Leopoldo Carlesimo
Una storia in tre parti

Passeggiata in montagna

«Sulla superficie del lago galleggiavano lastre ghiacciate. Era forse un po’ presto per tentare un’ascensione, la stagione non era ancora matura. L’orlo della vallata era incrostato di neve gelata e il piazzale era deserto...»

“No, mio dio, no! Non avresti dovuto farlo, cazzo!” Nel dirlo, Giuliana non sapeva se stesse parlando a se stessa oppure a lui. Sentì le lacrime rigarle il viso. Tirò su col naso, cercando di fermarle. Poi cedette e le lasciò colare, la bocca aperta, le labbra tremanti. Mescolandosi al terriccio che dopo la caduta le imbrattava il viso, si fusero in gocce di poltiglia salata che dall’orlo del mento caddero sullo schermo del telefonino. Continuava a scorrere quei messaggi, incapace di distoglierne lo sguardo.

Lui giaceva a terra, privo di conoscenza. La gamba piegata in una posa innaturale e tutto quel sangue che gli impiastrava i capelli. Sulla superficie del masso contro cui s’era schiantato – lo stesso sul quale lei adesso era accovacciata – una densa macchia nerastra segnava il punto preciso dell’impatto. Vi galleggiavano minuscoli frammenti ossei. Avrebbe dovuto pulirlo col fazzoletto, prima di sedersi, non ci aveva badato, sporcandosi pantaloni e giacca a vento. Gli cingeva il collo con un braccio, sorreggendo la testa, e cercava di allentare il colletto della camicia.

“Reagisci, figlio di puttana!” Singhiozzò.

Il colletto non cedeva, le dita incespicavano nel tentativo di slacciare l’ultimo bottone. Le ficcò dentro tutt’e cinque e lo strappò.

“Forza, bastardo!” Singhiozzò ancora.

Pur odiandolo, lo accarezzava dolcemente e non aveva mai smesso di parlargli da quando l’aveva preso tra le braccia. Parole senza senso, ispirate da impulsi contraddittori… impossibile governare il flusso dei suoi sentimenti, correnti improvvise e simultanee li spingevano in direzioni diverse.

Non sapeva lei stessa quel che diceva. Le parve che non ci fosse più nulla da dire. Aveva fatto il necessario, aveva chiamato i soccorsi. Stavano arrivando. Non restava che attendere.

* * *

Il luogo, una delle loro mete abituali, era una diramazione occidentale dell’ampia Valle Aurina. Poco prima di Campo Tures, al bivio, un cartello indicava la via per Lappach / Lappago. La strada saliva all’inizio con dolcezza, poi via via più ripida, restringendosi. Traversava minuscoli borghi. S’annodava in tornanti sempre più fitti sul versante sud della giogaia, inerpicandosi fino alla diga di Neves.

Sulla superficie del lago galleggiavano lastre ghiacciate. Era forse un po’ presto per tentare un’ascensione, la stagione non era ancora matura. L’orlo della vallata era incrostato di neve gelata e il piazzale era deserto. Ma Giuliana e Marco erano escursionisti esperti e conoscevano il percorso a menadito: sarebbero saliti dal versante orientale dell’anfiteatro, l’ascesa più morbida fino al Rifugio Porro; poi, dopo la sosta e il ristoro, avrebbero percorso in cresta tutto l’arco della giogaia, da est a ovest, fino al Rifugio Ponte di Ghiaccio; infine sarebbero ridiscesi al lago lungo la via più ripida, sul versante occidentale. Sette ore di cammino, senza ramponi né ferrate, solo qualche tratto piuttosto impegnativo da affrontare in arrampicata libera, mani e piedi, con le ciaspole nello zaino per attraversare i tratti ancora innevati.

