Leopoldo Carlesimo
Un racconto inedito

La zia pazza

Nell’ultimo periodo la sua pittura s’era fatta più astratta, più cupa. Aveva abbandonato le figure. S’era ridotta a vampate di colori forti, pennellate perentorie inferte su fondo nero. Aveva del tutto perso quel tocco minuzioso e impersonale che a me ricordava Bruegel il Vecchio

Non capivo perché volesse farmelo nudo. Quando avevo accettato, non mi aveva detto tutto. Così adesso mi ritrovavo in quella stanza, sotto il suo sguardo… Mi sentivo un po’ ingannato, preso in trappola. Non sapevo come uscirne.

La zia ripeté: “Su, togliti i vestiti.”

Ero seduto su uno sgabello, tre metri avanti a lei. Ancora con la cartella ai piedi, il montgomery blu col cappuccio e i bottoni di corno buttato sulla poltrona. Portavo calzoni corti di velluto a coste, color grigio scuro, e calzettoni alti, pure grigi, col risvolto scozzese. Un pullover blu oltremare col collo a ‘V’ e una camicia azzurro chiaro con cravattino regimental, di quelli finti, con l’elastico sotto il risvolto del colletto.

“Allora, che aspetti? Spogliati!”

Lei trafficava sullo scaffale, riordinando tubicini e boccette di vetro, più tutti quegli aggeggi con cui lavorava. Mi dava le spalle. Le guardavo la schiena, alta e sottile nel kimono nero a fiorami rosa che portava in casa, con la fascia bordeaux annodata su un fianco.

Cominciai a togliermi quella roba. Le scarpe – college nere – le appoggiai ai piedi della poltrona. Su cui s’accumularono via via altri indumenti. Sotto la camicia portavo una canottiera di cotone a righe, di cui m’ero sempre vergognato, quando nello spogliatoio di ginnastica mi denudavo davanti ai compagni. Ma lì ci spogliavamo in tanti e non fino in fondo. Stavolta invece ero solo, e non avevo ancora capito fino a che punto volesse spingersi la zia. Volto di schiena per non guardarla, quando fui a torso nudo mi fermai.

“Avanti, non perdiamo altro tempo,” le sentii dire spazientita.

Davanti a me, la grande vetrata priva di tende inondava lo studio di luce. Il finestrone, che occupava più di metà dalla parete di fondo, in doppia altezza di solaio, dava su un giardino interno per fortuna deserto. Come sempre in quella stanza l’odore di diluente e trementina era fortissimo, pizzicava le narici. Ripresi lentamente a spogliarmi.

“Devi toglierti tutto, Aldo. Forza!”

Allentai la cintura, calai i pantaloni e li posai ben ripiegati sulla poltrona. Poi mi fermai di nuovo. Davo sempre le spalle alla zia.

“Via quella roba. Nudo,” disse lei.

Trovai il coraggio di voltarmi. La zia aveva smesso di trafficare con i suoi attrezzi ed era ritta in piedi davanti a me. La vestaglia di seta aveva maniche svasate, arricciate sui bordi. Ne uscivano due avambracci ossuti con le vene in rilievo. Le mani dalle dita nodose, cosparse di macchie, erano incrociate sul ventre. Portava dei gioielli. Niente alle orecchie, ma al collo aveva un triplo giro di perle, confuso tra le rughe. Dai polsi pendevano bracciali larghi a spirale e quasi tutte le dita erano cinte d’anelli. Credo che quella roba servisse a mascherare le sue parti peggiori, quelle in cui l’età si mostrava di più. Oro e gioielli compensavano la vecchiaia. Aveva deposto gli occhiali sul tavolino accanto e mi fissava, socchiudendo gli occhi, come cercando di mettere a fuoco qualcosa di piuttosto lontano.  

“Nudo, sai che significa? Nu-do.”

Calai le mutande. Senza girarmi di spalle e sostenendo il suo sguardo. La zia mi contemplò per qualche istante. Poi s’avvicinò, mi ruotò la testa da un lato e m’inclinò il busto. Mi toccò molte parti del corpo, incluse quelle intime. Mi fece sedere su un bracciolo della bergère. Avvicinò uno sgabello di paglia di vienna. Piegò a suo gusto la testa, le braccia, divaricò le gambe, piazzò piedi e bacino in precario equilibrio su quel doppio piano d’appoggio, lo sgabello impagliato e il bracciolo della bergère. Dispose di me come credeva su quel bracciolo. Poi si mise al lavoro. Lavorammo per più di un’ora.

