Flavio Fusi
Cronache infedeli

L’autunno dell’oligarca

Le proteste seguite all'arresto di Aleksej Navalny, in tutta la Russia, esprimono uno scontento inedito e la violenza con cui il regime ha risposto ne segnalano la debolezza. Perché, come dice un antico proverbio georgiano, «sono i tempi che regnano, non i re»

Nelle grandi città – nelle metropoli – la storia è scolpita a caratteri di fuoco su vie e piazze, edifici e quartieri. A Mosca, nei giorni scorsi, la verticale del potere militar-economico ha decretato la chiusura di sette importanti fermate della metropolitana, isolando per ore e ore il centro della capitale. Il centro, cioè la storia stessa: Piazza Rossa e il Cremlino, il Bolshoi e il Largo del maneggio, piazza della Lubianka e il Palazzo delle colonne, via Tverskaya fino al monumento a Puskin. Bisognava impedire alla folla di protestare dentro il sacro recinto, a portata di telecamere e giornalisti. Fuori, oltre l’anello dei viali, i manifestanti potevano essere più agevolmente picchiati, dispersi e arrestati da centinaia di agenti in tenuta di guerra.

Nemmeno nei giorni tumultuosi della caduta dell’Unione Sovietica – di cui ricorre il trentesimo anniversario – i golpisti riuscirono a sterilizzare e chiudere alla folla il “sancta sanctorum” della storia patria, anzi fu proprio la reazione del centro città ad accendere il fuoco della rivolta e decretare in breve il fallimento del colpo di Stato, mentre la sterminata periferia continuava a dormire nel profondo letargo sovietico.

I simboli hanno un valore, e lo hanno massimamente nella storia della Russia. Quelle piazze chiuse e quei pestaggi sanguinosi di giovani infuriati e inermi cittadini raccontano certo – da Mosca a San Pietroburgo a Vladivostok – una ripresa della critica militante, ma anche  una improvvisa debolezza, una incrinatura dentro la corazza di acciaio forgiata in venti anni di potere.  

Intanto, la folla: come commenta Alexander Baunov sul quotidiano Moscow Times, la protesta di questi giorni è certamente anti-regime, anti-elite e anti-corruzione, ma non necessariamente si ispira ai valori della democrazia e guarda alle virtù dell’Occidente. Un appunto sociologico può meglio spiegare la situazione: «I manifestanti – scrive Baunov – possono essere descritti come proletariato giovane, urbano, post-industriale. Sono individui che lavorano nei servizi e nel terziario, con mansioni spesso precarie e profondamente scontenti del lavoro, del salario, delle prospettive future». Si tratta di giovani – aggiungiamo – nati e cresciuti nell’era putiniana, in gran parte digiuni di qualsiasi esperienza politica e che non conoscono altro che la loro attuale condizione economica e sociale.

Le violenze a Mosca contro i manifestanti

Poi, le caratteristiche delle manifestazioni: nei cortei non leggiamo alcuna concessione al pacifismo e nelle parole d’ordine nessuna venatura di ironia. Sono lontani i tempi delle proteste per l’assassinio di Boris Nemcov – nel 2015 – quando a guidare la chiamata anti-Putin furono esponenti della cultura, studenti universitari e rappresentanti dell’ intellighentsia della capitale. Rispetto ad allora le manifestazioni di oggi sono violente e pronte a ricevere la violenza della repressione. L’impatto della pandemia, che le autorità tendono a sottovalutare e nascondere e che invece ha scavato a fondo nei comportamenti sociali, aggiunge una forte dose di drammaticità. Non sembra un caso che le manifestazioni più radicali e determinate si siano svolte a San Pietroburgo, dove l’infezione del virus registra i più alti picchi e le misure di contenimento si sono dimostrate meno efficaci.

