Daniela Matronola
A proposito di "Sembrava bellezza”

La piccola bellezza

Dal nuovo romanzo di Teresa Ciabatti spunta una Roma pariolina, volgare e fasulla nella quale i personaggi restano sospesi tra mito e cronaca. Ma è pur sempre un mondo nel quale a molti tocca in sorte di essere reali...

Chi odia copia. Riformulo: chi invidia imita. Ho letto Sembrava bellezza, di Teresa Ciabatti (Mondadori 2020, pag.239, 18€.), e questo ho desunto dopo aver cavalcato le pagine animate di questo romanzo che a mio parere fa due cose: individua una malia che scorre subdola tra gli abitanti del Truman Show occidentale, lunapark mesto e trasversale; e trova la chiave femminile di lettura di questo mondo riassunta e sostituita (per sineddoche e metonimia) da una immagine che ogni tanto ricorre, anzi martella, come tutto qui, la Ruota.

C’è un terzo punto nevralgico, ed è la scrittura, il jazz che assorbe ogni afflizione spazio-temporale restando in quel meandro elastico e sistematìvo (sì, con la “v”, e l’accento sulla seconda “i”) che è il mondo interiore, da cui tutto sorge, in fondo.

Analizziamo. 

Il libro discute la bellezza e pone come elemento classico di riferimento il mito biondezza. E anche il mito occhi azzurri, e il mito pelle abbronzata. E ripesca il mito piscina cui aggiunge il mito lettino solare. Cioè disegna il perimetro (parola in questi giorni, altrimenti gravi, di moda) entro cui da qualche decennio ci dibattiamo, per sentimento indotto, come tra fibre secche e stringenti di camicie di forza che ci sono state calcate addosso fino a deformare dall’esterno le nostre identità intime. Tutto naufraga nella contemplazione della superficie. Tutto poi consiste in chi riassume in sé questo pugno di qualità. Nel caso di specie Livia, col suo nome antico, cui (nell’immaginario della coppia tipo Barbie e Ken) corrisponde Massimo, entrambi (apoteosi) esponenti di una pariolinità (abitare ai Parioli, per chi non è di Roma –  “borgata Parioli”, sibilava un arguto architetto anni fa), che non è la pariolinità ordinaria di Piazzale delle Muse, e nemmeno di Piazza Euclide, ma è la pariolinità esclusiva e medioccidentale di Monti Parioli, e di una scuola, di un liceo, il Mameli, teatro di angosciose tattiche giovanili che, un giorno, quei giovani, diventati (perlomeno all’anagrafe) adulti, ricorderanno come il vetrino sociale che li ha cresciuti e deformati in modo indelebile.

Il superamento è un po’ la storia delle loro vite, legato all’evoluzione fuori controllo di tutte le premesse allora seminate. Qui si innesta l’azione demiurgica dell’autrice che copre anche molti altri ruoli: è il contrappeso (ragazza insufficiente opposta sbagliata) rispetto a Livia, bellezza-modello, e in secondo grado, ma pur sempre con fulgore, della sorella minore Federica, entrambe pure rampolle di aristocratica gens, cui la nostra può opporre solo la propria paesanità borghese, seppure di pregevole toscanità (alla pariolinità, spesso, si collegano prestigiosi addentellati con l’Umbria e la Toscana, modello, anche questo, offerto all’analisi un po’ spietata un po’ concorde del romanzo); è oggi la scrittrice affermata il cui punto di forza, più che i libri, sono inchieste e reportages sul mondo degli adolescenti, sui disturbi alimentari e l’autolesionismo che li segnano, anche queste indagini spietate su un mondo che la “nostra” esplora per intercettare molti anni dopo i propri stessi drammi di giovanissima sofferente; la fama nel tempo ha ribaltato il suo remoto (mai rimosso) ruolo di ragazza ignorata, e fa di lei oggi una donna con un suo ruolo-chiave nel balletto sociale, una che desta ammirazione; è ex-moglie, e madre (verrebbe da dire ex, anche qui) che nel proprio privato ha continuato dopotutto a ripetere tutti gli errori attivati dalla propria autosottovalutazione; in questa ambiguità personale, la narratrice, che si è spostata per dare il centro della scena, riconoscendosi come sempre comprimaria, all’attrice principale, e agli attori di immediato secondo piano, a un certo punto coglie la propria funzione di catalizzatrice in cui coincidono tutti i piani evolutivi e di genere che in questo romanzo sono oggetto di esplorazione.