* * *

La zia pazza, come tutti la chiamavano in famiglia, abitava in Via Lovanio, ai Parioli. Io all’epoca avevo sette-otto anni. Frequentavo una scuola intitolata a una principessa di sangue e di fumetto proprio lì accanto. Per quasi tutto l’inverno, all’uscita, andavo ad aspettare a casa della zia l’ora in cui mia madre, chiuso lo studio, sarebbe passata a prendermi.

Dal cancello dell’istituto elementare Principessa Mafalda a quello della zia v’erano non più di cento metri. Passavo davanti alla guardiola del portiere, attraversavo un androne buio tutto incurvato attorno alla tromba delle scale, e bussavo alla sua porta, al pianterreno. Adele, la cameriera irpina dal massiccio corpaccione avvolto in un grembiule azzurro, mi scortava in tinello. Aveva sempre qualche leccornia fatta in casa in serbo per me. Un tondo di pizza fritta, una zeppola di pasta cresciuta.

La casa era buia. Pianterreno con affaccio interno, di luce dalle finestre n’entrava poca. Grandi mobili antichi occupavano ambienti immersi nella penombra, disseminati di lumini bassi accesi anche di giorno. Cassettoni enormi, armadi di cui andavo ad annusare le fessure, perché ne usciva un curioso odore di naftalina, specchiere opache racchiuse da pesanti cornici di legno dorato, tendami, tappeti.

Una casa da vecchia signora d’altri tempi. Vagavo con un po’ d’apprensione per quelle stanze cupe, sovraccariche di mobili austeri… Ve n’erano due in cui non potevo entrare: la cucina, perché Adele s’infuriava se un estraneo invadeva il suo territorio; e la camera da letto della zia, perché lei me l’aveva espressamente proibito.

Ma c’era, in fondo al corridoio, una porta speciale, simile a quelle che nei fumetti di Mandrake che leggevo allora s’aprivano su un altro mondo, in netta contraddizione con l’austerità e i divieti che regnavano sul resto della casa. Quella stanza inondata di luce era in preda al caos, un disordine fantastico… A parte la bergère, non v’era nulla che avrei detto un mobile. Solo un confuso affastellarsi di oggetti incongrui, ciascuno animato di vita propria: tele, tele e tele, quadri, quadri e quadri, lenzuola stese su opere incompiute, misteriose come fantasmi, rozzi scaffali di legno sverniciato ingombri di materiali grezzi, attrezzi da lavoro, pennelli, tavolozze, spatole, colori. Cavalletti disseminati in giro. Il tutto immerso in un odore acre d’acquaragia e vernici. Quella stanza ribelle era il suo studio, la zia era pittrice.

* * *

Dopo circa un’ora di posa, sentii dei rumori in corridoio. La porta s’aprì ed entrò quell’uomo. Un signore alto, bruno. Non l’avevo mai visto. Mi parve molto più giovane della zia. Le si avvicinò, dietro il cavalletto, e le sfiorò la nuca con le labbra. La zia lo respinse, ma debolmente. Lui tornò alla carica.

“Va bene, Aldo. Puoi rivestirti. Per oggi basta così.”

Mi vergognavo a farmi vedere nudo da quell’estraneo. Ma non pareva molto interessato a me. Bisbigliò qualcosa all’orecchio della zia e lei rise. Poi l’uomo s’avviò verso la porta, che aveva lasciata aperta. Io mi rivestivo mestamente, turbato. Sentii la voce della zia dal corridoio: “Va’ pure in tinello, Aldo. Adele ha pronta la merenda. Manca ancora un po’, prima che arrivi tua madre.”

In tinello, Adele mi diede struffoli con tè e biscotti. In quei mesi d’inverno nello studio notarile dove mia madre lavorara si tirava di lungo. Quel vecchio despota del notaio, che dai racconti della mamma mi figuravo come una specie d’orco, la tratteneva fino a tardi. Rientravamo a casa ch’era buio fatto.

Chiesi ad Adele: “Chi è quel signore?”

“Un amico della zia. Oltre agli struffoli, vuoi i panzerotti? Ho fritto, stamane…”

Adele veniva dal beneventano, era un’ottima cuoca. Mi rimpinzava di manicaretti.

“Ma dov’è adesso la zia?” Chiesi.

“Di là.”

“Col suo amico?”

“Certo.”

“E che fanno?”

“Niente che ti riguardi. Mangia il gli struffoli.”