Partirono presto, al mattino. Avrebbero avuto più di dieci ore di luce a disposizione. Le previsioni davano tempo bellissimo, ma certo i fatti della sera prima turbavano un po’ quel gelido inizio di giornata. Tuttavia Giuliana e Marco non avrebbero mai rinunciato all’escursione per questo. Dopo la lite – in camera da letto, appena svegli, mentre si preparavano a partire – dopo la lite nessuno dei due tornò più sull’argomento.

L’argomento era Marta, la migliore amica di Giuliana. Quella reduce da un matrimonio fallito, che da un anno in qua s’aggregava, coi suoi due figli, alle loro gite, alle loro vacanze, ai loro week-end in montagna. Una brunetta esile e vivace, dotata di un bel sorriso, condito di una lingua spiritosa e tagliente. Giuliana invece era una bionda statuaria, dolce e taciturna, una salda e rassicurante compagna alla sua maniera un po’ mascolina.

Lei e Marta si conoscevano fin dall’infanzia. Erano state compagne di classe alle medie, per tutto il liceo, s’erano iscritte assieme all’università.

Lì qualcosa le aveva separate. Marta aveva incontrato un tizio, un certo Luigi, che Giuliana detestava. Questo scavò un solco tra loro. S’allontanarono, preparando indipendentemente le ultime sessioni d’esami. S’erano laureate e poi sposate a pochi mesi di distanza, senza invitarsi ai rispettivi matrimoni.

Per quasi dieci anni non s’erano più viste né sentite. Poi, a sorpresa, Marta era ricomparsa. S’erano incrociate per caso nel centro di Milano, stupite entrambe di quell’incontro. Avevano preso un frettoloso caffè in un bar affollato. Però poi s’erano riviste, avevano pranzato assieme in un ristorante dei vecchi tempi, una trattoria da studenti nei dintorni della Statale.

Giuliana a quel punto era un avvocato ben lanciato in carriera, felicemente sposata con Marco. Una coppia più che benestante, dinamica, moderna, senza figli. Marta ne aveva due, un maschietto di sei anni e una bimba di quattro. S’era appena separata da Luigi dopo un percorso matrimoniale accidentato. Quel tizio che le aveva allontanate ormai era fuori dal quadro.

Abitavano entrambe a Milano. Si rividero e in breve fu come se qualcosa germogliasse di nuovo della vecchia amicizia. Ripresero a frequentarsi, a fare delle gite assieme. L’estate scorsa erano state in barca in Grecia. Giuliana e Marco, Marta e i suoi due bambini. Anche quel week-end, in Val Pusteria…  

Quel mattino Marta era rimasta alla malga coi piccoli. Quando Giuliana e Marco partivano per escursioni impegnative, non poteva seguirli. E non s’era fatta vedere neppure a colazione, prima della partenza per Neves. Buon per lei, si disse Giuliana, dopo quel che è accaduto ieri sera…

Ieri sera, a cena nella malga dove alloggiavano, in una ridente località nei dintorni di Brunico chiamata Amaten / Ameto, dentro la vecchia stube foderata di legno scuro c’erano due soli tavoli occupati. La grande stufa a legna nell’angolo, con la decorazione in maiolica, surriscaldava l’ambiente. Lampade di porcellana calavano basse dal soffitto. La coppia anziana, all’altro tavolo, parlava in tedesco. La ragazza in costume tirolese con l’ampia gonna nera e la camicetta bianca bordata a merletto prese l’ordinazione. L’annotò sul taccuino e ripeté diligente i nomi delle diverse portate nel suo italiano stentato.

“Sicché salite al lago, domattina,” disse Marta.

“Sì, partiamo presto,” rispose Giuliana. “Sarà una passeggiata lunga.”

“All’alba,” disse Marco. “Ho chiesto a Hilde di anticipare la colazione.”

“Beh, io dormirò,” disse Marta. “E poi faremo una passeggiata qui nel bosco, coi bambini. Dopo forse scenderò a Brunico a fare spese.”

Era stata una buona cena e avevano bevuto parecchio tutt’e tre. Dopo le frittelle di mela Marta salì a mettere a letto i bambini. Pochi minuti dopo Marco disse:

“Esco a fumare. Salgo direttamente in camera, dopo. T’aspetto su.”

