Ettore Catalano
Viaggio nella Commedia/7

Oltre Dante

Nel XXXIII Canto del Paradiso, Dante affronta la questione cruciale della fede: come si può "vedere" Dio? L'unica possibilità è eccedere ogni umana misura. Ed è proprio questo ciò che alla fine il mistico Bernardo di Chiaravalle chiede alla Madonna per il poeta/personaggio

Dante sceglie Bernardo di Chiaravalle, cistercense, come guida del pellegrino per la Candida Rosa e per la visione dell’Empireo, in quanto espressione più alta nel campo della teologia mistica, non per l’influenza della sua teologia mariale che lo rendeva il santo più di tutti pronto a elevare alla Vergine la sua preghiera. La teologia mistica lo rendeva invece maestro dell’ascensione nel grado intuitivo e mistico che porta all’unione con Dio. Probabilmente Dante trae le sue indicazioni dalla filosofia e dalla teologia francescana, non certo dalla scuola domenicana che vedeva nell’opera di Gioacchino da Fiore un pericolo.

La preghiera alla Vergine è però tutta dantesca e riprende motivi mariologici di diversa origine e provenienza, ma il culmine supremo della visione è la conoscenza intuitiva in cui l’anima attinge l’infinità di Dio senza perdere la sua individualità. Bernardo di Chiaravalle era una personalità complessa cui si deve il febbrile intervento nella società politica e religiosa del tempo, lottò contro la corruzione e i vizi dei prelati, predicò crociate e ebbe un ruolo dirimente nei contrasti politici dell’Europa del suo tempo e nelle vicende legate all’antipapa Anacleto II e nella lotta contro le eresie, perciò ardore polemico e distacco dai valori terreni sono alcune delle sue caratteristiche. L’intimità e la ricchezza espressiva della teologia mariale di Bernardo trovarono poi eco nei maestri francescani di teologia del secolo XIII, ma occorre ricordare che il francescanesimo dantesco appare sorretto da una vena moderata ed equilibrata che, centrata sulla povertà, rifiuta tanto la ribellione degli spirituali di Ubertino da Casale quanto l’allontanarsi dalla regola dei conventuali di Matteo d’Acquasparta.

L’orazione di San Bernardo alla Vergine si articola secondo l’uso della retorica classica e cristiana in due momenti. Il primo (vv.1-21) è costituito dalla complessa invocazione in cui il santo canta le lodi di Maria, il secondo (vv.22-39) dalla supplicatio vera e propria. Molti critici ritengono che Bernardo preghi Maria di preservare Dante dal ricadere nella colpa invocando per lui, tramite la Vergine, il dono della perseveranza finale, cioè di persistere nella luce della grazia senza più peccare fino alla morte.

In realtà Dante ha già espresso in veste di personaggio tale concetto nel XXXI Canto, ai versi 88-90 nel suo recentissimo colloquio con Beatrice. La grazia è già stata invocata e il sorriso di Beatrice sta a significare che la sua preghiera è stata accolta ela domanda è: perché ripetere tale passaggio con le parole di Bernardo quando il tema della colpa di Dante personaggio è concluso e il pellegrino può finalmente avviarsi verso la beatifica visione? Il graduale assuefarsi degli occhi di Dante alla luce dell’empireo, come gli ha già detto il santo cistercense nel XXXI Canto, è stato già accompagnato dal motivo, sempre in quel canto, dello stupore del pellegrino e dal motivo della inadeguatezza delle sue doti fisiche di uomo di fronte alla sovrumana visione. Nel successivo Canto, il XXXII, sempre il santo lo ha invitato a guardare la Vergine per addestrarsi a sostenere la visione di Dio.

Perugino, “Apparizione della Vergine a San Bernardo monaco”

Eppure, questo complesso training non è sufficiente, perché un abisso separa i mezzi personali di Dante da Dio. Perché tale miracolo avvenga è necessaria l’intercessione della Vergine. Verso la fine del XXXII Canto, è proprio Bernardo a introdurre la parola-chiave dell’ultimo Canto: per giungere alla visione di Dio il pellegrino dovrà OLTRARSI compiere un OLTRAGGIO, eccedere, cioè, ogni umana misura.

Conviene, per comprendere pienamente, l’ardua difficoltà esegetica dell’ultimo Canto, tenere insieme i due motivi conduttori: l’ineffabilità dell’ultima ascesa e la ragione artistica di accentuare l’epica grandezza del Dante-personaggio che la compie. Ecco la ragione sostanziale e non supplementare delle parole di quel gigante della teologia mistica, Bernardo di Chiaravalle, che Dante colloca accanto al Dante-personaggio per impetrare dalla Vergine il privilegio dell’oltraggio, senza il quale non potrebbe accedere alla visione dell’ultima salute.

