Danilo Maestosi
A Palazzo Altemps di Roma

I giocattoli di Savinio

Una grande mostra curata da Ester Coen mette le opere di Alberto Savinio a confronto con l'estetica classica. Ne risalta un grande artista votato alla "commedia", in grado di giocare con i miti del passato e con gli incanti del presente

Chissà con che stati d’animo Alberto Savinio avrebbe attraversato la prima grande sala della mostra che palazzo Altemps, a Roma, dedica al suo inafferrabile talento di affabulatore, incorniciando questa ricca rivisitazione con un titolo che accoppia al suo nome d’arte i due enigmi, incanto e mito, che hanno popolato di guizzi la sua vita e la sua carriera di pittore? Là, in quel corridoio lungo e stretto che porta verso il cuore del museo, l’ala dove sono esposti i cimeli antichi più importanti, la curatrice Ester Coen ha voluto raccogliere, con un prezioso colpo d’ala, oltre una dozzina di quadri realizzati tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, che declinano in vari modi uno dei leitmotiv ossessivi della sua iconografia: le forme stralunate e trasfigurate dei suoi giochi e delle sue fantasie d’infanzia riscoperte come chiave per rileggere le infinite mutazioni della propria anima e del mondo.

Sì, una sorta di discarica dei giocattoli abbandonati del suo tempo bambino, da cui ripescare, di volta in volta, quinte e impalcature di nuovi palcoscenici nei quali rimontarli come tasselli saccheggiati e riusati per ripercorrere altre storie.

Dedicare ai giochi un monumento, come in quella tela anni 30, dove ne affastella a grappoli i frammenti fino ad erigere una sorta di castello di fate che svetta sul cocuzzolo di una montagna contro un cielo di nubi marroni. O trasformare in un «Ile de charmes» (1928) il tenebroso profilo di un noto capolavoro di Boecklin, padre precursore del surrealismo, sostituendo ai cipressi dell’originale i ricami di un cumulo di scatoloni, scacchieri, sarcofaghi istoriati. O con l’aggiunta di un albero, una randa e qualche vela di cartapesta ridestare il volo di un vascello fantasma (1928). O rendere omaggio ai Re Magi (1929) modellando come una zattera imbottita da pennacchi, ovetti, calamite, trottole l’apparizione della cometa che li avrebbe guidati a Betlemme.

O ancora servirsi di tappeti di oggetti di svago per evocare gli ultimi guizzi di vita che emanano in fuga dalle rovine di Sodoma (1929) e di Gomorra (1929). Un immaginario di colori vivaci, come quelli che oggi ostentano i mattoncini di Lego, di volumi e contorni netti e traslucidi che però in alcuni dipinti sfiocca in superfici appannate come se quelle forme fossero dolci di zucchero filato, torte che un piccolo ha cominciato a sfarinare con la lingua.

E torniamo alla domanda iniziale. Chissà come avrebbe reagito l’autore specchiandosi in questi quadri, che segnano comunque il suo esordio ufficiale sulla scena della pittura?: la prima mostra, preparata per quasi un anno, è del 1927 a Parigi, la città che lo aveva accolto un decennio prima come pianista, compositore, e scrittore, spalancandogli la porta dei salotti delle avanguardie.

Probabilmente la prima reazione sarebbe stata di fastidio: la ritrosia di chi si è messo a nudo e teme di essersi sbilanciato. La seconda, il timore, forse, di un viaggiatore che si posteggia nell’infanzia come Ulisse nella sua Itaca, rinviando la partenza e la vocazione a cercare altri approdi.

Ma poi infine, perché no?, l’orgoglio e la soddisfazione, visto che comunque quel suo mettersi in gioco nella stanza dei giochi ha funzionato e funziona ancora, come un racconto ben scritto. E poi chi interrogare davvero, visto che la sua identità, Andrea De Chirico, è stata cancellata da uno pseudonimo che nessuno inspiegabilmente sa spiegare come sia nato? Passi il nome Alberto, che forse deriva da quel vezzeggiativo femmineo, Betty, con cui lo chiamavano in casa. Ma da dove viene quel Savinio, che poi in un suo romanzo anagrammerà in Nivasio?

