Andrea Carraro
A proposito de “La città dei vivi”

Sul fondo di Roma

Nicola Lagioia ricostruisce con rigore e freddezza il caso Varani: un omicidio sospeso tra il bene e il male della Capitale. Ne è nato un bel libro di inchiesta, un romanzo verità su una città terribile e nascosta, che ricorda le pagine di Capote

Antefatto necessario per spiegare come mai mi sono trovato a leggere questo romanzo di cui sto per dirvi, di un autore che frequento poco e che mi capitò anche di stroncare ai suoi esordi.

Dunque, alcuni anni fa un giovane editor-scrittore di una grande casa editrice – Tommaso De Lorenzis – mi propose di scrivere un libro reportage-narrativo sul caso Varani che era successo da poco, il 6 marzo del 2016. Tu hai scritto Il branco, mi disse, potrebbe essere nelle tue corde! Io rifiutai perché ero impelagato in altro e perché, boh, per insicurezza sulle proprie capacità, per la truculenza della vicenda, che non sentivo abbastanza vicina, anche se vicino era il teatro dove si era svolta, periferia est, Collatino, via Igino Giordani, non lontano dal mio quartiere, in linea d’aria, una via che è divenuta presto rinomata, come luogo maledetto, e poi certi dintorni tiburtini che conoscevo bene. Ma continuai a pensarci a quel fatto, mi ronzava in testa, ne seguivo gli sviluppi, ogni tanto ci passavo con la macchina, fra quei palazzoni bicolori del Collatino, per dare un’occhiata… insomma mi lavorava dentro.

Poi non ci ho pensato più, finché non è uscito questo libro di Nicola Lagioia, che è la realizzazione puntuale, esemplare, di quel progetto. La città dei vivi (Einaudi) è un libro che avrei voluto e forse potuto scrivere io!  Ecco, quindi, la ragione, il cortocircuito che mi ha portato a leggerlo, e a leggerlo con uno sguardo un po’ viziato da questo antefatto autobiografico. Vediamo come se l’è cavata lui, mi feci.

L’inizio più giornalistico, di taglio sociologico, alla ricerca di un qualche Genius loci romano perverso nel degrado, nella corruzione della capitale, nella cattiva gestione dei rifiuti, ecc., serve forse all’autore per carburare e al lettore per prendere le giuste distanze con il contesto particolarmente torbido e crudo; perché si tratta di un libro-verità scomodo, questo di Lagioia, non lo abbiamo ancora detto, che ricostruisce un fatto brutale di cronaca nera avvenuto di recente, nel 2016, nel quartiere Collatino; una non fiction novel, un genere ibrido giornalistico-narrativo, praticato anche in Italia da Saviano (Gomorra), da De Cataldo (Romanzo criminale), lo sappiamo, ma questo ultimo romanzo dell’autore pugliese Lagioia mi ha fatto pensare proprio al capostipite di questo genere narrativo, per alcune somiglianze delle vicende, a quel A sangue freddo di Capote per quanto inarrivabile, che parlava a sua volta di due omicidi confessi che avevano sterminato una famiglia di pacifici agricoltori del Kansas – Midwest degli Stati Uniti – nel 1959, che vennero condannati a morte (impiccati) e che il grande scrittore americano fece rivivere in quel meraviglioso libro. Si raccontano dei fatti veri – realmente accaduti, accertati, cercando di inventare il meno possibile, questo l’assunto di tale genere narrativo con alcune clausole stilistiche al suo interno, che poi ciascuno scrittore interpreta a suo modo.