Bernardo, articola la sua supplica in tre momenti in cui chiede alla Vergine tre grazie distinte: il supplemento di potere necessario perché gli occhi di Dante-personaggio arrivino a vedere Dio, la liberazione di Dante dai ceppi della sua condizione mortale perché possa godere appieno del “sommo piacer” e infine chiede alla Vergine che l’anima, i sentimenti e gli affetti di Dante non siano inebriati e sconvolti ma rimangano sani, affinché egli possa  portare impresso in essi e narrarlo dopo, qualcosa di ciò che ha provato se non tutto ciò che ha visto.

Le tre grazie sono dunque vedere, sentire, ricordare, sono i tre punti capitali nella teologia del raptus. E allora la terzina finale (“Vinca tua guardia i movimenti umani”) non ripete i concetti espressi nei versi precedenti, ma vuol dire che la Vergine deve assistere Dante nella prova suprema e supplire alla fragilità umana del pellegrino che non potrebbe altrimenti sostenere la visione di Dio e l’esperienza di quella letizia infinita. Solo garantendo a Dante la sanità durante la visione se ne conservano sani gli affetti per ciò che lo attende dopo.

Il rapimento estatico, ricorda Tommaso nella Summa, in un certo senso è proprio della profezia. Sia il profeta che l’uomo nella forma più elevata di rapimento estatico vedono l’essenza di Dio, tuttavia, dal momento che Dio trascende l’intelletto creato dell’uomo, la creatura ha bisogno di un dono speciale della grazia per contemplare l’essenza del creatore: il lumen gloriaeconcesso, insieme al raptus e alla visione dell’essenza di Dio, solo a due uomini mentre erano ancora in vita, Mosè e Paolo.

Oltrepassato lo stadio umano di Enea, Dante si misura col raptus sovrumano e ineffabile di Paolo e la grandezza epica del personaggio Dante consiste nella capacità di superare il proprio timore con un coraggio consapevole delle proprie forze, ma anche dei suoi umani limiti, che solo la grazia divina può estendere secondo i suoi imperscrutabili fini.

Filippo Lippi, “Apparizione della Madonna a San Bernardo”

L’insistenza del motivo poetico della luce ha poi la funzione di drammatizzare l’ascesa e di preparare il personaggio e il lettore all’ultima indicibile visione. Al progressivo intensificarsi della luce corrisponde l’assuefarsi di Dante tramite il processo per cui eccede, per successivi interventi di grazia, la capacità di volta in volta raggiunta. L’ultima visione è un istante in cui la mente e gli affetti di Dante sono posti a sovrumana prova. Senza l’intervento miracoloso di una specialissima grazia essi non potrebbero non disviare. La visione è momentanea, ma è un istante in cui la dimensione temporale del viator si allunga nella durata eterna di Dio. Qui i sensi del pellegrino potrebbero sviarsi e naufragare o rendersi inetti, dopo tanto vedere, a trasformare in parole ciò che hanno provato, ma è proprio qui che la preghiera di Bernardo rivela il suo potere profondo, sdipanando nel Canto il motivo del sentire, la dolcezza distillata della visione, il godimento di quel che s’è visto, la dilatatio dei mistici.

Sarebbe una inspiegabile caduta di stile e di forza espressiva pensare che la preghiera di Bernardo serva solo a impedire a Dante di ricadere nel peccato, una volta ritornato sulla terra. Questo gli è già stato consentito, tra gli altri, da Beatrice e dal coro dei santi. In realtà, al pellegrino è stato concesso un ultimo supremo dono, vale a dire l’esemplare interdipendenza, su piani distinti, di accedere all’eterna beatitudine e di narrare il tema di quel miracoloso viaggio col soccorso di una preziosa e divina musa. In altre parole, una volta conclusosi il viaggio, non è conclusa la missione del poeta che deve riprendere la sua vita terrena e raccontarlo. Il suo è stato un viaggio verso la salvezza e simultaneamente un viaggio verso il poema, un viaggio che in ogni punto esplora la possibilità di articolarsi linguisticamente come tema poetico. L’umanità di Dante è una cosa sola col suo bagaglio dottrinale e intellettuale: l’invenzione poetica combatte fino all’ultima frontiera del dicibile, articolando così quell’oltraggio, quell’andare oltre nel quale misticismo e poesia si reggono a vicenda.

