Danilo Maestosi
Al Maxxi di Roma

Una Maxxi festa

Il Museo del contemporaneo festeggia i suoi dieci anni di vita con una mostra che racconta il suo recente passato: da Yannis Kounellis a Claudio Parmeggiani, aspettando un autunno pieno di novità con Balla e Salgado

Un martedì grasso da incorniciare per il Maxxi, il museo nazionale d’arte contemporanea di via Guido Reni a Roma. Che nello stesso giorno celebra i suoi dieci anni di vita e la riapertura al pubblico dopo il lungo embargo Anticovid. E approfitta dell’occasione per presentare i suoi programmi per l’anno in corso.

Il rito dell’anniversario è affidato ad una mostra-ripasso curata dal direttore artistico Ho Hanru e allestita al primo piano da un gruppo di design olandese. Impatto visivo molto forte, impatto emotivo deludente. A indirizzare lo sguardo è solo un frastornante susseguirsi di tabelloni a mosaico di fotografie e postazioni video con interviste e spezzoni filmati che rinnova le sensazioni stressanti di distacco e scarso coinvolgimento degli appuntamenti in streaming. Un cartellone a distanza con cui il museo ha tentato giustamente di colmare il vuoto della chiusura forzata. E di non disperdere – sottolinea Giovanna Melandri, presidente della fondazione che gestisce il museo – i frutti del dialogo con il mondo esterno e con il folto stuolo di artisti e intellettuali italiaani e internazionali che il Maxxi è riuscito ad aggregare attorno a sé nel tempo. L’emergenza è stata sicuramente ben affrontata, ma ha obbligato il museo ad arroccarsi, a trincerarsi in una prigione di partecipazione virtuale da cui questa mostra ha perso l’occasione per evadere e marcare il distacco, confezionando un abito smart poco adatto a festeggiare la svolta.

È un difetto – questo annegare le buone intenzioni in una eleganza formale da salotto di architetti e addetti ai lavori – che ha accompagnato molti appuntamenti di questo decennio, limitandone la presa sul pubblico più popolare. A compensarne, in questo caso, l’effetto contribuisce l’accompagnamento di un corredo di didascalie ben mirate, che inchioda almeno l’attenzione su una serie di interrogativi e conflitti tematici, nei quali il visitatore, almeno quello più motivato, può riconoscere il proprio crogiuolo di dubbi, paure, incertezze di fronte allo spaesante spettacolo della contemporaneità. E soprattutto del futuro, come ci ricorda appunto il titolo che battezza la mostra e riassume con prospettive incoraggianti l’impegno e la vocazione identitaria del Maxxi: Una storia al futuro.

Le voci della città e della strada. L’euforia e i vantaggi della globalizzazione che si specchiano nella povertà e nella rabbia degli emarginati. Le incredibili possibilità delle tecnologie e la difficoltà di renderle a misura umana. L’uomo che si scopre fragile e minacciato e il superuomo che scatena guerre e disastri. L’artista che insegue il culto del proprio Io e quello che coltiva il senso dell’Altro e dell’altrove. L’utopia e le distopie. Un copione da laboratorio di ricerca e piattaforma di differenze e libertà nel quale ognuno può scoprire le proprie parole d’ordine e rievocare, sfogliando l’elenco anno per anno dei titoli del decennale, i ricordi delle tante cose viste e scoperte che più hanno colpito nel segno. Magari ridestando in ognuno un tipo diverso di orgoglio per la propria condizione personale, d’età, sesso, condizione sociale, convinzione politica, come ci suggeriscono le etichette di un gioco distribuito all’ingresso che gli spettatori sono invitati a scegliere e applicarsi al petto. O l’elenco, offerto sullo stesso bacone, delle citazioni d’autore delle star transitate per il Maxxi tra cui adottare quella più in sintonia.

Certo poi nulla può sostituire l’esperienza di un’opera in presa diretta. E il Maxxi deve l’alto indice di gradimento e il posto di prestigio conquistato in questo decennio nella classica dei musei proprio alla svolta strategica di inserire tra i suoi richiami di punta e i suoi fini istituzionali la valorizzazione, l’incremento e la esposizione gratuita delle sue collezioni. Un serbatoio di tesori già acquisiti o da incamerare da cui non a caso attinge con successo la mostra allestita per dare corpo e valore augurale di ritorno alla normalità alla parziale riapertura al pubblico, appena scattata: ingressi centellinati e da prenotare in anticipo, per il momento esclusi i fine settimana.

