Lidia Lombardi
Al Fringe festival di Roma

Disunità d’Italia

“L'amara unità", da un testo di Dora Liguori, racconta i conati rivoluzionari che condussero alla nascita dell'Italia. Ma invece di guardare la storia dalla parte dei Savoia, per una volta i fatti sono analizzati con l'occhio del Mezzogiorno

C’è stata anche l’Unità d’Italia vissuta come una tragedia dal Sud tra le messinscene della nona edizione del Fringe Festival di Roma, che ha come non mai riflettuto sul teatro a margine (il primo Fringe nacque ad Edimburgo per rappresentare gli allestimenti rimasti fuori dal Festival ufficiale della città scozzese, un’ubriacatura di spettacoli lungo tutto il mese di agosto): perché in quest’anno pandemico il teatro è rimasto in apnea, marginalizzato appunto dalla politica che si è mostrata sensibile più alla sopravvivenza dei centri commerciali che a quella di quanti calcano le tavole di un palcoscenico. E se davvero dal 26 aprile le sale riusciranno a riaprire per spettatori “mascherati” e distanziati, il Roma Fringe Festival – che si conclude oggi, 24 aprile, dopo una settimana di rappresentazioni ospitate dai teatri Eliseo e Vascello e fruibili in streaming  su www.teatro.it – è stato l’anteprima e il corollario della attesa resurrezione. Ma ha anche avuto una sezione in più e innovativa, come nata dalle imposizioni del Covid: il Fringe Tube, che ha proposto soltanto messinscene pensate per la fruizione on line, una modalità tutta da esplorare, ovviamente da non paragonare allo spettacolo dal vivo – che è ragione e sentimento, carne e intelletto, respiro e sudore faccia a faccia con gli spettatori seduti in platea – ma che dimostra “quanto la creatività non si fermi”, ha detto il direttore della kermesse, Fabio Galadini.

Ma torniamo al Risorgimento visto dalla parte dei briganti. È il tema a taglio revisionista di L’amara unità, spettacolo andato in scena tra i ventuno inediti di questa festa del teatro indipendente, leggasi orfano (o libero) dei pubblici finanziamenti. Il riadattamento in forma teatrale del romanzo di Dora Liguori, storica, musicista già cantante lirica, si è affiancato a proposte che hanno parlato di donne e di maternità, di nuovi futuri e ambiente, di digitale e orizzonti. Ed è stato probabilmente il testo più controcorrente proprio nel suo essere tradizionale e nel ribaltare la storiografia ufficiale. Un “pallino” della Liguori, che proprio recentemente con il romanzo Carulì, si m’amave, ha squarciato i tradimenti degli intellettuali liberal-illuministi e dei loro alleati francesi e inglesi durante le tragiche giornate della “Repubblica Napolitana” del 1799. La drammaturgia si apre ai tempi d’oggi, mentre in un’osteria un giovane avventore ascolta dalla tv piazzata nel locale il discorso del presidente Mattarella che celebra i 160 anni dalla Unità d’Italia. Compare dal fondo nero – tunica e cappuccio rosso – uno strano personaggio che lo ammonisce tra il serio e il faceto: “Prima c’anno arruvinati e mo’ dovimmo festeggià?”. E via con la storia del re sabaudo e del re borbone, che quel munaciello, fantastico io narrante preso dalla tradizione napoletana, squarcia dal proprio particolarissimo punto di vista: “C’era un re che si voleva prendere tutti i soldi del Sud e si appoggiò agli inglesi…”. Ecco l’invasione del Regno di Napoli, la fuga di Franceschiello a Gaeta, il sostegno per vie traverse di Isabella regina di Spagna che invia a Potenza, centro della rivolta borbonica, il capitano Aldrigo Seguerto con il compito di agganciare i briganti guidati da ‘o Generalissimo Carmine Crocco al generale iberico Josè Borghes. Lo aiuta dandogli parecchie soffiate la baronessa Argenzia Normanno, che a differenza del marito Vituccio – prono ai conquistatori perché “ciò che conta è sopravvivere e per sopravvivere occorre tacere” – si batte per salvare l’onore e non essere tra “i servi in casa propria”. E che si innamora del coraggioso capitano, ricambiata con ardore “rivoluzionario”.

L’azione – che si svolge spartanamente su un medesimo sfondo nero dal quale emergono di volta in volta i personaggi – si sposta da Melfi al carcere di Salerno, dove Aldrigo è imprigionato dopo essere stato tradito da chi preferisce trasformarsi da borbonico a filosabaudo. L’epilogo è un acme tragico, che in qualche modo ricorda – rovesciandolo – quello della Tosca di Puccini. Argenzia riesce a penetrare nelle segrete di Salerno e a incontrare Seguerto: più che dalla esecuzione è terrorizzato da ciò che verrà prima, la tortura, che potrebbe costringerlo a rivelare ai nemici preziose informazioni. La baronessa non esita: estrae la pistola e, nell’ultimo abbraccio, gli spara un colpo di pistola, liberandolo per sempre dal dolore e dall’angoscia. “Memento domine” commenta nell’epilogo il Munaciello: “tutti dicono che non è vero niente, ma tu, Signore, ricordati delle sofferenze del popolo del Sud”.

Un dramma, Quell’amara unità, memore degli eroi coraggiosi innestati negli sconvolgimenti della Storia che popolano i melodrammi, da Andrea Chenier a Fidelio. La compagnia “Assoteatro”, proveniente da Battipaglia, si è giovata della essenziale regia di Vito Cesaro. Gli interpreti – agili nel dialetto campano – sono stati Marco Junion Marrone, Filippo D’Amato, Dora Crudele, Eduardo Di Lorenzo, Christian Salicone. Uniti nella scena finale come in un tableau vivant nel quale il Tricolore è ammainato e trionfa quello con lo stemma sabaudo.

Il vincitore del Roma Fringe Festival – giuria presieduta da Manuela Kustermann, proclamazione il 26 aprile al teatro del Vascello – avrà l’opportunità di questi tempi rara: una tournée di dodici date nei teatri che compongono la rete di Zona Indipendente, dislocati su tutta la Penisola e che si sono messi in gioco per creare una rete Fringe nazionale.

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