“OK,” rispose Giuliana.

Marco colse il momento in cui la padrona, la Hilde, come sempre dopo cena, s’avvicinava al tavolo a far conversazione. Quasi subito suo marito Rudi la raggiunse. Frequentavano quella malga da anni e Hilde e Rudi, quando non erano pressati dal lavoro, usavano fermarsi a chiacchierare con gli habitués. Impegnarono Giuliana per un po’.

Quando salì, più tardi, e non trovò Marco in camera, pensò che fosse uscito di nuovo a fumare. Già le dieci. Dovevano alzarsi così presto, al mattino. Cominciò a spogliarsi.

S’infilò sotto il piumone. Era già mezzo addormentata quando lui rientrò. E forse fu nello stordimento del dormiveglia che le sembrò di sentire due persone lungo le scale e un bisbiglìo confuso, quindi un’altra porta aprirsi e poi chiudersi.  

“Sono sceso farmi una fumatina e due passi per conciliare il sonno,” disse lui, entrando in camera.

Ma non era odore di fumo quello che a Giuliana parve di cogliere quando le passò accanto e poi si spogliò, dall’altra parte del letto, e si chinò su di lei per baciarla.

“Dormi,” le disse.

No, non era odore di fumo. Non era nemmeno il suo odore. Cosa, allora?

Giuliana era quasi addormentata e ricadde sul cuscino. Lui si volse dall’altra parte. Dopo neanche cinque minuti russava già, a quel suo modo a lei ben noto, debole e irregolare. Non era mai stato un problema dormirgli accanto quando russava. Ma, se non era il suo russare, cos’era allora che la teneva sveglia?

S’accostò a lui nel letto. Quel profumo. Marco aveva addosso quel profumo. Ma lei era stanca morta e aveva bevuto. Dovevano alzarsi prestissimo la mattina dopo. Crollò sul cuscino, vi affondò le narici e ce le premette forte. Riuscì a prender sonno.

La mattina dopo, quando si svegliò, annusò l’aria. Fu il primo gesto che fece, le venne istintivo. Lui era disteso immobile. Aveva smesso di russare. Lei si sporse su di lui, l’annusò a lungo. Nessuna traccia del profumo. Era svanito. Era il suo solito odore di primo mattino, un po’ acre e amaro, il suo odore di maschio noto prossimo al risveglio. Difatti quasi subito lui si svegliò. Rotolò su di lei, stiracchiandosi. Sentì le sue mani tiepide sui fianchi, scendere a carezzarle le cosce, il ventre, risalire a cercarle i seni. Volle fare l’amore. Lei non gli si negò.

Però dopo, sotto la doccia, quei frammenti riemersero tutti assieme nel suo cervello. Come una bolla di palombaro che risalendo si dilata e si sgrana, suddividendosi in decine, centinaia di bollicine. I passi lungo le scale e sul pianerottolo, non di una sola persona; forse un’altra porta chiudersi; e quel profumo che solo dopo aveva riconosciuto, e ch’era ormai svanito. Questo apriva una concatenazione di circostanze simili, di dettagli affini, accumulati nel corso di quell’anno in tanti week-end comuni e durante l’estate, da quando Marta li seguiva nelle loro gite, nelle loro vacanze…

L’affrontò in camera, mentre s’asciugava. Non poté farne a meno. Lei già vestita di tutto punto: camicia di flanella a scacchi, pantaloni aderenti di velluto a coste strette, scarponcini allacciati, zaino pronto, con le ciaspole e tutto ficcati dentro, e giacca a vento, guanti, cappuccio di lana stesi ordinatamente sul letto lì accanto. Lui con l’asciugamano grande avvolto attorno ai fianchi e quello piccolo che andava su e giù tra la spalla destra e l’anca sinistra, s’asciugava la schiena facendo arco col dorso. Seduta composta, lei lo fissava.