L’ipotesi più probabile è che a guidarlo sia stato soprattutto il bisogno di smarcarsi da un’ombra che lo schiaccia da tempo: quella del fratello maggiore, Giorgio De Chirico, più famoso e osannato che, a differenza di lui, diplomato in pianoforte, la pittura l’ha studiata davvero, e gliene ha trasmesso la passione e qualche segreto. Anche se nel conto del dare e dell’avere Savinio rivendica l’influenza che ha esercitato con una sua operetta, scritta e musicata, Il Canto della mezza morte, nella nascita dei paesaggi metafisici del fratello.

Tentativo fallito in partenza. Perché anche questa mostra, che pure rinuncia volutamente di chiamare in scena Giorgio, finisce inevitabilmente per riproporre il confronto. Partendo dalle evidenti analogie e complicità che li legano: l’infanzia in Grecia, il culto per l’antico, il gusto per l’assemblaggio di pensieri e memorie, il piacere dell’ibridazione, le maschere; le stesse tappe d’iniziazione culturale, le tante amicizie in comune. Per arrivare a un distacco di sostanza.

L’arte di De Chirico, quella del periodo metafisico in particolare, è dominata da un nume parmenideo, ci costringe a misurarci con l’assoluto, lo spazio e il tempo e il loro respiro. La pittura di Savinio e l’altrove verso cui ci trascina sono invece dominati da un senso di incessante fluire alla Eraclito che si riversa in narrazione e racconto. De Chirico suggerisce, ci pone di fronte tragedie, Savinio fa e disfa in continuazione copioni e trame di commedie.

De Chirico si diverte ma mai o quasi ci diverte davvero, Alberto Savinio al contrario si compiace di divertire, divertirci con la sua arguzia, anche quando scrive. Come ci confermano le altre opere di questa mostra. In particolare quelle che chiamano alla ribalta due o più personaggi del mondo classico, della mitologia antica o dell’immaginario letterario.

Esemplare la tela, datata 1931, uno dei suoi capolavori più noti e più visti, che ritrae Ruggero e Angelica, due protagonisti del poema di Ludovico Ariosto. Lei reclinata a destra sulla sua vibrante nudità, lo sguardo che sembra invitare al peccato e invocare pietà allo stesso tempo; lui, il corpo da atleta, in pugno una spada da eroe senza grazia e montata sul collo la testa di un gallo ottuso e vanesio. Stanno recitando entrambi, e il copione non è certo quello del poema originale: Savinio ha riscritto le battute e curato da regista anche l’allestimento delle quinte, una finestra sghemba invasa da una nuvola improbabile e sfilacciata.

Impietosa anche con gli dei l’ironia dissacrante di Savinio. Ecco, in un quadro del 1931, come maltratta persino Apollo, il nume tutelare della poesia ma anche l’infoiato stupratore di Dafne: solo un mezzobusto muscoloso in posa da console romano piazzato sopra il resto di un capitello corinzio, e al posto del capo una testina inebetita da struzzo. Sullo sfondo una luce elettrica e accecante che sminuisce persino il suo ruolo di auriga del Sole nascente. Un effetto di straniamento accentuato dalla presenza nella stessa sala di una statua di Apollo della collezione Ludovisi, congelata nella levigata perfezione del marmo.

E Orfeo? Una lira a rimpiazzare la testa e a rimproverargli forse quell’incertezza narcisa che gli ha impedito di salvare la sua Euridice dall’Ade. E Niobe: un capoccione da pellicano a rinfacciarle il sussulto da vanesia con cui ha sfidato l’Olimpo e condannato alla strage i suoi figli. E Achille? Un corpaccione da atleta che si rastrema in una testina e in un cervellino grandi come una noce, la sua furia sintetizzata dallo zigzagare stilizzato di un fulmine.

Un artista poliedrico che non rinuncia mai a fare teatro. Già, il teatro. Una delle grandi passioni di Savinio alla quale la mostra consacra la sala più grande del museo, quella del Galata morente. Sulla sinistra, un gigantesco fondale da lui dipinto per uno spettacolo alla Scala del 1949 ispirato a Hoffmann, il più trasgressivo talento creativo del romanticismo: il poeta inginocchiato in abiti d’epoca che accoglie la benedizione di una Musa con il volto a forma di lira. A destra, una maquette della scena studiata per una messinscena da regista dell’Edipo Re, e una sfilata di bozzetti per i costumi di attori e comparse, cuori e viscere a mescolarsi alle pieghe delle tuniche.


Le foto della mostra sono dello Studiozabalik.

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