Michela Di Renzo
La storia di un'ossessione

La cartella elettronica

«Mi risveglio e mi guardo attorno: sono a letto, in una stanza di ospedale, da sola, e sento un dolore tremendo alla pancia. Sollevo piano piano il lenzuolo e vedo spuntare dal mio addome due tubicini, pieni di un liquido verdastro...»

La luce al neon del box è così forte che pur tenendo gli occhi chiusi sembra di essere in pieno giorno e la barella dura come una roccia preme fastidiosamente contro la mia schiena indolenzita. Eppure è proprio ora, nel momento in cui cerco di isolarmi il più possibile dalle voci concitate delle infermiere, dal chiacchiericcio dei barellieri, dalla sirena delle ambulanze che arrivano ogni ora, proprio ora dicevo mi torna in mente la mia prima volta, ovvero quando tutto questo è cominciato. Gli psicologi, e credetemi io ne ho incontrati parecchi, sostenevano che era impossibile che non avessi alcun ricordo della mia prima infanzia. Si vede che avevo bisogno del rumore di fondo che regna sovrano in ogni pronto soccorso, perché mi comparisse davanti l’immagine della chiesa dove la mamma, che è sempre stata molto religiosa, mi portava ogni domenica mattina quando avevo solo tre anni: le panche di legno ben allineate, la navata in pietra lunga e stretta, l’odore dolciastro dell’incenso, le voci dei ragazzi del coro e i suoni delle loro chitarre.

Io me ne stavo seduta in silenzio senza fare rumore, ben attenta ad alzarmi in piedi tutte le volte che lo faceva lei, con gli occhi fissi al pavimento per non cadere perché i miei piedini arrivavano a stento ai lastroni di marmo. Ed anche il bancone della pasticceria dove ci fermavamo sempre dopo la cerimonia si staglia netto di fronte a me: un mare di caramelle mou dove la commessa affondava le mani curate per raccoglierne un paio di manciate da sigillare con un bel nastro rosa in una busta trasparente. La stessa mano dalle unghie smaltate indovinando la mia acquolina in bocca mi allungava una mou prima che io e la mamma uscissimo dal negozio.

Era allora, mentre tornavamo piano piano a casa, mano nella mano, che la mamma mi raccontava delle sue giornate durante la settimana, di quello che aveva cucinato per la mensa dove lavorava, degli studenti che scherzavano tra di loro mentre facevano la fila, della ragazza che appena bocciata all’esame non voleva assolutamente mangiare, ma che lei aveva convinto ad assaggiare la pasta al forno: la mou si scioglieva lentamente in bocca, attenta com’ero a non masticarla perché durasse il più a lungo possibile. Poi la mamma dopo qualche anno cambiò lavoro, fu assunta dalla mensa dell’ospedale e cominciò a lavorare anche la domenica mattina. Alla messa andavamo qualche volta nel pomeriggio ma era talmente stanca e nervosa che non ci fermavamo più a comprare le caramelle lungo la via del ritorno e in casa le mou cominciarono a scarseggiare. Una domenica sera frugando per bene nella credenza dove stavano di solito trovai nel sacchetto vuoto una cartina arrotolata, l’involucro di una caramella succhiata qualche mese prima. Lo aprii piano piano, lo stirai accuratamente con le dita e lo annusai: l’odore era forte ed invitante, iniziai a leccarlo e piano piano a mangiucchiarlo. Certo non era proprio la stessa cosa ma era sempre meglio che niente.

Alle elementari Monica era la mia compagna di banco oltre che la mia migliore amica: eravamo inseparabili. Abitando nella via parallela alla mia, ogni pomeriggio facevamo i compiti insieme, a volte da me ma più spesso a casa sua, dove studiavamo in cucina sotto l’occhio vigile di sua nonna, una vecchietta tutta accartocciata che sapeva a stento leggere e scrivere ma che cucinava delle torte fantastiche. Noi due eravamo un abbinamento perfetto perché io, più brava in matematica, risolvevo rapidamente i problemi mentre Monica che era più ferrata in italiano mi aiutava a scrivere i pensierini. Alle cinque arrivava il momento di far sparire i quadernoni dalla tovaglia di plastica con i papaveri rossi per fare merenda col ciambellone o con la crostata di marmellata appena sfornati.

Fu alla fine della quarta elementare che mio padre rincasando a casa per pranzo mi buttò là come per caso la notizia che Monica alla fine dell’anno scolastico sarebbe andata a vivere a Milano: suo padre, anche lui impiegato di banca come il mio, aveva vinto il concorso di funzionario e veniva trasferito, portandosi dietro tutta la famiglia. Mi si fermò in gola il boccone di pane che stavo masticando, ma senza farmi notare lo buttai giù con una bella sorsata di acqua. Qualche pomeriggio dopo, mentre sia Monica sia la nonna mi davano le spalle, ritagliai con le forbicine che tenevo nell’astuccio delle matite un paio di petali rossi dalla tovaglia. A casa li nascosi in fondo al cassetto delle mutandine. Ogni tanto nei pomeriggi della quinta elementare trascorsi da sola sul divano a guardare la tv dei ragazzi li tiravo fuori e li stringevo tra i denti. Erano duri da sbriciolare ma nell’arco di un anno riuscii a ridurli in poltiglia e mangiarli.

