misero a nudo una gigantesca parete decorata da festoni che incorniciavano tre riquadri musivi di temi marini, decorazioni introduttive al ninfeo che adornava la villa. Anche perché la scena è immortalata come nello scatto di una fotografia dallo splendido acquarello di un pittore, Vincenzo Marchi, che seguiva e documentava i lavori.

Difficile non condividere le stesse emozioni degli archeologi di allora che da quelle spalate di terra vedevano affiorare, e descrissero nei loro diari, i marmi e quella elegante vasca ora qui esposti per testimoniare l’importanza di quel sito riemerso a sorpresa dal buio. Un buio che purtroppo, messi in salvo i reperti e rimossi i mosaici, è tornato a soffocare quello spicchio di storia.

Tracce di memoria purtroppo quasi sempre distrutte perché la febbre edilizia di allora non arretrava davanti a questi miraggi, a questi fantasmi. Come documentano altri disegni d’epoca. Che oggi servono a battezzare e localizzare i tesori che l’Antiquarium ha conservato e può ora mostrarci. Come radici di appartenenza che danno senso e motivi di rispetto ed orgoglio a chi ha la fortuna di abitare questa città. Sentimenti che mi hanno acceso il cuore e la vista davanti a quattro mosaici di pesci, prodigi di tecnica e realismo, venuti alla luce nel rione Monti sulla collina della chiesa di San Lorenzo all’incrocio tra via Balbo e via Milano. A venti metri dal palazzo in cui sono nato e vissuto. Eppure non ne conoscevo l’esistenza. E ora sono combattuto tra gratitudine e vergogna.

Ecco i miracoli, le vertigini di coinvolgimento che può riservarci l’Antiquarium comunale, che c’era una volta e ora non c’è più. E avrebbe in serbo stabilmente per tutti noi romani, di nascita o d’adozione. Se si garantisse a quei tesori nascosti o ignorati non la passerella effimera di una mostra ma una casa-museo in cui abitare insieme.

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