Alessandro Marongiu
A proposito di “Stai zitta”

In brutte parole

Michela Murgia, il presunto «minchiarimento» di Rebecca Solnit, le «persone di colore» e altri errori, sciatterie e incongruenze linguistiche di un libro che vorrebbe combattere gli errori, le sciatterie e le incongruenze del linguaggio

Possibile che in un libro tutto votato alla denuncia della lingua, del linguaggio e della comunicazione discriminatori si trovi un’espressione indicibilmente offensiva e tipica del più razzista e retrivo etnocentrismo come “uomo/donna di colore”? Possibile, in un libro presentato come uno «strumento che evidenzia il legame mortificante che esiste tra le ingiustizie che viviamo e le parole che sentiamo», e che ambisce a dare il suo contributo a un mondo in cui «tra dieci anni» certe frasi non le dirà «più nessuno»? Possibile, sì, se il libro è Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo più sentire di Michela Murgia (Einaudi, 122 pagine 13 euro). Ci torneremo in conclusione.

Intanto: «Ognuno di noi aspira a spostare l’interlocutore sulla propria posizione con la forza di irresistibili argomenti», si legge a pagina 12. Già: gli argomenti e la loro forza. Vediamo un esempio dal libro (pagina 76). Con una raccomandazione: attenzione ai singoli elementi e ai dettagli.

Un uomo può sperimentare la discriminazione personale per varie ragioni, ma non conosce la discriminazione di genere, perché nessuna cultura ha mai perseguitato i maschi in quanto maschi. Nel mondo in cui viviamo, un povero sarà sempre più discriminato di un ricco, così come un uomo di colore subirà certamente piú ingiustizie di uno di pelle bianca, né serve uno statistico per intuire che un maschio piacente avrà maggiori opportunità di riuscita sessuale di quante ne avrebbe uno che non rientra nello standard estetico del suo tempo. Nessuna di queste marginalizzazioni individuali può essere usata come bilanciamento del sistema di discriminazione che da secoli nega i diritti alle donne, a tutte le donne, solo in quanto appartenenti al genere femminile: quelle ricche e quelle povere, quelle bianche e quelle di colore, quelle considerate piacenti e quelle che invece sono state cresciute credendo di non esserlo. La disuguaglianza attraversa il mondo femminile in modo intersezionale, ma esiste un minimo comune denominatore che le discrimina tutte, ed è il sesso. Ecco perché si chiama sessismo.

Da una parte – quella relativa ai maschi – abbiamo «Nel mondo in cui viviamo» e dall’altra – quella relativa alle donne – «da secoli»: il presente, il qui e ora, contrapposto alla Storia; da una parte abbiamo «un povero», «un ricco», «un uomo di colore», «uno di pelle bianca», «un maschio piacente», «uno che non rientra (…)», e dall’altra «donne», «tutte le donne» e la declinazione al plurale delle varie categorie («quelle ricche e quelle povere, quelle bianche e quelle di colore, quelle considerate piacenti e quelle che invece sono state cresciute credendo di non esserlo»): il singolare opposto, appunto, al plurale. Plurale che viene anche sottolineato, e così rinforzato: «alle donne, a tutte le donne», in contrasto con l’aggettivo «individuali», che, benché al plurale, rimanda all’area semantica della singolarità.

Si può certo sostenere l’argomento che «Nel mondo in cui viviamo, un povero sarà sempre più discriminato di un ricco» (chi mai potrebbe contestarlo, del resto?), ma quasi chiunque può ribattere, con agio, che non è nel «Nel mondo in cui viviamo» che «un povero» è «sempre più discriminato di un ricco»: piuttosto, parafrasando il testo, è da secoli che i poveri, tutti i poveri, sono sempre più discriminati dei ricchi, di tutti i ricchi, nel contesto del sistema di discriminazione in cui hanno vissuto e vivono. Non serve uno storico per certificarlo: quasi chiunque può replicare che è da millenni, dalla nascita della prima forma di ricchezza, qualunque essa sia stata, che esiste una diseguaglianza tra poveri e ricchi. Se non lo si è già appreso entro i cinque anni di età tramite l’esperienza quotidiana, in soccorso arrivano la scuola elementare e i gradi successivi dell’istruzione (perlomeno) obbligatoria.

Sempre con agio si può ribattere anche dell’altro, come che l’avere minore ricchezza di un altro non implica necessariamente l’essere discriminati.

E ancora: avere maggiori o minori «opportunità di riuscita sessuale» (qualsiasi cosa significhi il misterioso sintagma «riuscita sessuale») ha qualcosa a che fare, necessariamente, davvero, con la marginalizzazione e con la discriminazione, e in particolare con la discriminazione di genere?