* * *

La zia pazza è per me un personaggio scisso, un po’ come due foto sovrapposte. Una di quelle figure ambigue in cui, a seconda di come le guardi, vedi un vaso o due profili affrontati, una giovane donna elegante oppure una testa di vecchia. Non cogli mai le due immagini allo stesso tempo, non esistono assieme, qualcosa impedisce loro di fondersi. Scartano istantaneamente dall’una all’altra, in modo discontinuo e fuori dal tuo controllo, ti sorprendono sempre. Ma forse tu hai una parte il quello scarto, consapevole o no.

Il ricordo della zia era così, diviso in due: la breve e intermittente frequentazione che n’ebbi allora, al tempo contratto di quello studio di nudo, quando io ero un bambino e lei una vecchia; e i racconti e i commenti che ascoltai in casa, prima e dopo la sua morte, nel tempo esteso da prima della guerra, quando la zia era giovane e la sua famiglia ricca, agli anni della malattia e della morte, quand’era vecchia, impoverita e pazza. Un sacco di storie – in una ebbi una particina anch’io – in famiglia se ne parlava eccome, della zia matta.

Dovrei dire, più correttamente: prozia. Era zia di mia madre, sorella della nonna materna che non avevo mai conosciuta. Una dinastia tutta femminile. La nonna aveva tre sorelle, lei era la maggiore, in mezzo ce n’erano altre due e ultima, più giovane, la zia pazza. Pure la mamma aveva tre sorelle e pure lei era la minore. Chissà, forse anche a causa di questa simmetria dev’essersi creata tra lei e la zia una speciale affinità. Un’anticonformistica somiglianza, era la sua nipote preferita.

Ma l’anticonformismo di mia madre era meno dirompente, meno radicale di quello della zia. Dopo qualche resistenza, accettava d’esser domato. Mia madre non era una lottatrice, cedeva a una volontà più forte. La zia no, perché era pazza.

Tutto il ramo materno della famiglia era di sangue ebreo. Dovrebbe quindi esserlo anche il mio, visto che si trasmette per parte di madre (e la trasmissione matrilineare mi pare una scelta quasi obbligata, un saggia regola di sopravvivenza, in un popolo minacciato d’estinzione). Le maglie della rete di controllo sono piuttosto larghe: il figlio di un’ebrea apostata, convertita al cristianesimo, resta comunque ebreo. Era il mio caso. Ma non ho mai pensato che il mio sangue fosse puro. Malgrado tanta tolleranza nei criteri d’ammissione, non credevo di meritarla.

L’altro ramo della famiglia, quello paterno, era radicalmente cattolico. Quando mio padre si fidanzò con mia madre, la mia nonna paterna – una credente quasi fanatica – pretese che la sua futura nuora, se ci teneva a diventarlo, si convertisse. E mia madre, dopo qualche blanda resistenza, qualche gesto d’anticonformismo surrogato (come per esempio rifiutare l’abito lungo e il velo, alle nozze) accettò di farlo.

La capisco, in realtà non le importava molto della religione; e in questo io le somiglio. Ciò non toglie che, anche se forse per lei fu una rinuncia da poco, mio padre e la sua famiglia avrebbero dovuto leggere in quella conversione un atto d’amore. Non so se lo fecero, o lo fecero in musura sufficiente; oppure prevalse, nella loro lettura, l’atto di sottomissione. Come lesse l’apostasìa la metà materna della famiglia, quella ripudiata, posso immaginarlo. E’ certo la ragione per cui per tutta l’infanzia fu il ramo di parenti che frequentammo meno.

Io non mi sentivo né cristiano né ebreo. Come ho detto, al pari di mia madre non davo importanza alla religione. E questa è, oltre all’anticonformismo, un’altra affinità che l’accomunava alla zia. Anche la zia pazza se ne fregava di dio e delle fedi, in qualunque variante. Perciò non costò molto a nessuna delle due chiudere un occhio sulle debolezze dell’altra. Mi spiego così la loro amicizia. Si perdonavano a vicenda colpe che gli altri imputavano loro. La zia fu l’unica della famiglia che non fece mai pesare a mia madre l’apostasìa. E mia madre, in cambio, non rimproverò mai alla zia la condotta immorale in materia di uomini. Questione che, più di tutte le altre, l’aveva messa in rotta col resto del parentado.