Eppure, detto tutto ciò, a conferma di quanto sia importante considerare la struttura entro il farsi concreto della poesia, bisogna pure dire che la strategia espressiva dantesca sta proprio nel celebrare la poesia proprio mentre afferma l’impossibilità di fare poesia: Dante è un poeta che crede in quella visione perché può raccontarla e provare piacere raccontandola. In molti passi del Canto, il carattere arduo della materia gli suggerisce, come si è visto, un linguaggio irto di filosofia e di teologia, ma il poeta Dante sa che al suo lettore, cui si rivolge in volgare e non nella lingua dei dotti, il latino, sarà soprattutto gradita e comprensibile una espressività di tipo poetico e così deve ricorrere al linguaggio della similitudine, al discorso metaforico.

Da tale punto di vista, l’intero Canto XXXIII è un’esplosione di metafore che riassumono le immagini, derivate dalle Scritture e dai classici, disseminate in tutto il poema. Il poeta deve affrontare due livelli di difficoltà estrema: riportare la sua visione alla memoria e tradurla in parole, e, in secondo luogo, spingere il suo intelletto completamente nell’essenza di Dio. Ai versi 58-63 ci riporta la prima similitudine con parole tratte dal mondo sensibile: il problema dell’oblio e della inadeguatezza del linguaggio veicola immagini come quella della neve che si scioglie (già usata nel XXX del Purgatorio) e come quella virgiliana di Sibilla (III libro dell’Eneide) che Dante riutilizza, dopo tredici secoli, per dirci non solo l’inadeguatezza della poesia, ma anche il suo potenziale profetico (quelle di Sibilla erano profezie). E perciò ritorna l’immagine del sognatore (già utilizzata da Dante nel Convivio proprio per dichiarare la difficoltà per l’intelletto umano di accostarsi,”se non come in sogno” all’eternità) e viene a saldarsi col valore divinatorio dei sogni per tutte le cose divine ammesso da Tommaso, quella divinatio per somnium che il Medioevo aveva ereditato dal neoplatonismo e dalla cultura araba.

Nella seconda similitudine, troviamo un blocco di parole austere perché la sfera della geometria è il mondo dell’intelletto: in questo secondo blocco, a una riprova della sua imponente dottrina filosofica, scientifica e teologica, troviamo il tentativo di Dante di contemplare-descrivere il mistero come se si trattasse di una dimostrazione scientifica. E infatti il poeta diventa come il geometra e la geometria è la scienza dimostrativa per eccellenza. Lo sforzo finale di Dante per comprendere è dunque paragonato all’attività del geometra che tenta di dimostrare ciò che dimostrabile non è, vale a dire il punto e la quadratura del cerchio. Arrivati a questo punto, la visione svanisce e la geometria diventa la metafora austera e tesa delle fasi finali dell’ascesa di Dante e il cerchio è quel cerchio dove viene meno l’alta fantasia e l’intelletto non funziona più.

Ora, col verso 115, Dante si trova davanti ai tre cerchi della Trinità che deve guardare e descrivere: l’insieme di immagini con cui  Dante descrive la Trinità gioca tra esplosione e implosione, splendore e riflessione: con i tre cerchi evoca la natura circolare dell’universo, mentre i versi  richiamano da vicino la dottrina della Chiesa, e la voce di profeti come Ezechiele e perfino, nella preferenza  assegnata al cerchio piuttosto che al triangolo che la teologia occidentale utilizza per il mistero supremo, sembra accennare al Liber Figurarum dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, in cui tre grandi cerchi con uguale circonferenza si intersecano l’un l’altro e il terzo cerchio, quello  dello Spirito Santo, è rosso come il fuoco. Dante non accetta la concezione eretica del calabrese, ma può aver subito il fascino di quelle immagini e di quel pittorico linguaggio profetico. Quel che è invece certo è che la rappresentazione della Trinità offerta da Dante rimane misteriosa come il poeta voleva che fosse. E non è casuale che, sull’immagine del cerchio, il poeta senta mancare il potere della sua parola, sommerso e travolto dall’”amor che move il sole e l’altre stelle”, e cioè il desiderio e la volontà sono fatti girare come una ruota da Dio. Le tre parole primordiali, amore, sole e stelle chiudono il Canto in un cerchio che ora appare completo, se non ci fosse quella “ruota” che potrebbe implicare un movimento che pare rifiutarsi di finire e ritornare al punto da cui è partito. Forse  la Creazione continua, come intuì Eliot nel secondo dei Quattro quartetti, quando scrisse “ in my beginning is my end/ in my end is my beginning…nel mio principio è la mia fine, nella mia fine è il mio principio”.

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