Infine, l’obiettivo: i manifestanti nelle strade parlano in nome del nuovo eroe Aleksej Navalny, ma si rivolgono al presidente: “Putin vor, Putin ladro”, è lo slogan di tutti cortei. In una società come quella russa, in cui praticamente non esiste l’opinione pubblica, questo attacco frontale e diffuso al leader finora indiscusso è cosa nuova. Dunque, eccoci di fronte al corpo del capo. Vladimir Vladimirovic Putin è un uomo di 67 anni, da oltre un ventennio oligarca indiscusso di una Federazione-continente, dove la durata media della vita maschile arriva appena a sessantacinque anni. Il suo potere rimonta a un’epoca che i giovani russi non hanno nemmeno conosciuto e le sue origini politiche risalgono a una investitura personale concessa da un altro sovrano indiscusso sorto dalle rovine del “comunismo realizzato”. In una società senza memoria come quella della Russia attuale, l’ex piccolo funzionario dei servizi segreti sovietici ha potuto poi costruire il suo personaggio su una narrazione eroica: negli anni abbiamo visto – e tutta la Russia ha visto – Putin cacciatore di tigri siberiane, Putin karateka, Putin ammiraglio sulla tolda di sottomarini nucleari, Putin fantino in sella a purosangue arabi, Putin statista nelle dorate stanze del Cremlino. 

L’apoteosi – una delle tante – fu la passeggiata notturna sulla piazza Rossa, in compagnia del giovane sodale Dmitrij Medvedev appena nominato pro tempore presidente della Federazione russa. Era una notte piovosa del maggio 2008, i due leader in giubbotto di pelle e calzoni attillati camminavano decisi e sorridenti sulle lastre lucide della piazza, mentre il cielo di Mosca si accendeva di festosi fuochi artificiali e sui maxischermi dei Magazzini Gum scorrevano le immagini della folla festante assiepata oltre le transenne. Si celebrava allora una patria imperiale e capitalistica, una democrazia autoritaria che in ogni  elezione avrebbe premiato con l’ottanta per cento dei voti il partito personale del caro leader.

È vero che gli ultimi mesi scrivono tutta un’altra storia. La pandemia fa la differenza tra la retorica e la nuda realtà, specie in un Paese in cui gli ospedali sono in rovina, le infrastrutture degne del secolo scorso e la povertà sempre più estesa. «Putin dà l’impressione di essere stanco, addirittura annoiato», commenta Yekaterina Schulmann, che fu autorevole funzionaria del Cremlino. «Ha paura paura per la sua popolarità e per il sistema che ha costruito in un ventennio», aggiunge Gleb Pavlovsky, anche lui ex spin doctor del governo. Ancora Yekaterina Schulmann: «Il morale dell’opinione pubblica è molto volatile. La gente è impaurita per il virus e per l’economia, e Putin non riesce ancora a trovare un tono che possa vibrare con le corde del Paese».

Pur di fronte a queste difficoltà, il caro leader non molla la presa.  Nel maggio scorso la Duma ha rovesciato l’intera architettura costituzionale russa per garantire al presidente una confortevole permanenza al potere fino almeno al 2024: con le nuove regole – in uno scenario di fantapolitica – Putin potrebbe governare addirittura fino al 2034. Così un secco commento del board editoriale del New York Times titola «Putin l’immortale» e avverte che il leader russo manovra per «restare al potere in eterno». Putin non è immortale, ma «vuol essere indispensabile», risponde su The Globe and Mail uno studioso come Aurel Braun.

Questa l’ardita costruzione politica è destinata a sfidare il tempo. Poi, naturalmente, c’è la strada e il suo trambusto, il corpo e le sue le umane miserie. Così fa un certo effetto leggere su El Paìs una lunga intervista a Liubov Sobol, una bionda avvocata di 33 anni, numero due di Aleksej Navalny, che le cronache di questi giorni ci hanno fatto vedere nelle strade di Mosca strattonata e picchiata e trascinata a terra da due agenti armati. Dice Sobol: «Sono tante le persone che si oppongono a Putin, e sono sempre più numerose. Molti la pensano come Navalny, altri hanno convinzioni e punti di vista diversi. Semplicemente, la gente che va in piazza non riesce più a sopportare quello che succede nel nostro Paese. Per quanto mi riguarda non ho paura: ho un conto in banca, vivo nell’appartamento di mio marito, e due anni fa abbiamo venduto l’auto. Mi hanno denunciato, è vero: ma al massimo – se mi condannano – posso temere che qualcuno mi entri  in casa per portar via la lavatrice o la pianola di mia figlia…».

Leggi questa intervista e pensi che il tempo – anche il tempo lento della millenaria Russia – lavora per Liubov Sobol e non per Vladimir Putin. Come dice un antico proverbio georgiano: «Sono i tempi che regnano, non i re».

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