La zia con gli uomini ha sempre combinato guai. Il periodo delle sue gesta erotiche che conosco meno, quello della sua giovinezza, dovette anche essere il più innocente. A quell’epoca faceva semplicemente la bohémienne di provincia, la figlia pittrice di una ricca famiglia ebrea del marchigiano. Si limitava a passare da un letto all’altro, destando scandalo nella buona società di Ancona e dintorni, tutto sommato senza fare troppi danni.

Poi vennero le leggi razziali. Poi la guerra, le persecuzioni. E questo cancellò tutto. Avrebbe certo cancellato anche le uniche conseguenze serie della sua condotta, cioè quelle macchie sulla sua reputazione. Ma la zia era tenace, insistette anche dopo. 

* * *

“Ti farò un ritratto,” aveva detto. Solo questo.

E chi andava a pensare che fosse un nudo… Studio di nudo di fanciullo, credo si trattasse di questo. L’indomani proseguimmo la posa. E così pure nei giorni seguenti. Era tardo autunno, un periodo dell’anno durante il quale mia madre lavorava più del solito. Passavo ore e ore a casa della zia, negli interminabili pomeriggi di novembre. Un sacco di tempo per posare e ritrarre.

La zia non era mai stata una ritrattista. I suoi quadri di gioventù – di cui possiedo ancora alcuni esemplari – erano perlopiù imperniati su tre o quattro soggetti fissi, tutti marchigiani, replicati in innumerevoli versioni su una quantità di tele di dimensioni piccole o medie: vedute di campagna nei dintorni d’Ancona, di Jesi o di Cingoli, con gli olivi tozzi e poco frondosi e le colline schiacciate, come viste dall’alto, in parte verdi e in parte appena arate; poi scene di vita campestre: fiere di borghi, feste sull’aia, l’albero della cuccagna o la morte dell’Inverno o l’ammazzamento del maiale; queste due serie di soggetti erano dipinti su tele affollate di piccole figure di paesani, contadini, animali – buoi, asini – e poi carretti, arcolai, lavatoi, paioli, tutt’una serie di oggetti e personaggi minuti dipinti con minuzia, con una cura un po’ impersonale, che ricordava certi quadri di Pieter Bruegel il Vecchio; poi c’erano i dipinti sognanti: con immagini di uomini, donne e ragazzi dai lineamenti un po’ diversi, ma anch’essi impersonali, tutti simili tra loro come maschere o segni, immersi in un’atmosfera incantata che qualche evento ‘normale’ aveva appena prodotto: bolle di sapone che un bambino aveva soffiato e che flottavano nell’aria di una stanza, sciami di farfalle che invadevano un vagone ferroviario, gabbie contenenti un’infinità d’uccelli di mille colori dentro una bottega; infine c’erano vedute paesane semideserte, in cui le architetture e i luoghi prevalevano sulle persone: muri di balconi cui s’affacciava qualche rada massaia distratta o indaffarata, frontoni di case abitate da inquilini anonimi, o in versione notturna, con un lampione acceso e qualche finestra illuminata, nel buio, o anche distese di tetti e strade spopolate.

Ma niente ritratti. Nudi di fanciulli. Mai.

Il secondo giorno lavorammo per quasi due ore, prima d’essere interrotti. Lei riempì a carboncino dei fogli bianchi, che strappava via via da un gran blocco e poi buttava a terra. Sopra, sulla carta stracciata, intravedevo bruschi segni neri in cui mi pareva di riconoscere vagamente qualche tratto di me: un mio pezzo di braccio, una gamba, una mano; la linea della schiena, così magra e ossuta, l’attaccatura delle natiche oppure i riccioli sopra le orecchie e sul collo. Dopo una dozzina di fogli stracciati, su uno più grande lavorò più a lungo. Poi se lo mise di fianco, su un cavalletto laterale. Probabilmente su quel foglio i vari schizzi di me si ricomposero. Cominciò a dipingere. Lanciava uno sguardo a me, uno alla tela. Credo fosse mio compito restare immobile, e così feci. In religioso silenzio.

Finché, forse un po’ più tardi rispetto al giorno prima, sentii quei passi energici in corridoio, la porta si aprì ed entrò quell’uomo. Come ieri, non si curò di me. Si posizionò alle spalle della zia, che finse di non vederlo, continuò a mostrarsi assorta nella pittura. Ma sapevamo tutt’e tre che mentiva, la sessione di nudo era finita. L’uomo le sfiorò un ricciolo sulla tempia. Poi avvicinò le labbra alla sua nuca. Vidi una mano alzarsi dietro il cavalletto, grossomodo all’altezza del seno. E subito dopo lei lasciò andare il pennello, posò la tavolozza e uscì dalla stanza. Lui la seguì.