Un’infermiera si avvicina per controllare la flebo. Mi chiede in fretta “Tutto bene?” e subito dopo aver sentito il mio “sì” scappa via. Ho incrociato il suo sguardo solo per pochi secondi ma i suoi occhi azzurri mi hanno fatto pensare a quelli di Laura. Anche se non eravamo più in classe insieme perché lei che detestava studiare era stata bocciata in prima liceo, continuavamo ad essere amiche del cuore. Anche se a ripensarci ora né io né lei ce lo siamo mai dette. Alle sette di sera, dopo aver già trascorso un’oretta buona al telefono insieme, ci trovavamo puntuali come orologi svizzeri al colonnino di Vallerozzi per la consueta passeggiata per il corso. Anzi come dicevamo a quei tempi “per fare una vasca”. Dopo mezz’ora ci fermavamo alla pizzeria a taglio dove io mangiavo il mio trancio di margherita come antipasto prima di rientrare a casa per cena, mentre lei che teneva molto alla linea spiluzzicava un ciaccino. Era da lì che passavano ogni martedì affamati come lupi i fratelli Palmieri di ritorno dalla palestra: a me piaceva quello più piccolo, cicciottello e sempre sorridente mentre lei faceva gli occhi dolci al maggiore, sicuramente più atletico ma dallo sguardo scostante. Alla festa di fine anno però fu il minore ad invitarla a ballare per tre lenti di seguito finché si misero a pomiciare sul divano proprio davanti ai miei occhi. A casa, dalla rabbia, feci a pezzetti la foto che tenevo sul comodino di camera e che ritraeva me e Laura abbracciate ai piedi della Torre Eiffel durante la gita scolastica. Da quel giorno l’ho evitata sia a scuola sia per il corso e ho smesso di rispondere alle sue numerose telefonate, anche se subito dopo che avevo riattaccato, mentre mi concentravo sulla versione di latino o di greco, mi mettevo in bocca uno dei frammenti della foto che custodivo gelosamente nel cassetto della scrivania. All’inizio sapeva di rancido come il burro andato a male ma dopo un poco mi sembrava buono. Nel giro di qualche mese la foto scomparve, giusto il tempo che lei si lasciasse col Palmieri e smettesse di cercarmi.

Il dolore alla pancia diventa più forte e mi viene quasi da vomitare. Strano perché non sono mai stata debole di stomaco. Provo a suonare il campanello che sta accanto al cuscino ma non arriva nessuno. Oddio, a ripensarci bene a volte mi veniva una leggera nausea dopo aver cenato con Marco, il mio primo e unico ragazzo, che aveva fatto la scuola alberghiera e che aspirava a lavorare come cuoco in uno dei migliori ristoranti del centro dove peraltro non l’hanno mai preso. Ci eravamo conosciuti in palestra dove cercavamo entrambi di smaltire i chili di troppo; tutto era cominciato come un’amicizia perché io ero l’unica tra le sue conoscenze pronta a sperimentare i suoi manicaretti, all’inizio fedelmente ricalcati sul Cucchiaio d’argento ma poi sempre più fantasiosi, come le trofie allo zabaione o la crema brulé al baccalà. È stato però un classico babà al rum il responsabile del primo bacio: quella sera io ne avevo mangiati una decina e fui costretta a sdraiarmi sul divano tanto mi girava la testa. Quando lui mi prese per le spalle sfiorandomi il viso, l’odore delle sue labbra mi sembrò irresistibile ed iniziai a leccarle. Un mese fa mi ha mollato per una magra come un’acciuga e vegana. Da allora ne ho provate di tutte per sentirmi un po’ meglio: la sciarpa di lana che mi aveva regalato per il compleanno e con cui mi stringeva forte a sé davanti al McDonald dove lo avevano assunto, le mutandine di pizzo rosso del nostro primo capodanno, persino la lettera con cui mi ha lasciato.

È arrivato il chirurgo, un signore di una certa età, stempiato, con un paio di baffi bianchi e lo sguardo rassicurante. “Manuela tranquilla” mi dice “dobbiamo andare in sala operatoria perché la Tac dell’addome ha mostrato qualcosa di strano nella tua pancia, qualcosa che dobbiamo portare via, perché è come dire, di troppo.” “Strano, strano davvero” penso mentre mi vengono le lacrime agli occhi dalla paura perché in realtà io avverto spesso un vuoto allo stomaco.