È una sintetica carrellata di omaggio a nove maestri che hanno calcato da pionieri e protagonisti la scena dell’arte italiana guidandola verso la contemporaneità e i mutamenti vorticosi del nuovo millennio. Una somma di esperienze davvero imperdibile: terrà per fortuna cartellone fino al gennaio del prossimo anno. Tre i siparietti che più mi hanno colpito. Avvolgente, cupa e inquietante come la rivelazione di un assedio quotidiano e senza rimedio della assoluta banalità del male, l’istallazione di Yannis Kounellis: uno spogliatoio da cui pendono come divise di vite perdute – vittime o congiurati? – dei brandelli di manti e cappotti neri, inchiodati da una serie di coltelli da macellaio ai tramezzi di legno.

Un viaggio verso un altrove di incanto e d’inganni, la libreria costruita da Claudio Parmeggiani, altro geniale e isolato predicatore dell’arte povera: da lontano gli scaffali sembrano pieni di volumi e manoscritti di varia altezza, le rilegature di un bianco accecante, ti avvicini e scopri che è uno sfondo sagomato solo da effetti di luce e chiaroscuri, una biblioteca di miraggi, fantasmi che si stanno dissolvendo. E infine il filmato, firmato da Yervant Gianikian e Angela Ricci, una coppia di cinefili – due nomi che erano solo echi di carta – che esplora la profondità delle variazioni del costume e del tempo, rimontando con sovrapposizioni e viraggi vecchi documentari: un agghiacciante spettacolo di brutalità di cacciatori dell’epoca coloniale che esibiscono come trofei le torture su animali agonizzanti che hanno abbattuto.

E poi ad arricchire la partitura di occasioni e di festa della riapertura ci sono le altre mostre, inaugurate e interrotte dalla seconda ondata della pandemia. Chicche preziose da recuperare. Come il campionario di creature zoomorfe e diabolici attrezzi di distruzione, che è valso il premio giovani sponsorizzato da Bulgari, a Giulia Cenci: un beffardo teatrino di mostri che penzolano come marionette in autogestione impiccate alle volte della tortuosa galleria disegnata da Zaha Hadid. O l’emozionante, immersivo contrappunto di immagini filmate e gigantografie fotografiche con cui Isaac Julien ha distillato in un avvolgente colonna di sonorità visive le emozioni e i trabocchetti spaziali delle architetture brasiliane di Lina Bo Bardi.

L’ultimo capitolo è riservato alle anticipazioni delle mostre in programma per l’anno in corso. Un lungo elenco di date e titoli già fissati, Covid permettendo, che seguono i filoni multidisciplinari, la vocazione per l’architettura, la speciale attenzione verso i paesi del bacino Mediterraneo e L’Oriente già collaudati dal Maxxi. Si parte l’8 marzo con una retrospettiva dedicata ad Aldo Rossi, archistar del postmoderno, e si chiude a fine autunno con una passerella d’onore a Cao Fei, consacrato filmaker orientale che ha rinnovato con piglio originalissimo e sconfinamenti nella critica politica il linguaggio della fantascienza: tra gli altri suoi lavori verrà proiettato un film girato nella sua casa di Singapore con cui affronta le ripercussioni e i traumi psicologici provocati dalla pandemia.

Tra le attrazioni di primavera, una panoramica sulle voci e i fermenti artistici della ex Jugoslavia e a maggio una rivisitazione del ruolo di Casabella, una mitica rivista di design. Ma la novità maggiore chiama in scena uno dei padri fondatori del futurismo, Giacomo Balla: è l’apertura in tandem con i Beni culturali per la prima volta al pubblico della sua ultima casa-studio in via Oslavia, che il maestro torinese trapiantato nella capitale disegnò su misura della sua fantasia, affrescando pareti, fabbricando mobili e arredi.

In autunno tre appuntamenti con la fotografia portano alla ribalta una superstar come Sebastiano Salgado con un’antologia di lavori inediti sull’Amazzonia e il suo precario futuro. Un maestro del grand guignol come Thomas Hirschhorn, che esporrà su una gigantesca parete frammentata a pixel un collage di immagini pubblicitarie e di corpi mutilati. E infine una singolare rilettura delle combustioni e dei Cretti di Alberto Burri da parte di un mago del bianco e nero come Mario Giacomelli.

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