“M’è parso che non fossi solo, quando sei salito ieri sera. Con chi eri?” Disse.

“Come?”

“Sì, voglio dire, c’era qualcuno con te?”

“Ma no, ero solo,” disse lui.

“Perché mente?” Si chiese Giuliana. “Per favore, di’ ch’era lei, non prova nulla… Potresti averla incontrata per le scale, le hai dato il bacio della buonanotte, questo spiegherebbe il profumo… Per favore, raccontala così.” Si disse.

“Ma no, non eri solo,” replicò ad alta voce. “Ho sentito altri passi, oltre ai tuoi. E la porta della camera accanto aprirsi e poi chiudersi.”

Lui finse di non capire, o non capì davvero, chissà.

“Hai sognato,” disse. “E’ facile, nel dormiveglia. In questa malga piena di piccoli rumori. Dormivi quasi, quando sono rientrato.” Non perse la calma, s’avvicinò ad accarezzarla. “Non so cos’hai creduto di sentire.” Le diede un bacio.

“E c’è il profumo,” disse lei. “Avevi addosso il suo profumo.” Si scostò, non si lasciò baciare.

Lui insistette. “Che profumo? Ma insomma, che ti prende?” Le cercò le labbra. E dopo un accenno di resistenza lei cedette. Gliele concesse. Lui la baciò molto, molto a lungo. Quando si staccò, lei ebbe quella sensazione. Un bacio colpevole, eccola la confessione. Forse sì, forse no; esatta per quanto possibile… ma poteva sbagliarsi, anche…

“Di Marta,” disse lei. “Il profumo di Marta. L’ho riconosciuto.”

“Scherzi?” Disse lui, guardandola negli occhi. La teneva ancora tra le braccia. Allontanarono entrambi la testa, continuando a fissarsi. Non ci fu nulla di risolutivo in quello sguardo.

“Stai scherzando.” Ripeté lui.

“Era il suo profumo. Ne sono certa,” disse lei. Ma non lo era e lui lo capì.

“Ah sì? Senti, vuoi fare una scena di gelosia sul nulla?” La fissò negli occhi, con quell’aria volutamente incredula per l’enormità che aveva appena sentito: la sua migliore amica; una vecchia amica d’entrambi, ormai. Virò d’espressione, il tono divenne comprensivo, quasi divertito: “Non vuoi che partiamo per la nostra passeggiata?”

“Non so…” disse lei. Era sincera. Non lo sapeva proprio. Lui la riprese tra le braccia, la baciò. Scesero a far colazione.

Ora invece, steso contro di lei, aveva perso ogni sicurezza. Lo sorreggeva da dietro, il dorso tra le sue gambe divaricate, la testa in grembo, sostenuta dalle braccia che gli cingevano le spalle e il collo. Marco era scosso da tremiti improvvisi ed emetteva di quando in quando deboli mugolii. Un fioco, incosciente lamento. Parole confuse, niente di comprensibile, certo, nessun senso compiuto in quei gemiti, nulla in cui lei potesse cogliere un nesso, carpirgli magari una confessione… No, non era il momento. Chissà mai se quel momento sarebbe venuto.

S’era un po’ calmata, intanto, ora le mani tremavano meno e le lacrime avevano smesso d’irrigarle il viso. Si diede una ripulita col fazzoletto. Quell’operazione la rasserenò. Se lo passò ripetutamente sulle guance, poi sulle mani e sugli abiti. Si rimise in ordine alla meglio, si ravviò persino i capelli, scostandosi di dosso quel corpo insanguinato.