Più che a un argomento dotato di una qualche forza, pare qui d’essere davanti a quella che nell’introduzione di un volume collettaneo da loro curato nel 2000 Susan Hunston e Geoff Thompson definivano evaluation: la possibilità che offre il veicolo espressivo di orientare in un determinato senso, attraverso precise scelte lessicali e sintattiche, la disposizione di chi legge o ascolta un nostro messaggio a seconda delle nostre intenzioni, del nostro punto di vista o della nostra formazione culturale (per chi volesse: Evaluation in text, Oxford University Press). E allora: in quale misura la percezione di chi legge il passo su citato è davvero orientata dalla forza dei suoi irresistibili argomenti, e quanto invece da scelte lessicali, sintattiche e di scrittura?

Il passo in questione è anche un campione delle diffuse, estreme superficialità e grossolanità del libro. Leggiamo un secondo estratto (pagine 89 e 90):

Il mansplaining, parola resa al meglio in italiano dal neologismo «minchiarimento», è proprio questo: una pratica sessista di superiorità paternalistica esercitata da qualunque uomo che, in una discussione con una donna, si metta a illustrarle le cose in modo accondiscendente e semplificato, dando per scontato che lei ne sappia meno di lui anche quando ci sarebbero abbastanza elementi per supporre il contrario.
Il minchiarimento è un atto molto facile da riconoscere per le donne che conosco, ma resta ancora oscuro anche ai piú benintenzionati tra i miei amici maschi. Esso non definisce qualunque argomentazione portata da un uomo in una discussione con una o piú donne presenti, ma solo quella che è visibilmente frutto della combinazione tra il suo eccesso di sicurezza, la sua mancanza di competenza e la sottovalutazione di quella altrui. Ad articolare il concetto è stata la scrittrice Rebecca Solnit, la quale, pur non avendo inventato il termine, lo ha reso popolare con un libro che sul tema resta miliare4.

4 Cfr. Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, trad. it. di Sabrina Placidi, Ponte alle Grazie, 2017.

Rebecca Solnit

Partiamo dai dati incontestabili a supporto dei nostri, di argomenti, quelli circa la grossolanità e la superficialità di Stai zitta. Che «Rebecca Solnit» abbia «reso popolare con un libro che sul tema resta miliare» il termine e/o il concetto di mansplaining non è vero. Il libro cui si fa riferimento è Men Explain Things to Me, pubblicato da Haymarket Books nel 2014, citato in nota nella sua versione italiana: ma il concetto è nato in un scritto di Rebecca Solnit uscito su internet nel 2008, che ha avuto a tal punto successo da far diventare nel 2010 mansplained una delle parole dell’anno secondo il New York Times, e parola d’uso corrente nel giornalismo politico mainstream dal 2012 in avanti. Chi lo dice? Qualcuno che ha notizie più attendibili di quelle che dispensa Stai zitta: Rebecca Solnit. Dove lo dice? In Gli uomini mi spiegano le cose: il libro citato in nota in Stai zitta. Non si fa neanche troppa fatica a rintracciare la fonte esatta: basta leggere il primo capitolo.

Sarà opportuna una precisazione, casomai qualcuno avesse inteso per via della sintassi che il pronome “lo”, nella frase «Ad articolare il concetto è stata la scrittrice Rebecca Solnit, la quale, pur non avendo inventato il termine, lo ha reso popolare», stia per mansplaining: «La parola non mi convince del tutto e io non la utilizzo molto», Rebecca Solnit dixit. Chissà che direbbe del «neologismo» lo rende «al meglio» in italiano.

Su quest’ultimo punto non è articolato un argomento, ma è invece dispiegata un’affermazione: «Il mansplaining, parola resa al meglio in italiano dal neologismo «“minchiarimento” (…)». Per crederci è richiesto un atto di fede: ci si può credere come si crede ai santi, o alla Madonna. Le cose staranno proprio così? In primis, a meno di non ritenere “chiarimento” e “spiegazione” dei perfetti equivalenti (e bisognerebbe portare degli argomenti a sostegno), “chiarimento” non è di sicuro la prima scelta per rendere «al meglio» explaining (o la sua alternativa informale splaining), gerundio di to explain: la prima scelta è infatti “spiegare”, e relative declinazioni. Poi, su questo si dovrebbe convenire, “minchia” non è la prima scelta per rendere «al meglio» man, che in italiano nel caso specifico è “uomo”, nel senso di “individuo di sesso maschile”. Com’è che da mansplaining si è arrivati a “minchiarimento”? Per una doppia via: si è conservato identico in italiano – ciò che non costituisce in nessun modo obbligo, si badi bene – il processo di formazione del vocabolo inglese, una cosiddetta “parola macedonia” che risulta dall’unione di due termini distinti (e se ne è preservata anche l’osmosi fonetica, che in italiano è pure ortografica); si è dotato il termine italiano, e quindi il relativo concetto e tutto ciò che vi pertiene, di una connotazione (“minchia” per man) che quello inglese assolutamente non ha.