Nella prima parte Lagioia presenta opportunamente il contesto socio-familiare in cui si muovono i tre attori in gioco: la vittima, il giovane Luca Varani, e soprattutto i due assassini, uno dei quali dichiaratamente gay, Marco Prato, che vorrebbe farsi operare per diventare femmina, e ama travestirsi da donna, e l’altro, Manuel, un etero con qualche inclinazione omosessuale, terrorizzato dall’idea di essere considerato frocio, assillato dalla figura paterna, con pesanti problemi di identità, entrambi dediti all’alcol e al sesso promiscuo, creativo, estremo, a un abnorme consumo di coca, molta vita notturna, fra puttane e ragazzi di vita. Entrambi benestanti nel complesso, i due assassini confessi, l’uno figlio di un piccolo imprenditore, proprietario di un ristorante, il Bottarolo, in un luogo che conosco, in zona Tiburtina-Cave di Pietralata; l’altro brillante organizzatore di eventi mondani; si mettono insieme, si sballano insieme, ma non mi va di raccontare la trama, che comunque è ben resa, con un’efficace tessitura romanzesca, molto precisa nei riferimenti (atti processuali, lettere, interviste ai parenti, messaggi WhatsApp…).

Quello che conta è che i due stringono una strana relazione fatta di attrazione e repulsione, di una confidenza sempre maggiore, ma nelle loro fantasie erotiche sadomaso ci sta spesso qualcun altro a completare il quadro, un terzo; quella sera, per esempio, vorrebbero tanto inscenare uno stupro, questa è la loro fissa erotica, per suggellare la loro unione, cui tendono oscuramente ad attribuire quasi un valore esoterico, propiziatorio, che tuttavia comprendono solo a ritroso, a fatto avvenuto, – insieme a molti sogni e progetti per fare un sacco di soldi, figli dello sballo e del loro perverso fantasticare. Marco Prato si vuole vestire da femmina, vuole trovare l’occasione per farlo, ha già tutto l’occorrente con sé, lì in quell’appartamento dell’amico dove soggiorna da vari giorni, abbrutiti dall’alcol e dallo sballo di coca continuamente rinnovato da nuove pippate; vogliono stuprare qualcuno o qualcuna, solo inscenare lo stupro, hanno bisogno di una vittima consenziente, uno che si presti al gioco. Niente di più facile. I soldi per pagarlo li hanno, sono pieni di cocaina, qualche soldo ancora gli resta,  – non dormono da giorni, – escono nella notte, nelle prime luci dell’alba anzi, con l’intenzione vaga di rimorchiare qualcuno o qualcuna, da portarsi subito a casa, Marco tutto travestito com’è, pelliccia, tacchi a spillo, tutina leopardata… – si mette per qualche minuto a battere in mezzo alla strada, mentre l’altro aspetta in auto, poi non rimorchia nessuno e rinuncia; dopodiché convocano a casa altre persone, facendo una specie di macabra lotteria, tramite telefonino, fra cui il lavorante del ristorante paterno, che gli porta anche della vodka e delle sigarette, ma poi non si trattiene e quasi scappa spaventato dal loro stato, dal travestimento di Marco, dalle condizioni generali dell’appartamento dove ristagna il vizio e l’abiezione di giorni. Finché è il turno di Luca, che capita per caso dentro il loro cerchio perverso, accettando via cellulare, via WhatsApp, di passare con loro la nottata con idea vaga di bagordi sessuali e cocaina sotto compenso in denaro, di cui ha urgente bisogno. Lui, Luca, non è gay, ha la sua fidanzatina, progetti matrimoniali, di ceto molto più basso dai due assassini, per questo l’episodio venne giornalisticamente associato a quello del Circeo. Ma ogni tanto fa una marchetta, Luca Varani, per arrotondare, accetta un pompino da qualcuno, per 50 euro, perché i soldi anche a lui non bastano mai, essendo anche lui un consumatore di cocaina, e la marchetta di quella sera finisce nel più tragico dei modi. I due lo attirano nella rete promettendogli 150 euro da intascare subito, appena arrivato, tre bei bigliettoni già pronti sul mobiletto dell’ingresso, ma senza ancora un progetto preciso, attenzione, c’erano stati discorsi fra loro su un ipotetico omicidio da compiere insieme in futuro per suggellare con un mistico sacrificio la loro unione, il loro sodalizio, ma pensavano a quello del padre di Manuel, per soffiargli l’attività, casomai, per punirlo della sua