Mi risveglio e mi guardo attorno: sono a letto, in una stanza di ospedale, da sola, e sento un dolore tremendo alla pancia. Sollevo piano piano il lenzuolo e vedo spuntare dal mio addome due tubicini, pieni di un liquido verdastro. Giro leggermente la testa alla ricerca del campanello per chiamare qualcuno. È allora che riconosco sul comodino due oggetti familiari dentro a due vasetti di plastica: l’elastico per i capelli con cui Claudia, l’insegnante del corso di pilates che ho frequentato lo scorso anno e da cui sono scappata dopo poche lezioni perché ero la più imbranata di tutte, si annodava la sua splendida chioma bionda. Ed un foglio di carta tutto accartocciato: sicuramente appartiene al libro di Chimica organica anche se ormai le formule sono illeggibili. Il professor Casini teneva delle lezioni così belle che era un piacere tornare a casa e studiare il volume scritto da lui qualche anno prima. All’esame dopo avermi dato trenta e lode, l’unico che abbia mai preso, mi chiese se volevo fare il tirocinio nel suo laboratorio. Io accettai di corsa ma dopo qualche mese lui andò in pensione e al suo posto nominarono la sua allieva prediletta, una dottoressa famosa per la sua bellezza e per la sua ignoranza. Inutile dire che ogni tanto riaprivo il suo testo e ne divoravo letteralmente qualche pagina.

Mentre ripenso al sapore un po’ stantio di quelle reazioni a catena entra un giovane col camice bianco. È minuto, con i lineamenti aggraziati e lo sguardo più dolce che abbia mai visto; si presenta educatamente come uno specializzando dell’ultimo anno e poi mi chiede: “Manuela come stai?”. Io non mi sento un granché ma per non deluderlo rispondo: “Tutto bene.” “Ti dispiace se dò un’occhiata al tuo addome?” Mentre mi visita avverto un discreto fastidio ma la sua mano è rassicurante e delicata. “L’operazione è riuscita perfettamente, per fortuna l’intestino non era perforato, però dovrai stare ancora a digiuno per qualche giorno.” Prende la cartella clinica e dopo aver tirato fuori una stilografica dalla tasca del camice inizia a scrivere. Il suo volto è così bello che non riesco a trattenervi lo sguardo per cui mi concentro sulla penna che mossa dalla sua mano compie degli svolazzi sul foglio di carta. “Ricordati che se hai bisogno di qualcosa una volta dimessa, puoi cercarmi qui in reparto. Io sono Andrea Bovicelli. Questo è il numero del mio cellulare” mi sussurra allungando un pezzettino di carta. Prima di uscire dalla stanza mi stringe la mano e mi sorride.

* * *

Mi hanno dovuto operare di nuovo. Questa volta non sono sola in una camera di ospedale ma il mio letto è accanto a quello di altre persone che riesco appena a intravedere dietro al paravento di stoffa azzurra. Se solo mi togliessero questo maledetto tubo dalla bocca, allora sì che potrei girarmi con calma e guardarmi intorno. Sono sicura che riuscirei anche a respirare meglio. Si avvicinano due camici bianchi con il volto coperto dalle mascherine. Quando arrivano accanto a me riconosco immediatamente i suoi occhi. Distolgo lo sguardo da quanto sono belli e mentre il mio affanno aumenta sento i due medici bisbigliare: “C’erano tre pagine di fotocopie della cartella clinica accartocciate contro le austrature del colon oltre al tuo biglietto da visita all’ingresso del tenue. La madre mi ha detto che ha cercato di chiamarti diverse volte perché il dolore all’addome era ricominciato”. “Mi dispiace, ma chi andava a pensare che mi avrebbero rubato il cellulare il giorno dopo la sua dimissione”. Almeno non ha evitato di rispondere alle mie telefonate, penso mentre mi sembra di affogare. “Comunque ora dobbiamo insistere con la direzione sanitaria perché introduca la cartella elettronica. Cerca di fare una relazione clinica estremamente dettagliata. L’intervento è andato bene peccato per…” Il mio fiatone aumenta ancora mentre in lontananza si perdono le parole “insufficienza cardiaca”. All’improvviso una mano, la sua, stringe la mia. Compio uno sforzo immenso, lo guardo e tento di dire “Ciao”. Ma lui mi interrompe togliendosi la mascherina ed avvicinando il suo volto al mio: “Manuela non parlare, respira dentro al tubo, resto qui io accanto a te finché c’è bisogno”. Riesco a sostenere il suo sguardo solo per pochi istanti, perché mi pesano troppo le palpebre ma continuo ad avvertire la sua presa forte che non mi molla; mentre un sonno profondo mi assale, per la prima volta in vita mia non sento più quel maledetto buco allo stomaco.

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