Stavolta in tinello ebbi una fetta di pastiera, quella di riso, come la fanno nel beneventano. Uno dei dolci che ad Adele riusciva meglio. Non feci altre domande stupide; vabbè, ero un bambino, ma fin lì ci arrivavo anch’io. Mangiai la pastiera.

* * *

Dopo le leggi razziali mio nonno materno decise d’emigrare in Argentina. Scelta lungimirante, la minaccia allora non pareva ancora così grave. Prese con sé le quattro figlie – tra cui mia madre – e le due sorelle mediane della moglie, coi rispettivi mariti. Mia nonna materna all’epoca era già morta e le due sorelle l’avrebbero aiutato con le bambine, curando, oltre ai loro figli, anche le sue. La famiglia s’adeguò alle sue decisioni. Mio nonno, vedovo della sorella maggiore, era il capobranco riconosciuto. Da tutti fuorché dalla zia.

Lei rifiutò di partire. E non servirono a nulla le implorazioni e le lacrime delle sorelle né le minacce del nonno. Come ho detto, era testarda. A quell’epoca doveva avere poco più di trent’anni ed era già la pecora nera di famiglia. L’unica delle quattro sorelle che non si fosse sposata; che dava scandalo, con la sua condotta artistoide e immorale. Aveva viaggiato da sola per l’Europa, e sa solo dio cosa avesse combinato lassù, per fortuna lontano dagli occhi di tutti. Ma anche ad Ancona, in provincia, conduceva una vita indecente, facendosi vedere in luoghi pubblici con uomini diversi, sposati o meno. Infamava la famiglia, però non ne aveva mai lasciata la casa, una gran villa alla periferia di Ancona dove i quattro nuclei familiari vivevano tutti assieme: il nonno con le sue figlie; le sorelle sposate della nonna coi loro; e la zia.

Quando gli altri partirono lei restò sola in quella casa enorme, con un manipolo di servitù. Vi resistette fino al ’43, finché con l’armistizio e l’occupazione nazista in arrivo si decise anche lei ad abbandonare quella posizione troppo esposta. Riparò in campagna, in un paesino nei dintorni di Cingoli, dove una famiglia di contadini accettò di nasconderla. Nei giorni prima di lasciare la villa raccolse tutti i preziosi di famiglia – gioielli, argenteria, dipinti, tappeti – in una soffitta cieca di cui murò l’ingresso, nascondendo poi il tramezzo dietro uno scaffale. Fece tutto da sola, lavorando di notte, perché nessuno ne sapesse nulla.

Nel ’45, quando anche Ancona fu liberata, gli Alleati installarono nella villa di famiglia il loro comando. La zia si presentò, dimostrando carte alla mano d’esserne la legittima proprietaria. Il colonnello inglese con cui parlò dovette crederla un po’ tocca, e forse solo per divertimento, per farsi quattro risate, acconsentì a scortarla in soffitta con un drappello di soldati, cui ordinò di buttar giù il tramezzo. La zia poté così recuperare il suo tesoro; e davanti ai calcinacci del nascondiglio abbattuto, mentre i soldati inglesi ne estraevano casse d’argenteria e cofanetti di gioie, lustrandosi gli occhi increduli, disse al colonnello: “Visto? Gliel’ho fatta, ai tedeschi!” “L’ha fatta anche a noi, signora,” rispose quello.

* * *

M’ero un po’ abituato alle sessioni di nudo. Non provavo più alcuna vergogna a spogliarmi completamente per la zia. E non ero neppure troppo imbarazzato dagli arrivi improvvisi di quel signore, che venne di quando in quando, non tutti i giorni, finché durarono i nostri tete-à-tete di pittura.

Un pomeriggio, mentre posavo, l’uomo entrò e riuscì subito. La zia lasciò andare tavolozza e pennelli e gli corse dietro. Si chiusero in salotto. Li sentii discutere. Era giovedì, giorno di libertà di Adele, che m’aveva lasciato la merenda apparecchiata in tinello. Mi rivestii. Quando passai davanti alla porta del salotto, in corridoio, colsi la voce dell’uomo alzarsi, dura, e mi parve di sentire la zia piangere. Mi fermai a origliare, addossato al battente. Davanti, dall’altra parte del corridoio, la porta della camera da letto era aperta.