Per esempio leggiamo tra pagina 42 e pagina 43: «Questa è sì la storia di Livia, ma nel profondo, in senso universale, è la storia delle ragazze di quella generazione. Questa è la storia di Emanuela Orlandi, che, nonostante fossero passati sei, sette anni, poi otto, nove, era ancora nella nostra mente. La parte eroica di noi, quella che fronteggiava i rapitori – nell’angolo oscuro della nostra immaginazione, figuriamoci l’immaginazione come una grotta. Nell’angolo Emanuela eroica, e via via più fragile. Vieni qui, dicevamo nell’intimo a quella parte dispersa. Non piangere..

«Pomeriggio davanti alla tv.

«Sullo schermo l’immagine di Emanuela, ricorrono cinque anni, la famiglia chiede di non dimenticare, dice la voce della giornalista.

«Falla finita, scatta Livia rivolta a qualcuno che non siamo noi, una terza ragazza invisibile, Emanuela, un concetto. La somma di tutte noi.

«Sbuffa, chiede di passarle il telecomando. Non c’è qualcosa di più allegro?

«Mentre noi palpitiamo per avere un ragazzo, Livia è stufa. A diciassette anni  ha avuto ogni tipo di esperienza sessuale, stando alle confidenze che ci fa le poche volte che è a casa.

«Vorrei delle emozioni diverse, dice.

«Tipo?

«Qualcosa che succede solo a me.

«Una sera ci avrebbe rivelato di essere andata nel famoso negozio, aver preso abiti a casaccio, essersi barricata nel camerino. Ci rivela di aver chiuso gli occhi, e aspettato che si aprisse la botola sotto i piedi».

Più volte nel libro salta fuori il nome di Emanuela Orlandi, ragazza di cui notoriamente si sono perse le tracce il 22 giugno dell’83, e spesso è messo in relazione, nel libro, a una presunta botola di cui si parlò, un passaggio nascosto nei camerini di prova in un negozio del centro di Roma dove, trattandosi di pezze, affluivano le adolescenti che lì sarebbero state adescate per foraggiare la tratta delle bianche. Ma le due cose in realtà non è accertato fossero collegate, col tempo sembra acclarata l’ipotesi che Emanuela, 15 anni allora, sia stata rapita ed eliminata per aver visto qualcosa che non avrebbe dovuto, vicino e dentro il Vaticano – suo padre era commesso presso la prefettura pontificia.

In effetti la malattia, una sociopatia smussata dal tempo ma mai eradicata, solo occultata, che attanaglia la voce narrante, ha come sintomo predominante questo rimbalzare tra Emanuela Orlandi e Marilyn Monroe, due figure diverse, entrambe tragiche, scelte anzi percepite come emblemi di giovinezza e bellezza, minacciate e poi soppresse dalla gelosia collettiva. L’“uso” della Orlandi mi è parso pornografico. È chiaro il meccanismo perverso per cui una come lei, allo sguardo distorsivo della realtà di chi pretende attenzione perché patisce di non rispondere ai canoni richiesti per destarla (di non essere come Livia, e nemmeno come Federica), possa essere percepita pur sempre come figura centrale di una tragedia, un’eroina tragica appunto, o possa forse esser stata invidiata perché sparita dunque sottratta agli affanni del vivere che la voce narrante ha dovuto invece sopportare senza peraltro avere mai una centralità ma tenendo sempre una costante marginalità. Però tirare in ballo la Orlandi è strumentale e terribile.