Da cui salivano, a ondate, rantoli sordi. Vibrazioni sonore che penetravano dentro di lei, sospinte dal ritmo regolare del respiro, dalla dilatazione e contrazione della cassa toracica che premeva contro le sue cosce, attraverso il tessuto elastico dei pantaloni e della calzamaglia. E quel fiato umido, intermittente, che si condensava sul palmo della mano che gli reggeva il mento… Percezioni fisiche di lui, invadenti e moleste. Si facevano strada in lei, accompagnate da suoni inarticolati…

Ma non la commuovevano più. Era indifferente a quei lamenti. Non la ferivano, né la indignavano, era oltre questo. Occupata a rimettere ordine dopo il disastro, in anticipo sul suo esito finale, qualunque esso fosse… Solo una trascurabile appendice, un piccolo ulteriore disturbo che lui le infliggeva, e che si sarebbe presto spento. Non lo sopportava più, quel respiro. Proprio ora, proprio lì, avrebbe forse preferito che s’interrompesse… Ma probabilmente anche questo era passeggero, anche questo sarebbe scivolato via. E lui, sopravvivendo, avrebbe superato quell’orrore, se lo sarebbe lasciato alle spalle. Quanto a lei… 

Lei, nel corso della colazione, aveva cercato di concentrarsi, di meditare. Le colazioni alla malga di Hilde erano qualcosa. Pane fragrante fatto in casa, latte e burro di malga, quegli yogurt freschissimi, le marmellate e il miele; lo strudel e la kaiserschmarren per cui la stube era famosa; e per chi preferiva il salato, speck con rafano e sottaceti e formaggi di malga… mentre spalmava sulla fetta tiepida quel burro così ricco, quella marmellata deliziosa, sentiva su di sé gli sguardi indagatori di lui, che la lambivano di quando in quando. Occhiate veloci, apparentemente casuali e subito distolte, simili alle prime mosse di un corteggiamento. “Anche lui dissimula,” si disse. Ma non sapeva esattamente cosa leggere nella tensione, in quel gioco di maschere che coglieva nell’aria. Tradimento. Accuse false e ingiuste. Assurda gelosia. Altre finzioni. Si concentrò sulla colazione. Il caffè leggero, non troppo buono, abbinato a quello yogurt magnifico. Cercò di accumulare tutto il vantaggio che poté nel corso di quella colazione eccellente.

Poi ci fu il tragitto in macchina, che fu silenzioso. Lui ora pareva imbronciato, lei più distesa. In realtà, immersa nel corso dei suoi pensieri. Ricordava episodi, ricostruiva dettagli. I prolungati silenzi, interrotti da brevi scambi di battute un po’ artificiose, un po’ forzate, sempre innescati da lui, le diedero tutto il tempo di riflettere…

Ci volle un bel po’ per raggiungere la diga. Lasciarono la macchina nel solito posto, il piazzale sulle rive del lago da cui partiva l’escursione, e s’avviarono su per il primo tratto comodo, di salita ampia e battuta, fino allo sperone sopra il contrafforte di roccia. Di lì il sentiero cambiava pendenza, proseguendo ripido in mezzo agli alberi. Ma l’abetaia già diradava e le rocce affioravano nude sopra quota duemila.

Faceva freddo. Quando furono oltre la protezione del bosco, il vento rinforzò. Soffiava a raffiche, da nord-est, raffreddandosi sulle vette gelate e caricandosi di minuscole pagliuzze di ghiaccio. Un leggerissimo velo di neve dura, aspirata via dalle cime, si depositava su zaini e giacche a vento.

Dopo circa un’ora e mezza di marcia fecero la prima sosta. Avevano raggiunto quel punto riparato che conoscevano bene, una panca protetta dentro un piccolo anfratto del costone roccioso, col dirupo davanti e tutta la vallata aperta sotto di loro. Uno dei loro posti, un panorama superbo, col Gran Pilastro, a sinistra, che si stagliava sulla distesa scura degli Alti Tauri. Anche il cielo schiariva, via via che il sole si alzava e si faceva più caldo, respingendo le nuvole e dissolvendo le chiazze di nebbia che ancora galleggiavano in basso. Lei era giunta a una conclusione. Gliela comunicò.

“Smetti di fingere, Marco. Ti conosco, non mi puoi ingannare. Da quanto dura con Marta?”