C’era un gran letto di pizzi e trapunte, rifatto alla meglio. Biancheria ammucchiata sopra una sedia. Pantofole con ponpon e brillantini gettate su uno scendiletto tutto aggrovigliato. Il comodino con l’abat-jour acceso, l’armadio, il cassettone con su una miriade di ninnoli, il tavolino da toletta con la specchiera a tre ante, accanto al paravento-spogliatoio di bamboo nero, col drago cinese dipinto sul pannello centrale e indumenti vari – vestaglie, foulard, calze – appesi alla cornice. La stanza era immersa in un profumo dolciastro, appiccicoso, che identificai da allora in poi come quello delle vecchie signore.

Entrai. Non so perché lo feci. Non ero spaventato, neppure attratto o turbato. Non mi parve di violare nulla, non provai alcuna emozione particolare. Fu qualcosa di automatico, indipendente da me. Come lo scatto di una di quelle figure ambigue, che ora mostrava l’altra metà. Attraversai la stanza. Sul tavolino da toletta erano disseminati pettini di tartaruga, spazzole d’argento, boccette e boccette di profumi, creme, smalti. Con la sua pittura minuziosa, la zia avrebbe potuto trarne una natura morta, le sarebbe forse riuscita meglio del nudo di fanciullo…

* * *

Dopo la guerra, quando tutta la famiglia rientrò dall’Argentina, la zia si trasferì a Roma. Acquistò la casa di Via Lovanio e ci ospitò mia madre, che a quell’epoca frequentava l’università. Fu lì che conobbe mio padre.

La famiglia materna, nel frattempo, aveva subito la sua diaspora post-bellica. Chi si trasferì a Milano, chi a Ferrara. Delle sorelle maggiori di mia madre, una s’era sposata in Argentina e restò lì. Le altre due lo fecero rispettivamente a Bologna e Trieste e si trasferirono in quelle città. A Roma, ospite della zia, restava solo mia madre. Studiava legge, si fidanzava e meditava l’apostasìa.

La zia pazza era tutta presa dal suo lavoro. C’era un fervore di ricostruzione che percorreva l’Italia intera e contagiava anche il mondo dell’arte. Lei dipingeva, frequentava gallerie, partecipava a vernici, a serate artistiche. E intanto invecchiava. Era ormai più vicina ai cinquanta che ai quaranta e molti dei nuovi artisti che incontrava a quei vernissage avrebbero potuto essere suoi figli. Ma non era in disarmo erotico, tutt’altro, la sua fame d’amore non s’era placata.

Dopo le vernici, le serate e i dibattiti, spesso uno di quei giovani approdava in Via Lovanio e ci passava la notte. La zia entrò allora, forse inconsapevolmente, nel periodo più cupo della sua vita erotica – quello che spinse mia madre ad accelerare i tempi del matrimonio, pur di lasciare in fretta quella casa, dove una ragazza con nozze in vista non poteva vivere – che divenne poi turpe e tragica negli anni che seguirono.

Dopo che mia madre se ne andò, un po’ alla volta la zia cominciò ad accettare il fatto che i suoi soldi costituissero una ragionevole parte del fascino che ancora esercitava sugli uomini. I suoi amanti, sempre numerosi e molto più giovani di lei, erano ancora piccoli artisti, pittori, poetucoli che frequentavano gallerie e mostre; che ormai sapevano – perché s’era sparsa la voce – che quella vecchia pittrice di provincia che t’invitava a vedere i suoi quadri nella casa-galleria-alcova di Via Lovanio, non era interessata solo alla tua ammirazione d’artista o a qualche discussione sull’arte, ma aveva mire più concrete. Il che consentiva anche a loro di andare al sodo: il bel ragazzo sapeva che, dopo, poteva contare su di lei per il conto della trattoria, della lavanderia o dell’albergo, che non sapeva come pagare.

* * *

Sentii lo schiocco, di là, la porta della sala aprirsi, passi in corridoio. Non potendo più uscire, mi rifugiai dietro il paravento accanto alla toletta, nello stesso istante in cui la zia entrava nella stanza seguita da quell’uomo. Chiuse la porta.

La zia si fermò al centro della camera, ai piedi del letto. Aveva gli occhi chiusi. Li tenne chiusi per tutto il tempo. Lui le arrivò alle spalle, le baciò la nuca. Poi vidi le sue braccia che la cingevano da dietro, sciolse il nastro, allargò il kimono. La vestaglia scivolò dalle spalle della zia.