Quanto sia corretto, a livello di informazione e deontologico, accostare Rebecca Solnit a “minchiarimento” ce lo dice la stessa Solnit ancora una volta lì, nel libro citato in nota in Stai zitta, pagina 20: mansplaining, «invece di enfatizzare il fatto che alcuni uomini spiegano cose che non dovrebbero spiegare e non ascoltano cose che dovrebbero ascoltare, mi sembra accentui un po’ troppo l’idea che sia un difetto insito negli uomini».

I tentativi di tradurre in italiano termine e concetto inglesi sono stati vari: le alternative non mancherebbero. Ma non si può negare che, ricorrendo ad adattamenti come “spiegazione maschia”, il contributo dato dalla minchia alla causa della lotta contro le discriminazioni di genere si perderebbe del tutto.

Potremmo andare avanti a lungo con tanti altri esempi di argomenti facilmente confutabili, tra assolutizzazioni che si traducono in banalizzazioni (che in nessun modo possono essere giustificate dalla chiara volontà di far arrivare il libro a quanti più lettori possibili) e sciatterie di varia natura (cougar che a pagina 86 passa per «aggettivo»: è sostantivo), ma in conclusione tocca tornare al primo passo citato, quello contenente l’espressione «uomo/donne di colore».

Dicevamo: il suo uso è detestabile sempre e comunque, ma appare a dir poco incredibile (e amareggia ancora di più) che figuri in un libro interamente dedicato a lingua, linguaggio, comunicazione e discriminazione. E che nessuno abbia notato l’incongruenza prima che il testo venisse stampato, dice molto della cura con cui di Stai zitta è stato confezionato. Non dovrebbe servire un docente di Antropologia culturale per spiegare, nel 2021, quanto l’espressione sia esecrabile. Ma a quanto pare serve. Ci rivolgiamo allora a Marco Aime, che scrive: il colore della pelle

a partire dalle prime teorie razziali e fino a oggi è diventato un indicatore di qualche altra e piú profonda differenza, cosí onnipresente che è quasi impossibile per alcune persone separarlo dal concetto. L’esempio piú ovvio è la negativizzazione delle persone provenienti dall’Africa, che hanno sofferto terribilmente il razzismo sulla loro pelle (…). Tutti gli stranieri sono altri da noi (…), ma qualcuno sembrerebbe essere piú altro degli altri e questo qualcuno è il nero. Non a caso quando, eufemisticamente – ma sarebbe meglio dire ipocritamente –, usiamo l’espressione “uomo (o donna) di colore”, di fatto pensiamo solo ed esclusivamente a qualcuno che ha la pelle nera. (…) l’espressione “uomo di colore” nasconde solo la percezione che i bianchi hanno di loro stessi, cioè di persone che non hanno colore. Non usiamo la stessa espressione per definire i cinesi e gli indiani: è un eufemismo ipocrita per non dire “nero” o africano.

La citazione viene da Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, pagine 29-31. È uscito nel 2020: per Einaudi. La stessa casa editrice per cui sono usciti tutti i libri di Chimamanda Ngozi Adichie, anche lei citata in Sta zitta. Chissà che penserebbe l’attivista e scrittrice africana di un libro scritto per denunciare le discriminazioni in cui lei è fatta rientrare nella categoria “persona di colore”.

Varrà a questo punto la pena citare i paragrafi finali di Stai zitta:

Nel momento stesso in cui ho deciso di scrivere questo libro sapevo che ci sarebbe stato qualcuno pronto a dire che non sono queste le battaglie che contano e che, con tutto quello per cui occorre ancora lottare, è quantomeno laterale andare a fare le pulci proprio al linguaggio. La penso esattamente all’opposto. Sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto vive quella semantica, che è una tragedia etica. (…) nella nostra quotidianità essere etici significa soprattutto scegliere di trattare le cose nominate cosí come le abbiamo nominate. (…) La politica del linguaggio in questo scenario non sembra la cosa piú importante da perseguire, ma è invece quella da cui prendono le mosse tutte le altre, perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo per abitarla.

Già.

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