Lui si sentì colpito a freddo. Non azzeccò subito il tono della risposta. “Ancora?” Disse, provando di nuovo a minimizzare. “Daccapo con questa storia? Giuliana, per favore…”

“Non s’è mai interrotta,” soggiunse lei. “Pensavate di farla franca.”

“Ma sei matta?”

“No,” disse. “Sono sicura. Ho riflettuto. Ho riconosciuto il profumo. Sono risalita da lì. Dopo cena, siete spariti insieme. Quante altre volte è successo, in questi week-end, nelle nostre vacanze… E’ uno schema? Dopo cena, a volte, lei sparisce, tu sparisci… E’ accaduto spesso, no? Certo, è diventata un’abitudine, per voi… Ormai vi sentite tanto sicuri che ieri sera siete risaliti insieme, vi ho sentiti, c’era lei con te sulle scale…”

Non era certa, non aveva prove. Ma, se bluffava, le riuscì bene. Lungo il percorso in macchina, e poi la camminata, s’abituava al quadro di quel tradimento, l’aveva lungamente contemplato, studiato, ricostruendo a ritroso, nella sua mente, occasioni, indizi, dettagli… Una miriade di circostanze concordanti, che costruivano un insieme troppo connesso, popolato di corrispondenze e affinità troppo frequenti per essere casuali. Intessevano una trama su cui ormai era andata un bel pezzo avanti. Lui era impreparato. Tentò d’affrontarla, ma non riuscì a mantenere la calma.

“Adesso basta, Giuliana!” Esclamò. “Basta, basta! Che ti prende?” Sbraitò, si alzò in piedi, mosse passi agitati innanzi a lei, allargando le braccia, atteggiando il viso a una smorfia irata, stupefatta.

Lei s’infilò in quel varco, provocandolo.

“Posso accettarlo,” disse. “Dimmi solo da quanto dura.”

“Sei pazza! Ti dà di volta il cervello?” Gridò lui. Ma la sua incredulità parve fasulla.

Vi fu una pausa, cui lei impedì di durare.

“Non voglio spiegazioni, Marco, non m’interessa il perché. Dimmi solo da quanto tempo dura e com’è. Dammi i dettagli. E’ dall’estate, in vacanza, ho indovinato? E poi, dopo? Regolarmente, tutte le volte che andiamo da qualche parte insieme? E a Milano? Vi vedete di frequente? Quante volte? Dove?”

“Ma che dici!” Lui tentò di calmarsi, ma barcollava. Si sforzò di ridurre tutto alla ragione. “Giuliana, che hai? Perché questo delirio? Torna in te. Sono io, Marco. Questa è la nostra passeggiata, uno dei nostri posti…”

“Lo so benissimo. So tutto, ormai. La tua condotta me lo conferma.”

“Ma conferma cosa, santoddio? Sei matta… Scambi i tuoi incubi con la realtà… Come ti viene in mente, poi, con Marta… La tua amica da una vita, ormai un’amica anche mia” cercava di riprendere il controllo, di trovare un filo da riavvolgere per tornare indietro, ma lei colpì ancora con freddezza:

“Un po’ lo sospettavo, sai… Ho sempre notato come la guardavi. Non mi è sfuggito… Anche quest’estate, in barca. E’ notevole Marta in costume, non trovi? E’ cominciata allora, la prima volta te la sei scopata lì?”

Lo percosse come uno schiaffo quel ‘te la sei scopata’. No, non era Giuliana, non la Giuliana che conosceva lui… S’agitò, sbracciandosi, cercò d’impedirle a gesti di proseguire. La piazzola, sotto il costone, era stretta.

“Sulla base di cosa mi accusi?” Proruppe, fermandosi di colpo e fissandola.

Lei insistette. Completava il quadro, aggiungeva elementi, sferrava colpi quasi senza guardarlo, seguendo un suo dettato interiore.

“Se è dall’estate, dura da un bel po’. Avrete forse fatto dei piani. Quand’è che vi sareste decisi a dirmelo? Oppure non vi sareste decisi mai… E’ questo che vi piace, sentirvi due clandestini?”