Sotto indossava solo una canottierina di pizzo, in fondo abbastanza simile alla mia, ma con spalline più sottili e di tessuto più pregiato – seta, credo – e di un colore più regale – grigio perla. E mutandine a calzoncino, anch’esse più preziose e regali delle mie. La canottiera fu la prima che l’uomo sfilò, risalendo con le mani lungo i fianchi. Scoprì l’ombelico, il suo ventre flaccido di vecchia, due seni cadenti. Per aiutarlo a sfilarla di testa, lei alzò il mento, tirando la pelle rugosa del collo.

Poi l’uomo afferrò quei seni sgonfi, stringendone i capezzoli tutti schiacciati e come rincagnati in se stessi. Le mani scesero brusche, calò le mutande, mise la mano tra le cosce magre e ossute che tremavano di piacere. La zia era tutta inclinata all’indietro, contro il suo petto, lui la ruotò verso di sé, le fece fare una goffa piroetta da burattino di cui s’è rotto qualche filo, finendo di sfilarle le mutande; e solo allora, quando fu nuda, tenendola saldamente per le ascelle la sollevò alla sua bocca e la baciò.

Ora vedevo la zia di spalle, interamente abbandonata tra le sue braccia. L’uomo fece scendere una mano e la spinse tra quelle tristi natiche, poi la prese in braccio, la depose sul letto e mosse il bacino adagio e a lungo tra le sue gambe spalancate. Quando furono tutt’e due stesi – e occupati – sgattaiolai fuori dal paravento. Tenendomi basso ai piedi del letto strisciai fino alla porta. Aprii silenziosamente uno spiraglio e scivolai fuori. Ma mentre richiudevo il battente dietro di me, alzai lo sguardo e vidi che la zia mi fissava. Fu questione d’un attimo. Ci scambiammo quello sguardo, occhi negli occhi. Chiusi la porta.

* * *

L’ondata entusiastica della ricostruzione s’esaurì. C’era meno idealismo in giro, meno avventura. Anche la vita erotica della zia s’inaridì. Un po’ alla volta non furono più solo giovani squattrinati pescati nel sottobosco dell’arte a frequentare la casa di Via Lovanio. Ma anche uomini più smaliziati, di maggior fascino e maggiori pretese, che in quel giro avevano fiutato una preda. Le voci corrono, quando riguardano un modo facile di far quattrini. L’ambiente in cui la zia cercava i suoi amanti non era frequentato solo da romantici artisti, ma anche da cinici playboy e gigolò semiprofessionali, sempre in cerca di vecchie signore danarose desiderose d’essere adulate.

Così, quel tesoro che aveva tanto ben difeso contro i Tedeschi e poi gli Alleati, la zia lo dilapidava un po’ alla volta per assicurarsi la corte degli uomini. Poi, semplicemente, la loro presenza a letto. E quando un bel giorno i soldi finirono, o si ridussero molto, e lei aveva ormai i capelli grigi, continuò a cercare sordide storie d’amore, come quella del signore che conobbi. Ed altre ancor più sordide che vennero dopo, quando lei era sempre più vecchia e più sola, e non aveva più neppure Adele a proteggerla. E quei balordi che continuò a portarsi in casa non incontrarono alcun ostacolo per prenderle il poco che le era rimasto. La condussero alla follia. Ma continuava a dipingere, le restava quello…

L’uomo era già andato via da un pezzo, quando arrivò mia madre. La zia le aprì, aveva di nuovo il suo kimono addosso, portava i gioielli e s’era pettinata. Lei e la mamma scambiarono due chiacchiere frettolose. Era tardi, dovevamo rincasare, mia madre aveva ancora la cena di cui occuparsi. La zia mi salutò col consueto bacio e anch’io la baciai.

Credo che avremmo potuto, con un po’ di fantasia, fingere entrambi d’esserci sbagliati. Quelle immagini ambigue scattano, e poi tornano in posizione, indipendentemente dalla nostra volontà, si può sempre pensare d’averle sognate.

Però interrompemmo le sessioni di nudo e per qualche ragione la zia e mia madre concordarono che non era più il caso, dopo la scuola, ch’io perdessi tutto il pomeriggio in Via Lovanio. Con tanti compiti da fare. Ero grandicello, ormai, e mia madre m’istruì su come prendere la circolare, in Viale della Regina, e a quale fermata scendere per trovarmi a due passi da casa. M’insegnò ad aprire il portone del palazzo e la porta d’ingresso ed ebbi, tra mille raccomandazioni, il mio primo mazzo di chiavi.