cattiveria, e comunque solo vaniloqui nel pieno del delirio chimico/alcolico; per ora soltanto l’idea di un stupro da inscenare opportunamente dentro casa, dunque (Marco doveva interpretare la donna nel triangolo ipotetico). Ma poi tutto accade naturalmente, ineluttabilmente, drogano il ragazzo, con la cosiddetta droga dello stupro, l’Alcover, dopo essersi scambiati una certa occhiata “Non appena l’ho guardato ho capito. – racconterà Manuel agli inquirenti, – Ho guardato lui. Poi ho guardato Marco, e come se mentalmente ci fossimo detti è lui. Fra me e Marco è scattato come un tacito accordo”, l’Alcover è una droga che quasi paralizza la vittima, e la fa stare male; lo seviziano, il povero Luca Varani, lo legano, lo uccidono a coltellate…. ma lui non muore subito e loro si accaniscono. Fino alla coltellata fatale, definitiva, di Manuel forse, con un coltello da cucina, alla giugulare. Il povero Varani muore dissanguato, massacrato da una quantità pazzesca di coltellate e martellate. Ma l’autore la narra senza compiacimenti splatter, questa parte, con una narrazione raggelata e quasi una ritrosia nel racconto. Questa è la parte più riuscita per me, – il “cuore nero” del libro di Lagioia. Ma è ben risolta anche l’ultima parte, quella dell’arresto, ripreso dalle prime pagine, del carcere e del processo, dove si precisano ancora meglio i caratteri dei due assassini, uno dei quali si suiciderà in carcere a Velletri, mentre l’altro si beccherà 30 anni ed è tuttora in galera.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere, ma perché dare dignità letteraria a dei personaggi che potrebbero restare confinati nell’ambito della cronaca nera? Perché leggere un libro così crudo e disturbante? Lo chiedevano anche a me ai tempi del Branco. Beh, forse perché quel male ci riguarda e potrebbe raggiungerci – a noi, ai nostri figli – per contagio, in ogni momento; poi perché per quanto aberrante nella ricostruzione di Lagioia, scatta l’identificazione con i personaggi, come succede nei romanzi autentici, veri o inventati che siano; identificazione con la vittima, dunque, ma anche con gli assassini, che inquadrati nel loro habitat sociofamiliare, ci appaiono come dei perdenti, vulnerabili, disadattati, infelici: Marco dietro il suo esibizionistico narcisismo, aveva già tentato il suicidio tre volte, Manuel vessato psicologicamente dal padre, con la madre schizofrenica, incapace di inserirsi socialmente, incapace di dominare certi impulsi sadici e violenti… L’autore non cerca di spiegare/giustificare l’inspiegabile, quell’abisso di orrore e di violenza insensata, gratuita, in cui sono caduti… A questo proposito il colonnello dei carabinieri Donnarumma, da lui intervistato, gli confida di essere rimasto molto turbato da quello che trovò in quell’appartamento, nonostante i suoi trent’anni di esperienza, dalle condizioni del cadavere, dal tipo di lesioni che aveva sul corpo, e di aver avvertito addirittura la presenza del Diavolo: “se si immaginava il male come possessione, si poteva combatterlo senza perdere del tutto la speranza negli esseri umani.”. Chi la racconta questa storia, infine, non se ne sente del tutto estraneo e immune: Lagioia riferisce di un certo periodo nebuloso della sua giovinezza pugliese, durante il quale aveva avuto una concreta paura di perdersi e di fare del male…

Insomma, un romanzo-verità, un romanzo-reportage, una non fiction novel, chiamiamola come vogliamo, ben scritta, onesta, che sarebbe stata anche migliore, a dirla tutta, se sfrondata di qualche annotazione sociologica soprattutto all’inizio, sul degrado romano, la gestione dei rifiuti, l’invasione dei topi, o da alcune parti autobiografiche, andando a pescare nelle pagine sul suo rapporto con Roma, il prestigioso incarico a Torino che non poteva rifiutare, mentre il processo era in corso, ecc. Roma che diventa quasi un altro personaggio, è stato scritto da molti critici che lo hanno recensito – Fofi, Policastro, Siti ecc. – una Roma malata, degradata, corrotta, ma anche ultra-vitale, notturna, scintillante, capace di esercitare fascino maledetto e magnetismo negli occhi (e nella penna) di chi romano non è.

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