Lui ebbe bisogno di muoversi per rompere l’accerchiamento. Spalancò la bocca, fece tanto d’occhi. Era alle corde.

“Dove vi vedete, a Milano?” Proseguì Giuliana. “Vi trovate da lei? E come fate, coi bambini? Ma non vi sembra puerile, visto che siete a questo punto, rubare una sveltina ieri sera, mezz’oretta scarsa mentre io sto lì a chiacchierare con la Hilde? Cos’è, non riuscite proprio a trattenervi?”

Abbassò lo sguardo. “Spero che la paghiate,” soggiunse, come rivolta a se stessa. “Spero che la paghiate tutt’e due.”

Gli occhi bassi. Non lo vide, quindi, nel momento esatto in cui cadde. Sentì solo il fruscìo della scivolata e i rimbalzi sordi lungo il ghiaione, rumore di rami spezzati, sterpi e arbusti strappati al pendìo, prima del tonfo finale, contro il masso.

Quando si volse, e trovò vuoto quel pezzo di ciglio fino a un’istante prima occupato dalla sua sagoma, fece tre passi avanti e s’affacciò. Sentì il colpo, alla bocca dello stomaco, e poi il conato salire violento dalle viscere. Vomitò quel che aveva ancora in pancia della colazione. E mentre s’asciugava col dorso della mano rifletté: “Devo fare qualcosa. Subito. Devo farlo io. Perciò devo calmarmi. Se non faccio niente io, non lo fa nessuno.”

Sicché fu lucida. Prima ancora di provare a soccorrerlo, prima di calarsi nel dirupo, chiamò aiuto. Da escursionista esperta, registrò sul GPS del telefonino la posizione esatta. Poi compose il numero del Soccorso Alpino. Diede correttamente le coordinate e gli altri dettagli che loro chiesero. Parlò in modo concitato, ma chiaro, dall’altra parte non dovettero faticare troppo per guidarla lungo il percorso di informazioni necessarie. Ascoltò con pazienza la voce autorevole e rassicurante del centralinista, che la condusse lungo il breve seguito di note, dettagli, raccomandazioni, fino alla conclusione perentoria: le ingiunse di sedersi e aspettare. Ferma. Immobile. Non s’azzardasse a scendere nel burrone per raggiungerlo. Non ci pensasse neppure a fare una sciocchezza simile, cedere a quella tentazione comune. Non avrebbe potuto fare nulla per lui. Mettendo a rischio non solo se stessa, ma l’unico filo che li collegava a loro. Sarebbero arrivati presto. L’elicottero era pronto al decollo. Riattaccò.

Ma quello era un ordine al quale, naturalmente, lei non poteva obbedire. Rimise il telefonino in tasca e s’avviò lenta, prudente, oltre il ciglio, cercando passo passo la via meno impervia per scendere fino a lui.

Caddero dei sassi e franarono pezzi di terra. Questo non la spaventò. Né la dissuase. Conosceva la montagna, sapeva come fare. Calcolò il percorso in modo che quelle minuscole frane non investissero il corpo, laggiù, schiacciato contro il masso. Altri sterpi, altre frane… Finché a un tratto tutt’un pezzo di costone si staccò, trascinandola giù per una ventina di metri.

Si rialzò. Era contusa, graffiata dappertutto, ma non ferita seriamente; dopo una pausa per riprendersi constatò che non aveva niente di rotto, salvo la giacca a vento strappata e uno squarcio nei calzoni, giusto sotto il ginocchio. Un po’ di graffi superficiali, sbucciature che sanguinavano, niente di grave. Riprese a scendere.  