Quanti progressi, in un solo pomeriggio. Quella sessione di nudo aveva quasi fatto di me un uomo. E in effetti, anche se dovetti aspettare ancora più o meno dieci anni per avere il mio primo rapporto reale, dentro di me penso che quello figurato con la zia… Fu quello a togliermi il peso. Mi sverginò lei, e gliene sono grato. Non ne ebbi alcun trauma. Al contrario, fu una cosa profonda, sensuale, conturbante come poi raramente mi capitò di provare con altre donne.

* * *

Negli anni che seguirono io fui preso dalla coda della mia infanzia, dall’inizio dell’adolescenza, e non mi curai più molto della vecchia zia. Ne sentivo parlare di quando in quando, tra mia madre e mio padre. Lei era sempre più preoccupata per lo stato in cui versava. Tutti quegli uomini. Che le facevano fuori tutti quei soldi. Ne avrebbe avuti abbastanza, almeno per arrivare alla fine?

Intanto, usciva di senno. E chissà per quale via, la religione, che non aveva mai significato niente per lei, che non aveva avuto alcun posto nella sua testa e nella sua vita, trovò modo d’infilarvisi in vecchiaia. Non sotto forma di paura della morte, ma di sensi di colpa.

Cominciò il suo delirio senile. Si sentiva responsabile delle disgrazie che flagellavano il mondo. Era per colpa sua che non s’avverava la Gerusalemme Celeste, che non sorgeva il Terzo Tempio. I suoi comportamenti, le cose che aveva fatto e quelle che non aveva fatto, allontanavano Dio ed erano causa di sciagure remote e imperscrutabili: un’inondazione nel Bengala, una carestia nel Sahel. Leggeva sui giornali notizie di tragedie e se ne imputava la colpa, per qualche meccanismo segreto di compensazione che uno spirito interno rivelava soltanto a lei. Compiva o aveva compiuto atti o omissioni che avevano conseguenze catastrofiche. Poco dopo aver licenziato Adele, perché non poteva più permettersela, l’Irpinia fu devastata dal terremoto. Il nesso tra i due fatti alla zia parve evidente. Le sue azioni gridavano vendetta agli occhi di Dio, che puniva il mondo per questo.

Quando entrò in quello stato, era quasi alla fine. Ma ebbe il tempo di commettere un’ultima sciocchezza, ancora per un uomo. Non le restava più molto delle sue sostanze, però aveva ancora quell’appartamento in Via Lovanio che sarebbe certamente bastato a sostenerla negli ultimi anni. Poteva venderlo e vivere largamente di rendita fino alla fine.

Ma se lo fece portar via in modo infame dall’ultimo, il più lurido dei suoi gigolò. Che rilevò la nuda proprietà della casa in cambio di un vitalizio. Ottenne questo dalla zia, ormai obnubilata, posso immaginare in che modo. Lei aveva già quasi ottant’anni.

Non lo percepì per molto, quel vitalizio. Poco meno di un anno dopo quello sciagurato atto di vendita, la zia morì, in circostanze più o meno misteriose che furono infine derubricate a una dose eccessiva di tranquillanti assunta quasi inconsapevolmente, tra quelli di cui a quel tempo faceva abitualmente uso. L’armadietto del bagno era pieno di psicofarmaci. Una sorta di suicidio involontario, insomma. In cui, penso io oggi, non dovrebbe essere difficile immaginare quale parte ebbe l’uomo che, con la sua morte, si prese la casa e smise di pagare il vitalizio.

Ma per la notte del suicidio quello aveva un alibi di ferro. E per sostenere certe accuse, o illazioni, ci vogliono prove. E poi questo accadeva tanto tempo fa, anche se credo che l’uomo o i suoi eredi vivano ancora in quell’appartamento, accanto alla mia vecchia scuola, davanti alla quale mi capita di passare di quando in quando.

* * *

Inutile scavare nel letame. Esce altro letame. Della zia pazza preferisco ricordare quei pomeriggi di posa. Il mio studio di nudo, che non vidi mai, non seppi neppure se lo completò. E quei pochi quadri che mi restano di lei. Nell’ultimo periodo la sua pittura s’era fatta più astratta, più cupa. Aveva abbandonato le figure. S’era ridotta a vampate di colori forti, pennellate perentorie inferte su fondo nero. Aveva del tutto perso quel tocco minuzioso e impersonale, quasi miniato, quel talento provinciale e artigiano che di lei apprezzavo e che a me ricordava Bruegel il Vecchio.


Accanto al titolo, Agnolo Bronzino, “Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni”, 1545.

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