Ogni tanto emerge anche l’allusione alla strage di Columbine, come se da un lato restasse dominante la rabbia e il disagio di chi è adolescente, il senso di rivalsa che rischia di incarnarsi appunto in una strage, in una vasta vendetta, e dall’altra quella distorsione, quella azione perversa, covata e preparata nel buio di una coscienza insana, fosse un trionfo di odio cullato come sogno, un progetto proibito, “la nostra Columbine”, l’estremo sviluppo di una mente repressa.

Poi ci sono ancora un paio di elementi, forse tre, da esplorare.

Da un lato, il dettato: l’andamento sincopato di questa prosa che a volte racconta, a volte riassume, a volte analizza fenomeni creando un corto circuito tra eventi di vita vissuta e fatti di cronaca o include nel tessuto della narrazione stralci di interviste e reportages di cui è autrice la protagonista decentrata, che nel frattempo è diventata famosa e collabora con i rotocalchi (quest’ultima piega del tessuto narrativo genera delle note a piè di pagina che per la verità ricorda una modalità assunta da Angela Scarparo nel proprio esordio, Shining Valentina, romanzo Mondadori del ’92) – un andamento a singhiozzo che rende la fidelizzazione del lettore alla lettura impervia: nella sua megalomania di voce narrante e bandolo di ogni prospettiva in questo romanzo la protagonista decentrata a pagina 164, in una delle molte occasioni in cui punta dritto al lettore e lo insidia, dichiara che se si è rimasti lì a seguire le sue prodezze, rivela che non di storia di rivalsa trattasi ma di «una faccenda privata di espiazione».

Dall’altro lato, l’happy ending dal sapore amaro che qui non raccontiamo e tende a dare alla protagonista decentrata un risarcimento insperato e non so quanto goduto: la “nostra” ci rivela che, anche se a un certo punto si è tutti passatelli e bolsi, però gli occhi con cui si guarda a chi ritroviamo, e ci degna di un’attenzione affatto opposta alla distrazione e alla indifferenza dei tempi della scuola, ci permettono di scovare ancora, nell’uomo abufito che abbiamo davanti, il giovane insuperabile ambito da tutte e immeritato dalla dea egoista. Sembra immaginazione e invece pare sia realtà.

È da apprezzare l’elastico-tempo, e la prodigiosa macchina di attualizzazione del racconto che è il prevalere della narrazione al tempo presente: come a voler dire, ciò che è accaduto è tuttora operante, ed è memoria, per quanto distorta (o personale), indelebile.

Ancora di più, in stretta connessione a quanto appena detto, è da apprezzare quel dichiarare infine, Io c’ero, ero lì, io c’entro, ero nella macchina che ha prodotto i fatti seppure altrimenti ricostruiti. La “nostra” finalmente esce allo scoperto, e dice di sé l’unica verità che conta: in questa chiave mi pare si possa leggere anche il rapporto madre-figlia raccontato nel libro.

Questo terzo elemento ha il potere di rovesciare il guanto.

Tutto il corredo di fenomeni studi analisi ricostruzioni di vicende altrui è studio di sé, finalmente, condotto per controfigure e interposti quadri. Il movimento di macchina è rapinoso, mosso, agitato, ravvicinato, e trascina al centro della scena una protagonista decentrata che ha tenuto stretta la presa sui fatti con la forza della voce e delle sue rocambolesche impennate. Onestamente, ascoltando l’autrice relazionare su questo suo ultimo libro, gli scoppi di risate per la soffusa ilarità -a stento dissimulata- connaturale a certe miserie della vita, comiche in radice, viene spontaneo fiutare nel tessuto del romanzo anche fili robusti di divertimento, porti vocalmente con una punta di dissacrazione. 

Ma soprattutto, riprendendo le formule di esordio di questo articolo, direi che questa nuova, finale centralità abbatte l’esercizio di copiatura quindi spegne l’odio, riduce anzi elimina ogni desiderio di imitare quindi risolve anzi dissolve ogni mal riposta invidia. E permette di riconoscere il proprio caso nella sua irripetibile unicità. Questo il risultato, e l’antidoto a una altrimenti inevitabile antipatia – e/o imperdonabilità.

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