Lo raggiunse dopo un ultimo tratto a rotta di collo, da vera incosciente, ruzzolando lungo il dirupo… Ma era lì, addosso a lui, lo prese. Ora gli teneva il capo sollevato, afferrandolo da dietro e sostenendo il busto tra le gambe, accovacciata sullo stesso masso contro il quale lui aveva picchiato. Un urto così orribile… ne aveva sentito il tonfo soffocato, una parte di lui spiaccicarsi contro la roccia nuda imbrattandola di tutto quel sangue. Ma doveva conservare la calma, si disse di nuovo, c’era ancora qualcosa da fare…

Bisognava richiamare. Dire loro che l’aveva raggiunto. Era tra le sue braccia, era ancora vivo… Diede un gran respiro, sorreggendolo, e infilò una mano in tasca in cerca del cellulare. Lo teneva nella tasca laterale della giacca. La tasca era aperta, vi frugò dentro. Ma il cellulare non c’era. Cercò ansiosamente nelle altre tasche. Inutile.

Inutile, certo. Sapeva benissimo dove l’aveva messo. Se non era lì, insensato cercarlo altrove. Doveva averlo perso nella caduta… Si guardò intorno, guardò in alto… Tornare su a cercarlo? Impossibile.

Però Marco doveva avere il suo. Sapeva dove, nella tasca interna della giacca. Allargò la falda, tirò giù la lampo. Per sbloccarlo col riconoscimento facciale – non conoscendo la combinazione – mise il telefonino davanti al suo volto. Gli scostò un po’ i capelli, lo tirò su. Quella faccia incosciente, imbrattata di sangue, semidistrutta… il cellulare la riconobbe al volo. Aprì la schermata iniziale. Era dentro.

Compose nuovamente il numero del Soccorso Alpino, spiegò con calma che, contravvenendo ai loro ordini, era scesa da lui, era tra le sue braccia. Aveva una brutta ferita alla testa e una gamba malconcia, probabilmente altre fratture in giro per il corpo, ma respirava, era vivo… Non era completamente privo di conoscenza, vaneggiava, si lamentava. Informazioni utili, forse, da anticipare ai medici. Una breve, concitata conversazione. Le parve d’essere stata abbastanza chiara. E loro, certo, avevano capito, la rassicurarono, pur rimproverandola si complimentarono con lei. Non ci sarebbe voluto molto. Che gli tenesse la testa sollevata, immobile, avrebbe ridotto il rischio d’emorragie…

Non restava che attendere. 

Fu allora che, mentre tirava il fiato, vide tutti quei messaggi senza risposta sullo schermo del telefonino. Li aprì. Trovò le chat scambiate tra Marco e Marta per tutti quei mesi. Dall’estate. Grossomodo, proprio come aveva immaginato lei. L’ultimo messaggio la mattina: “Giuliana sospetta qualcosa. Forse imprudenti ieri sera. Non farti vedere a colazione.” Baci e cuoricini. Il nome in codice di Marta era un anagramma: Tarma. La sua tarma. Decine e decine di messaggi espliciti, tutti i giorni da mesi in qua. Proprio da quella vacanza in barca…

Sentì il rombo dell’elicottero, in lontananza. Si riscosse. Si rese conto che aveva ancora il suo telefonino in mano. Lo ripose nella tasca interna della giacca, dove lo aveva preso. Il suo respiro ansimante, spasmodico, le rese più difficile richiudere la lampo con una mano sola. L’altra gli teneva sollevata la testa, come le avevano detto di fare. Inutile chiamarli ancora, ormai sapevano dove trovarli.

Infatti pochi minuti dopo l’elicottero apparve oltre lo sperone. S’abbassò, Giuliana vide le facce degli uomini schiacciate contro i vetri dell’abitacolo, scorse i loro gesti. Intendevano dirle qualcosa. Cercavano il punto in cui atterrare, ecco. La rassicuravano. Volevano sapesse che l’avevano individuata. Forse volevano anche dirle che era stata brava, coraggiosa, l’aveva salvato. Aveva salvato entrambi. Le parve che le sorridessero. L’elicottero si rialzò, s’abbassò di nuovo un centinaio di metri più avanti. Scendeva. Presto l’avrebbero raggiunta.


  1. Continua
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